L’ospite che arriva

Il 7 aprile, a Firenze, presso British Institute of Florence, Ferragamo Room, si è tenuta la presentazione di La penultima illusione, alla presenza dell'autrice Ginevra Bompiani, con Laura Barile e Costanza Buttinelli, a cura di Ideerranti, Il Foyer Amici della Lirica di Firenze, Libreria Libraccio e Società Dante Alighieri, con accompagnamento musicale della pianista Yasuda Mina. Qui con piacere riportiamo l’intervento di Costanza Buttinelli che tocca il tema della maternità e delle diversità affrontato da Bompiani nel libro.

[di Costanza Buttinelli]

Nell’affrontare il piacere di parlare di questo libro, il mio primo interrogativo è stato: come distinguere il discorso sul testo da quello sull’autrice, quando l’uno e l’altro sono così strettamente correlati, come in questo caso?

In La penultima illusione troviamo infatti il racconto della vita di Ginevra Bompiani dai suoi primissimi anni fino al momento presente, marcato dalla scelta recente e importantissima di convivere con una ragazza somala fuggita dal suo paese, a lei affidata come tutrice.

I protagonisti della sua narrazione sono quindi Ginevra, N. (il rapporto tra loro), e il Tempo, un Tempo che fin dall’esergo, una citazione da Finale di partita di Beckett (“Dieu a fait le monde en six jours, et vous n’etes pas foutu de me faire un pantalon en trois mois?” “Mais Monsieur, regardez le monde et regardez mon pantalon“), viene rivelato nella sua relatività e percezione soggettiva.

N. è del tutto diversa da Ginevra. È africana, somala, è fuggita dal suo paese straziato dalla guerra a tredici anni, dopo che i terroristi di Al-Shabaab le avevano ucciso il fratello e portato via il padre, e anche per sottrarsi a un matrimonio combinato con uno di lo. Ha affrontato due anni di viaggio passando per il Kenia, il Sahara, il carcere libico. Noi sappiamo che questi viaggi attraversano l’orrore. Si parte per salvarsi ma nel tragitto la salvezza sembra un miraggio, e per molti non ci sarà.

N. invece ce la fa, è dotata di una personalità forte, capace di sostenere prove durissime. Ha alle spalle una storia familiare difficile e dolorosa. La madre di N. è stata picchiata e ridotta in sedia a rotelle, per punire la figlia della sua fuga.

Fotografie dall'evento con l'autrice.

Alcune considerazioni sul libro. La prima riguarda la scrittura. Una scrittura finissima, misurata, elegante, che scava in profondità negli eventi e nei vissuti, consapevole in modo pieno, fortemente introiettato; una scrittura colta e salda, talvolta ironica, lontana da ogni lirismo, spesso capace di fermarsi sulla soglia dei fatti con pudore rispettoso, tanto dei sentimenti della narratrice che dei personaggi comprimari.  Questa scrittura così precisa non è mai gravosa, qualcuno l’ha definita cristallina. Io la direi traslucida, come Bompiani definisce se stessa.

La seconda considerazione riguarda il Tempo. E il suo trattamento. Un Tempo che non si svolge in modo lineare. Il momento raccontato è segnato da due numeri, il primo indica l’età dell’autrice all’epoca della narrazione, il secondo l’ordinalità nel testo.

Ginevra Bompiani ci dice che intende far dialogare le sue vite trascorse con quella attuale, il passato con il presente. Questa scelta narrativa sembra assecondare l’affiorare dei ricordi per libere associazioni di idee, come indicando una consuetudine nella frequentazione costante del proprio inconscio, e per la familiarità dell’autrice con la psicoanalisi di cui lei stessa racconta; questa possibilità mi sembra particolarmente interessante, anche per l’originalità di una idea di tempo vissuto quasi fuori da esso, in una dimensione intima e profonda e, proprio per questo, tanto più autentica e rivelatrice.

La terza considerazione riguarda il titolo e la parola illusione, in esso contenuta. In italiano questo termine ha un connotato lievemente negativo, se ci si illude si andrà incontro a una delusione; inevitabilmente la realtà, con i suoi limiti, infrangerà il sogno, il desiderio, la costruzione del progetto. Invece, qui, la parola viene usata in un’altra accezione. Già nel suo libro Mela Zeta, edito da Nottetempo nel 2016, Ginevra Bompiani aveva utilizzato la parola illusione nell’accezione spagnola, ilusion, nel capitolo dedicato a José Bergamin, amico e poeta. In questo libro la riprende: «E a proposito dell’illusione, mi sembra di aver messo a fuoco il suo rapporto con la verità. L’illusione non nasce dall’inganno, ma dalla verità, o da una sua evidenza, e procede tenendola stretta senza lasciarla deperire.»

