È il 3 settembre 1938, e io, un bimbetto felice di otto anni, cammino verso il centro di Folgaria con 30 centesimi in tasca. Ho l’incarico di andare a comprare il “Corriere Padano”, giornale di Ferrara. Non lo trovo perché nei paesi di villeggiatura, passato agosto, arrivano solo i quotidiani nazionali. Così, compro il “Corriere della Sera” e mi accingo a tornare a casa. Strada facendo, apro il giornale e noto un grande titolo che occupa tutta la pagina. Ormai sono grande e, purtroppo, so leggere:
INSEGNANTI E STUDENTI EBREI esclusi dalle scuole governative e pareggiate.
Capisco subito che la cosa riguarda anche me: a ottobre dovrei frequentare la quarta elementare. Cosa significano queste parole? Non potrò più andare a scuola? Perché? Certo, sono ebreo, ma che differenza c’è fra me e gli altri bambini? E se anche ci fosse una differenza, perché non dovrei più andare a scuola? A dire il vero, non sono mai stato uno scolaro brillante né ho mai avuto un amore particolare per la scuola, ma veramente non mi sarà più permesso di andarci? Mi si velano gli occhi. Piango? No, forse no, ma quando raggiungo i miei a casa, mi precipito fra le braccia della mamma. I grandi mi si fanno intorno, sbigottiti, frastornati, offesi. Perfino increduli. Leggono e rileggono i titoli, poi tutti gli articoli.