di Giusi Quarenghi, 201o
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Davvero non ci basta più l’infanzia come tale? O piuttosto è troppo faticoso lo scavo che lo scrittore deve intraprendere per catturarla e trovare quei momenti, impalpabili e insieme radicali, che ne caratterizzano l’essenza e la storia? I grandi autori sono ben consapevoli della difficoltà e della sofferenza di questa sfida, anche quando si tratta di ricordare se stessi. [...]
La consapevolezza di questa difficoltà e la serietà nel cogliere la sfida, più che in tutto questo bailamme di libri per adulti, di copertine con visi in primo piano che guardano il lettore come per richiedere aiuto o compassione, si trova in una piccola collana di libri per ragazzi Gli anni in tasca che si distingue da subito per la sua grafica sobria, pulita e raffinata e che meriterebbe ben altra attenzione anche da un pubblico più ampio. Obiettivo degli editori, i Topipittori, è quello di provare a chiedere a scrittori, poeti, pubblicitari, illustratori, studiosi di ricordare e ritrarre sé da bambini, andare a scoprire com’era laggiù, muoversi a tentoni verso un’età perduta, condannata a prendere consapevolezza di sé solo quando non c’è più. Quello che conta nel progetto è l’autenticità del ritratto, anche a prescindere da chi siano i potenziali lettori, giovani o adulti. Alcuni di loro sono riusciti nel tentativo di rievocare la loro infanzia, altri un po’ meno, e altri ancora invece hanno fallito completamente, non sono riusciti a trasformare le memorie personali in veri racconti d’infanzia, sono rimasti impigliati in un’aneddotica che non si trasfigura in ritratto universale, come ci ha insegnato il grande Roald Dahl con il suo Boy. Quello che è davvero interessante è comunque andare a vedere quali sono le strategie via via adottate per cercare di catturare l’infanzia, e quasi sempre sono vie indirette, oblique, come di chi sa che un approccio frontale sarebbe inutile. [...]
Ma il titolo che più di tutti è in grado di porsi di fianco a Boy e nel mio scaffale ideale dei racconti d’infanzia è Io sono il cielo che nevica azzurro di Giusi Quarenghi: lì c’è tutta l’alterità bambina, c’è la trasfigurazione del personale nell’universale, c’è la resa di un’epoca lontana che però sembra lanciata in una macchina del tempo per arrivare fino a noi, perché filtrata da un’età che si muove per i paradigmi del mito, non per periodi storici. “Contro le ginocchia nude si accanisce la forza di gravità. È assodato. Correvo, inciampavo, cadevo: era una sequenza obbligata. Le ginocchia prendevano nota e tenevano il segno. Le bende non resistevano. Via, sciacqua subito con l’acqua della fontana, togli bene terra e ghiaietto, non far andare il sangue sulle calzette. Poi bisogna disinfettare. Alcol, alcol, alcol, niente disinfettanti analcolici, non c’erano. E non gridare, guarda dove metti i piedi piuttosto. Né caramelle, né parole di consolazione; solo, impara a stare attenta quando corri, o vai adagio.
Mai una volta che la mamma desse la colpa ai sassi o alla strada, brutti cattivi che fanno cadere la mia bambina. – Ma mi fa male –, piangevo io, – sono caduta. – – E tu dov’eri? – faceva lei. Già, dov’ero? La domanda aveva il dono di sigillarmi le lacrime. Perché mi chiedeva dov’ero?
Lì ero, lì, ne portavo anche i segni, ne avevo le prove. Già, ma se ci fossi stata davvero, anche con la testa intendeva lei, non avrei riportato né segni né prove. Ho imparato presto che se non ti aspetti consolazioni, il male passa prima.”
Da Tanti bambini, nessun bambino di Giordana Piccinini, Gli Asini, 2012.