[di Elisa Galeati]
Caldo, forte, abbondante e sempre pronto: è il tè, o meglio ancora è il tè nella cultura anglosassone.
L'abusata frase "Non vi è nulla di più British del tè delle cinque" rende bene la forte valenza culturale e simbolica che la bevanda riveste nella società inglese sin dal Seicento.
Poco meno di duecento anni più tardi sarà la duchessa Anna di Bedford che, per placare il suo senso di fame, chiederà di servirle del tè accompagnato da dei dolcetti, poco prima delle cinque. E così chiacchiere, pettegolezzi e fantasie divennero l'ingrediente principale del "tea time", un rito domestico trasversale ad ogni classe sociale.
Anne Mary Stanhope, duchessa di Bedford
Non fingerò ora di nascondere la sconsiderata passione per questa bevanda che si cela dietro il mio racconto. Mi trovavo, come ogni anno, alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna e anelavo a una tazza di tè per riprendermi da tutto quel girovagare. Ero davvero esausta, in parte stanca di guardare, sovraccarica di stimoli al punto da non riuscire più a vedere davvero nulla. Fu lì che mi misi a cercare, per puro amore del gioco, tazze di tè. Trascorsi un'ora di beata spensieratezza, divertita dalla rinnovata energia con cui mi accingevo a scandagliare le tavole illustrate dell'esposizione in cerca di vasellame da tè. Ne trovai una grande varietà: teiere borbottanti, tazzine elegantemente appoggiate sul cappello di un fungo, mani e zampe che versavano liquori fumanti. Fu solo più tardi, nel mio viaggio di ritorno in treno, che l'appagamento giocoso del cerca-trova si trasformò in pensiero. La mia ricerca, infatti, non era limitata agli oggetti che riguardano il tè bensì all'atmosfera, alla sensazione generata da esso.
Immagine tratta da Under the Window; Pictures & Rhymes for Children di Kate Greenaway, 1879
Mi riferisco a quella particolare combinazione di elementi che ancor più che nelle parole funziona nelle immagini. Perchè se in Italia dico ‘tè’ c'è chi subito pensa a una fetta di limone e a un mal di pancia da curare, ma se con un'immagine rievoco la sensazione intima e piacevole di benessere, di protezione che si prova quando si è al sicuro a casa, circondati dall’affetto di persone care o calati in una solitudine confortevole, allora la tazza di tè diventa immaginario comune, espressione diffusa di cosiness, ossia la felicità del conforto. Ma è sempre stato così? Davvero una tazza di tè illustrata ha da sempre veicolato questa sensazione intraducibile che i danesi chiamano “Hygge”?
Oltre alle illustrazioni, molti libri sulla storia del tè riportano fotografie e dipinti in cui generazioni di bambine giocavano attorno a un tavolino con eleganti servizi da tè in miniatura ed è storicamente accertato che tutti i bambini di buona famiglia, di epoca edoardiana e vittoriana, fossero molto affezionati al rito del tè, al quale associavano l'immagine dei dolciumi e l'atmosfera rassicurante della nursery.
Tea Party vittoriano
Prendere il tè è dunque, al di là delle sue origini orientali, una pratica tipicamente inglese, spesso invocata a conferma dell'identità nazionale e supportata nel suo immaginario da vignette umoristiche quali quelle ideate dal fumettista Pont (alias Graham Laidler) nel suo libro The British at Home in cui possiamo osservare divertiti un gruppo di inglesi che, immersi in una natura selvaggia e terribilmente piovosa, coprono con i loro cappotti il fuoco su cui sta bollendo una teiera, allo scopo di offrirle adeguata protezione. Non esiste, dunque, forma di intemperie che li privi della loro tazza di tè e non esiste avventura tra terre lontane e isole incantate che non sia subordinata ad essa, come ben ci ricorda J.M Barrie in Peter Pan: «Vuoi che partiamo subito per la nostra avventura – domandò Peter – o preferisci prendere il tè? Prima il tè – rispose Wendy.» Prendere il tè implica uno scambio, va quindi oltre la pratica del bere, per divenire a tutti gli effetti un evento codificato da precise regole non scritte, il cui richiamo, nella letteratura per l'infanzia, viene ribadito con l'intento di sovvertirle in senso fantastico. Ecco dunque una selezione degli esempi che desidero richiamare all'attenzione.