 

Ora un accenno all’incipit: «Nous les Africains, on vit peu à peu.»

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«Stamattina ho capito che i giorni, anzi gli anni, di colazioni a letto erano passati, quando un flebile ticchettio alla porta della camera mi ha avvertito che la colazione era pronta e che ero in ritardo. In realtà non ero in ritardo, non avevo nessuna fretta io, ma lei, la piccola faccia Bruna a cui dissi: avanti. È lei che ha scuola alle 10.30 ed erano le 9.45. Io potrei poltrire quanto voglio, e invece no. Ci aspetta la colazione sul tavolino tondo del soggiorno. Ognuna la sua, in silenzio, perché lei ci mette un po’ a trovare la giornata. Sebbene agilissima, è lenta. Non affretta il passo per strada quando siamo in ritardo, non rinuncia a scrutarsi in ascensore, è flessuosa e sbadigliante la sera sul divano quando guardiamo una serie alla televisione. E a tavola spesso fissa il silenzio davanti a sé, malinconica e trasognata. Sembra pensosa e forse non lo è. Forse pensa solo di notte e i pensieri non la fanno dormire.»

Questo brano proietta subito nel vivo della relazione con N. e nella parte più vibrante del libro, rivelando un aspetto che, a mio avviso, trascende il rapporto con N. e si estende sia alla scrittura che al bisogno dell’autrice di prendersi cura e offrire riparo a una giovane vita.

La diversità tra le due protagoniste, anzi, le diversità, tanto presenti quanto il desiderio di Ginevra di accogliere N., vengono senza indugio dichiarate. E si capisce altrettanto presto che sarà possibile superarle solo attraverso la mobilitazione di risorse complesse, risorse che Bompiani ha sapientemente costruito e affinato nel corso della propria vita.

Il loro rapporto, le loro dissonanze, mi hanno fatto pensare al contrappunto di certa musica polifonica. Una musica composta da due voci diverse, quella di Ginevra che canta ferma la melodia principale e quella di N. disarmonica rispetto a lei ma che comunque riesce a trovare una forma di armonia nella melodia del loro rapporto, più che negli accordi armonici, ovvero le regole formali richieste da Ginevra.

«È iniziato il Ramadan. Credevo di sapere che cosa fosse, ma ogni giorno si apre una nuova regola, una nuova impossibilità. Il mio cane nero fulvo, con i suoi buoni occhi intelligenti e il suo entusiasmo per le gite in macchina, è messo al bando. N. non può toccarlo. […] E la sera, è inutile che mi inventi piatti che potrà rimangiare alle tre di notte, senza doverli cucinare, perché ogni sera cucina lei i piatti suoi, Sumbus, Ngera, Muffah…fatti di farina, latte, uova, impastate e lievitate e poi fritte in tre dita di olio, da soli o ripieni di carne, cipolla, carote, immersi in una salsa di pomodoro. La cucina, in verità la casa, è invasa di odori che non ha mai subito. […] Mi sembra di avere veramente a che fare, per la prima volta, con la diversità. Per tutta la vita ho sempre preferito l’altro a me. Non ho mai preteso somiglianza. […] Il mio espediente è sempre quello di toccare tana di tanto in tanto, ritrovarmi dopo essermi persa nell’altro. Ma ora non posso toccare tana. Perché sono nella mia tana. E anche lei è nella sua tana. Siamo ciascuna nella propria tana e insieme in quella dell’altro, in agguato.»

Ginevra Bompiani nasce in una famiglia molto speciale. Il padre Valentino, di cui quest’anno si è celebrato il trentennale della scomparsa, è stato uno dei più geniali protagonisti della nostra cultura, e la sua casa editrice una delle più importanti nel nostro paese. La vita di Ginevra è costellata di incontri con protagonisti della cultura italiana ed europea. Tra questi alcuni avvengono tramite le relazioni paterne e altri arrivano dopo, non meno importanti. Il libro è costellato di nomi, la lista è vertiginosa per quantità e qualità.

Ginevra Bompiani ha vissuto una vita straordinariamente piena. Josif Brodskij, in una intervista rilasciata a Gabriella Caramore nel 1993, afferma: «Non sono le circostanze a creare uno scrittore, quanto piuttosto il contrario: uno scrittore, ciò che ha scritto, crea le proprie circostanze. Gli scritti di una persona non dipendono dalla sua biografia. È la biografia che deriva dagli scritti.»

