di Antonio Gramsci e Viola Niccolai, 18,00 euro | Acquistalo su Topishop
È successo che ho visto l’albo La volpe e il polledrino e mi sono innamorata del libro. C’è la storia, quella che Gramsci scrive a suo figlio Delio dal carcere: è una storia piccola, miscela di ingredienti quotidiani, che sa di casa e di campo e di gioco. Senza morali, senza buoni, senza magie, senza artifici: un’intensa storia minuta.
E poi ci sono le tavole di Viola Niccolai che abbozzano spazi che in qualche misura mi sembrava di conoscere – eppure il libro è ambientato nella Sardegna dell’inizio del Novecento e io con la Sardegna ho condiviso poco. [...] La volpe e il polledrino è la parte pratica della sua tesi di laurea incentrata sugli scritti gramsciani per l’infanzia. [...]
Gramsci, nei lunghi anni di prigionia, costruisce una trama di corrispondenze epistolari che paiono ruotare attorno al perno della memoria. In quella lotta per aggrapparsi all’umanità logorata dalla demenzialità di pratiche alienanti e mortificanti – volte a rendere la vita «monotona, uniforme, senza sbalzi» (Lettera a Tania, 15 gennaio 1927) – Gramsci cerca rifugio proprio nel ricordo.
Sembra che scriva alla famiglia fondamentalmente per ricordare e per farsi ricordare: evoca episodi della sua infanzia pregando che vengano riferiti ai figli nel continuo sforzo di costruire una relazione con loro, pregando che le sue lettere vengano lette e condivise con Delio e Giuliano, come se queste potessero essere veicolo di semi di sé capaci di germogliare – forse, un giorno, chissà – in loro.
È necessario, come scrive a Giulia, «salvare dalla crisi ciò che di bello c’è pure stato nel nostro passato e che vive nei bambini nostri» e le chiede di aiutarlo a «conoscere sempre meglio i due bambini e partecipare alla loro vita, alla loro formazione, alla affermazione della loro personalità in modo che la mia “paternità” diventi più concreta e sia sempre attuale e così diventi una paternità vivente e non solo un fatto del passato» (Lettera a Giulia, 9 febbraio 1931).
Dipinge il microcosmo nel quale viveva, le scoperte piccole e fondamentali della sua infanzia, l’esplorazione dello spazio attorno a sé: la natura si offre come il teatro esperienziale ed emotivo che permette al bimbo di conoscere il mondo, e – attraverso l’esperienza dei propri limiti e delle proprie possibilità – anche se stesso.
Il rispetto nei confronti dell’infanzia passa attraverso la fedeltà al reale, che non viene falsato né edulcorato: la natura appare meravigliosa di per sé, perché capace di rapire, affascinare ed educare, senza bisogno di magia o morali. La fantasia è il «dar voce al mondo», l’essere in grado di aprirsi alla grandezza delle cose – che sono essenzialmente potenti ed evocative nella loro concretezza materica. In queste lettere, fra queste storie, nasce il racconto de La volpe e il polledrino: un testo asciutto, senza morale, che Viola sceglie di tagliare eliminando i preamboli e la chiusura della lettera.
La natura è restituita senza romanticismi, nella sua durezza, nonostante i colori accesi e vivaci. Non esiste un processo di estetizzazione sognante: il pascolo è marrone, il verde smeraldo che abitualmente colora gli alberi e i prati è bandito.
Forse questo è uno dei particolari che più mi ha innamorato del libro: era chiaro che l’asprezza del monte fosse stata disegnata da una persona che la campagna l’aveva respirata e che lo sguardo appiattito, nostalgico e vagamente primitivista del campo dolce non aveva spazio fra queste pagine.
Da Una recensione illustrata a “La volpe e il polledrino” di Antonio Gramsci e Viola Niccolai (Topipittori 2014), di Irene Barrese, su Il lavoro culturale (17/02/2015).