The British at Home by Pont of Punch, 1939
Ne Una tigre all'ora del tè di Judith Kerr, al lettore viene proposta un'improbabile situazione in cui una tigre, animale selvaggio per eccellenza, bussa alla porta di casa della piccola Sophie e si autoinvita al tè del pomeriggio. La tigre, assai disinvolta ma seduta decorosamente a tavola, mangia biscotti e pasticcini, beve tè con il latte e, non paga, passa a svuotare il frigo e la dispensa, lasciando la cucina a soqquadro ed esaurendo le scorte d'acqua della casa. E alla fine, tutta gentile, dice: «Ora è meglio che vada. Grazie per il tè e arrivederci!». Nella prima illustrazione, che precede l'arrivo della tigre, assistiamo a una classica scena in cui la madre sorregge in modo appropriato la teiera e versa il tè alla figlia, mostrandole il comportamento corretto con cui una padrona di casa accoglie gli invitati. La figura della madre è dunque il legame più forte con la cultura dominante, fin quando quella imponente della tigre si sostituirà a essa introducendo un elemento disgregante e al tempo stesso giocoso, che confligge con le energie civilizzatrici che avevano inaugurato la storia. Sul tavolo vediamo le tazzine ribaltate e la tigre, appoggiata allo schienale della sedia, che beve il tè direttamente dalla teiera, trasgredendo a ogni regola del galateo. Sia noi osservatori esterni che Sophie e la mamma, rimaniamo attoniti ma soprattutto sfrenatamente divertiti. Sono pagine che ci seducono perchè, come scrive Giorgia Grilli, «solo nel loro essere diverse costituiscono, per l'adulto, lo specchio deformante di cui ha bisogno per vedere il mondo (e se stesso) da un altro punto di vista, sovversivo e illuminante rispetto a quello ufficiale».
Judith Kerr, The Tiger Who Came to Tea, 1968
Un altro Tea Party molto famoso della storia della letteratura viene animato da forze selvatiche e sovversive e mi riferisco ovviamente a quello illustrato da John Tenniel, in Alice nel paese delle meraviglie. Pur essendo in bianco e nero, le presenze carnevalesche del Cappellaio Matto, con il suo cappello iconicamente grande e il papillon a pois, e quello della Lepre Marzolina, le cui orecchie sono agghindate da spighe di grano, animano di colori sgargianti la scena. Inoltre, cambiano sempre posto a sedere, si versano il tè caldo sul naso e si infilano in modo disdicevole all'interno della teiera o siedono su poltrone maestose che mal si addicono a un tè sotto gli alberi. Eppure, a differenza di Sophie che abbraccia la tigre, qui Alice rimprovera aspramente gli altri partecipanti al tea party e li accusa di comportarsi in modo alquanto incivile. La natura del selvaggio è qui potente e Alice, che presto capirà che nessuno ha la benché minima intenzione di rispettare le regole del tè, si alza e li abbandona. Indubbiamente questa sua reazione riflette un contesto sociale, quello vittoriano, in cui il tea time era ancora un'arte aristocratica e borghese, rigida nelle regole, che raggiunse un alto grado di sofisticazione nelle grandi famiglie e dove trasgredire avrebbe costituito un evento deplorevole, per nulla emozionante o spensierato. Il tea party descritto da Lewis Carroll è assimilabile a una "festa folle" che come scrisse M. M. Bachtin, riferendosi al Carnevale, «era in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù», ma che d'altro canto ribadiva e confermava l'ordine sociale. Mentre il comportamento della tigre ci lascia con un'aura di mistero ed eccitazione, quello del Cappellaio e della Lepre ci esaspera.
John Tenniel
Sempre di rovesciamento parliamo quando si cita uno dei personaggi più misteriosi e inafferrabili della letteratura per l'infanzia, eppure così familiare: si tratta, infatti, di Mary Poppins, creata dalla penna di Pamela Lyndon Travers. Sì perchè se c'è una figura che sa stare perfettamente tra l'ordine e il disordine è lei. Per chi ha confidenza con la serie di romanzi pubblicati dal 1934 al 1988, ricorderà che le famose uscite ‘fuori porta’ in compagnia della tata rappresentano sempre una forma di sovversione rispetto a quanto è usualmente valido nella prospettiva quotidiana delle cose. Ne è un esempio il "tè sul soffitto" nel secondo libro Il ritorno di Mary Poppins. Prima però è opportuno specificare che il valore conferito al tè negli altri capitoli è più genericamente legato al concludersi o al sospendersi di un'avventura e al ritorno alla sfera domestica. Alcune frasi ce lo ricordano, quali «dovete andare tutti al parco e giocare lì fino all'ora del tè» oppure «Tre e mezza. Ora del tè – disse Mary Poppins , girò la carrozzina e chiuse di nuovo la bocca come se fosse una botola» o ancora «Adesso il tè e a letto!». Il tè, quindi, era visto come spazio di condivisione familiare, dove il rituale educava i bambini alla puntualità, all'ordine e ai valori della socialità e delle formalità.