In virtù di questa riflessione vorrei sottolineare la capacità creativa sempre coerente e orientata di Ginevra Bompiani che costantemente ha scelto da quale posizione influire sulla realtà. Fin dai tempi dell’occupazione del cinquecentesco palazzo Nardini di via del Governo Vecchio a Roma, da parte del movimento femminista, lei, cofondatrice del gruppo Rivolta Femminile, ha dato lezioni di scrittura alle donne che frequentavano il Governo Vecchio, come a Roma chiamavamo familiarmente quello spazio. Ha poi insegnato in varie università, all’estero e a Siena, continuando a trasmettere a giovani studenti le proprie passioni e conoscenze della letteratura inglese; ha fondato Nottetempo, piccola casa editrice indipendente che si è distinta sia per la qualità editoriale dei suoi libri, che per le qualità letterarie dei suoi autori. È andata di persona a Sarajevo, quando la storica splendida biblioteca andò distrutta in un incendio, mentre in città c’era il coprifuoco e dalle colline sparavano i cecchini, per portare nella città assediata libri e beni di prima necessità su un furgone Ducato donato dalla Fiat.  Si è recata a Srebrenica, presso le donne sfuggite al massacro.

È partita per la Mauritania, per Cinghuetti, inseguendo il progetto delle Biblioteche del Deserto; ha incontrato Annalena Tonelli, la missionaria cattolica uccisa in Somalia dal terrorismo islamico nel centro di cura della tubercolosi che aveva fondato e dirigeva.

E a ottanta anni ha cercato e trovato una forma di maternità, ma verso una giovane migrante, accogliendo nella propria vita non solo lei, ma con lei un tornado di emozioni contrastanti. Perché gli incontri bisogna meritarseli, come Ginevra stessa afferma.

Alcuni sono fortuiti, certo. Ma bisogna comunque saperli riconoscere, «aspettiamo l’atteso ed è l’ospite che arriva» come dice Wittgenstein in una proposizione che Ginevra usa come esergo di un suo piccolo libro prezioso: L’attesa, pubblicato nel 1988 per la prima volta.

Questo libro sembra anticipare ciò che accadrà nella vita di Ginevra circa trent’anni dopo. E se ciò che vi è scritto non è un presagio, è certamente rivelatore dell’attitudine esistenziale dell’autrice, proprio come dice Brodskij. Il terreno, psichico, per l’ospite, va preparato. L’ospite ci chiede di accoglierlo, di fargli spazio nella nostra vita, di scendere a patti con le sue e con le nostre parti più puntute e ci chiede di incontraci su un ponte tra la nostra lingua e la sua, tra la sua cultura e la nostra.

«Tutto quello che comincia ha in sé un po’ d’infanzia” dice Ginevra. E aggiunge, qualche pagina più in là: “La pienezza è quello di cui sono andata sempre in cerca. Una pienezza che colmasse il vuoto dell’infanzia.»

E allora mi viene in mente la postfazione che Ginevra ha scritto nel 2005 per un libro meraviglioso di Natalie Sarraute, Infanzia, inspiegabilmente non ristampato, in cui dice: «[...] l’infanzia (come dice la parola) è il momento della sensazione che cerca la sua lingua.»

E penso che il dialogo tra le vite trascorse e il presente forse sta cercando di trovare la propria lingua, su quel ponte teso tra N. e Ginevra.

C’è differenza tra una maternità naturale e questo genere di maternità che Bompiani si è data? Certo che sì, molte differenze, ma non credo sostanziali. «Ciascuno cresce solo se sognato», ha detto Danilo Dolci in una affermazione tanto citata quanto esatta. Questa affermazione è così eloquente perché indica come la relazione con l’altro, un altro attento, premuroso e accudente, generoso ascoltatore e specchio, sia fondamentale per ciascuno di noi, per la costruzione, da piccoli,  della nostra capacità di giocare che pian piano si trasforma in  capacità espressiva, realizzativa: in breve, nella capacità di essere creativi, come lo psicoanalista e pediatra inglese Donald Winnicott espone nella sua teoria sull’oggetto transizionale, nel libro Gioco e realtà, pubblicato in Italia nel 1990. E allora, mi chiedo e chiedo alla autrice che scrive «La scrittura mi tiene in vita»: la scrittura e, quindi, la parola, il racconto, non sono forse lo spazio che lei così bene conosce e domina, da narratrice, saggista, traduttrice, editrice, per entrare in relazione con l’altro?

Come una Sherazade che vive finché è capace di narrare, interrompendo il racconto per poi riprenderlo, come inseguendo illusioni a cui dar forma, affinché il Re la ascolti e capisca che quel racconto gli è indispensabile per vivere.