Julie Andrews e Walt Disney, Walt Disney Archives
Quanto, invece, accade nel capitolo in cui lo zio Albert invita la combriccola per il tè è precisamente l'opposto. Lo zio è difatti propenso alla risata facile e lascerà sbigottiti Jane e Michael che lo osservano divertiti mentre «rideva rimbalzava e ballonzolava nell'aria, con il giornale in mano e gli occhiali che gli andavano su e giù per il naso». Quando anche i bambini raggiungeranno lo zio bislacco, a suon di risate, si troveranno a dover risolvere un problema: il tavolo festosamente apparecchiato per il tea party è rimasto a terra e sarà Mary Poppins, che con piglio inappuntabile e malcelata superiorità, lo porterà magicamente sul soffitto. Lei d'altronde può farlo senza perdere un grammo di compostezza: può perchè è leggera come il vento. E che delizia questo gas esilarante, allegoria del potere contagioso della gioia, che ci ricorda il prezzo che si paga quando prendiamo la vita troppo sul serio. Solo la penna della Travers e la matita di Mary Shepard potevano tratteggiare un rituale del tè così eccentrico, che sovverte le regole comuni e in cui i bambini imparano anche loro a volare, ad accogliere l’incertezza e l’imprevisto. Quel salto all'insù, quel bere il tè andando in alto è una possibilità di chi sa prendere possesso di una capacità immaginativa perturbante, legata all'ignoto. E ignoto, forse inafferrabile, è per noi occidentali ‘l'altro tè’, quello delle origini.
Illustrazione di Mary Shepard e una scena del film della Disney
Proprio lo scorso settembre i Topipittori diedero alle stampe un libro assai speciale, mi riferisco a La cosa nera di Kiyo Tanaka. Scrive Giovanna Zoboli «La casa della cosa nera, dove si entra da una breccia nascosta, è circondata da un giardino rigoglioso e curato. Vi è ordine e spazio, e vi sono oggetti interessanti, come un tavolino basso, con tutto l’occorrente per disegnare, sormontato da un telo su cui sono appesi piccoli quadretti» e aggiungo io, c'è il tè in una forma estetica meno conosciuta. Non solo infatti dalla presenza del profumo dei fiori e dell'erba fresca cogliamo che è primavera ma anche dalla disposizione di alcuni oggetti con cui noi occidentali abbiamo invero poca dimestichezza. C'è ad esempio, sul tatami, il Furo: il braciere in uso da maggio a ottobre, su cui poggia una teiera in ghisa.
Immagine di @omotesenkeUOEH su X
Le tazze sono chawan, ampie ciotole di ceramica senza manico. Nell'illustrazione precedente la bambina e la cosa nera camminano per il sentiero spostandosi a destra e a sinistra, seguendo i sassi disposti in modo che a ogni angolo sia possibile ammirare un fiore o una pianta regolarmente curata, come solo i giapponesi sanno fare. Man mano che proseguiamo con loro i rumori della strada e del commercio si fanno sempre più lontani fino ad arrivare ad una casetta chiamata chashitsu che è appunto la stanza del tè. Qui si respira un'atmosfera strana, si respira ‘l'istante’. Il tempo sembra bloccato e anche noi, assieme alla bambina, siamo come intrappolati in quest'aura di calma e silenzio. Il testo recita «Nessuna risposta». La cosa nera rimane in silenzio: niente risate, chiacchiericci, niente dolci. Non a caso il monaco buddista zen, Sen no Rikyū, che ha codificato la Cha no yu (da noi occidentali conosciuta come Cerimonia del tè) scrisse «Ci si dovrebbe rendere conto che la via del tè è solo bollire l'acqua, preparare il tè e berlo (...) e dare a coloro con cui ti trovi ogni considerazione». La stanza stessa finisce per essere sia uno spazio fisico che spirituale: la cosa nera ha gli occhi semichiusi e sorseggia il tè mentre la bambina cinge la tazza, come se ascoltasse il suono dell'oggetto, il respiro dell'altro. Ho chiesto alla mia maestra del tè giapponese cosa pensava di questo libro, soprattutto di questa sequenza illustrata e lei mi ha scritto «c'è accoglienza, un momento di confidenza, stanno comunicando, è l'inizio di un'amicizia». Ecco, in questo mondo onirico, lontano dal frastuono e dagli affanni del mondo, il tè è per me una soglia e difatti ci accorgiamo che la bambina si è tolta le scarpe, ascolta e riconosce il fruscio che fa quella porta, sa di poterla attraversare.
La cosa nera
D'altra natura è invece l'ochakai (ovvero un'informale ‘assemblea per il tè’) vissuto dalla bambina di Una festa inaspettata di Akiko Miyakoshi. Qui, in un giorno d'inverno dopo una fitta nevicata che copre ogni cosa di un bianco abbagliante, Kikko si incammina tra gli alberi del bosco con un pacchetto. Il padre ha difatti dimenticato di portare alla nonna una torta e la bambina lo segue in fretta, tentando di raggiungerlo. Quando crede di averlo finalmente visto avvicinarsi alla porta di una strana casa, solo sbirciando timidamente dalla finestra si accorgerà che quello non è affatto il padre, ma un enorme orso col cappotto. Un senso di lieve inquietudine e stupore ci pervade: cosa nasconde questa casa misteriosa? Lo spaesamento si protrae nell'illustrazione successiva in cui una variegata congrega di animali ci fissa ad occhi sgranati. Sono tutti seduti ad un tavolo sontuoso dove campeggia un'elegante teiera di fattura classica, all'occidentale. Lo scioglimento delle tensioni arriva nella pagina successiva dove Kikko viene accolta con calore e viva cordialità. Il suo cuore batte forte e, invitata da una cerva a raccontarsi, ella bisbiglia la sua missione attraverso il bosco. La bambina siede, in un'inquadratura frontale, a capo tavola. Sembra una citazione di Alice, con la differenza che qui gli animali appaiono sinceramente interessati e la ascoltano seduti su entrambi i lati. L'illustrazione di questa lunga tavola imbandita che trabocca di bricchi, teiere, torte, frutta e vasi di fiori, ci rasserena, ci coinvolge emotivamente, ci fa guardare con gli occhi intimoriti ma curiosi della bambina. Il tè è qui un veicolo di relazione, sostanza magica che appiana gli iniziali (ben giustificati) timori, bevanda che conforta l'estraneo e lo fa sentire accolto, perché, come conclude il libro «nel bosco non sei mai solo».
Akiko Miyakoshi
E se davvero è così, ci rammenta sapiente la letteratura, è bene ricordare che non tutti quelli che incontri nel bosco saranno sempre sinceri. In un'ultima storia, che vorrei qui citare, l'invito ad un tè assume un carattere assai sinistro. A farne le spese sarà una bambina di nome Lucy, blandita da un suono che incanta: quello del flauto di Tumnus, il fauno. Ne Il leone, la strega e l'armadio, primo volume del ciclo di Narnia di C.S Lewis, originariamente illustrato da Pauline Baynes, l'elemento perturbante giunge al termine, tradendo quell'accoglienza così domestica, così familiare. Nel salottino del fauno arde un vigoroso fuocherello, in un attimo il bricco dell'acqua bolle per il tè, le pareti sono coperte di scaffali coi libri e poi c'è «il pane abbrustolito con le sardine, il burro, il miele nonchè la focaccia con la crosta di zucchero vanigliato», c'è il raccontare di ninfe che partecipano a danze di mezzanotte, di driadi che escono a giocare sotto la luna piena, di cortei dionisiaci. C'è infine il flauto di Pan, la cui ambiguità dolciastra, avrebbe finito col condurre la piccola Lucy tra le grinfie della Strega Bianca, se Tumnus non avesse per tempo svelato l'inganno.
Illustrazione di Pauline Baynes
E così tra ribaltamento e perturbante, c'è chi non disdegna la raffinata seduzione di una porcellana di Meissen e chi invece predilige quella imperfetta di una tazza Raku. Ciò che però davvero resiste è la letteratura, soprattutto quella per l'infanzia la cui irriverenza, contro ogni buon senso, è soglia d'accesso privilegiata alla migliore tazza di tè.