Tre cose che mi hanno colpito molto

Non ho seguito le olimpiadiinvernali a Sochi, perché non sono particolarmente appassionatadi sport invernali. Per caso mi è capitato di vedere la prova delpattinatore statunitense Jason Brown.
Qualche giorno dopomi sono imbattuta in Michael Grab, artista che dedica la suavita a impilare sassi.
Questi due personaggi me ne hannorichiamato alla mente un terzo, Philippe Petit, che nel 1974  hacamminato in equilibrio su un cavo metallico teso tra le Twin Towers delWorld Trade Center. Qualche anno fa, ho visto un documentario su di lui,Manon Wire, diretto nel 2008 da James Marsh, basatosul libro scritto da Petit, Toccare le nuvole.
Queste tre persone, secondo me, hanno in comune alcune cose: laprima è la straordinarietà di quel che hanno fatto o fanno.

La seconda sono idue elementi su cui si fonda questa straordinarietà: la naturalezzaassoluta con cui eseguono cose al limite delle possibilità; e,appunto, il fatto che le loro prestazioni sono al limite dellacomprensibilità tecnica per quello che è un regime di normalità(sebbene sappiamo che ciò che fanno è possibile, continua ad apparireimpossibile il fatto che qualcuno lo riesca a fare). La terza è chetutte e tre queste attività sono fondate sull'equilibrio. La quintaè che la ragione per cui queste tre persone fanno quel che fanno èche, grazie a una disciplina severissima a cui si sono sottoposti,hanno interiorizzato l'equilibrio come una sorta di organo interno,di sesto senso. Credo poi che tutti e tre, come si evince per esempiodal documentario su Petit, sappiano anche che questa facoltà nonè data per sempre, ma è transitoria, legata a stati mentali e amomenti dell'essere particolari, non del tutto controllabili.
Alla fine della sua incredibile prova di pattinaggio, Jason Brownsi è fermato, ha salutato il pubblico, poi ha chinato la testa e sel'è presa fra le mani in un commovente gesto di incredulità, che haespresso bene lo sgomento dell'atleta per quel che era appena riuscitoa fare. 

Spesso ci si chiedequanto conti la disciplina (e cosa effettivamente sia), in tutti i campiin cui la si ritiene importante, per cui anche in quello in cui lavoro(scrivere, disegnare, fare libri). Io credo che osservare bene questitre esempi dia una risposta chiara. Intanto la disciplina non è uncorpo di regole da seguire automaticamente e passivamente, bensì, miviene da dire, una forma complessiva di comportamento ispirata a principifondamentali la cui applicazione, mai scontata, ma sempre problematica,richiede costante cura, attenzione e concentrazione. Una disciplina nonfornisce risposte preconfezionate, ma indica una direzione. Se e comepercorrerla sta a chi decide di prenderla. E questo significa, ogni volta,osservare, comprendere e applicare in che modo sia meglio eseguire ognisingolo passo o gesto, in base a ogni singolo momento e condizione. Valea dire operare una scelta corretta fra molte possibili. Una disciplinalascia la responsabilità della sua applicazione a chi la pratica, nonesautora, come per esempio capita con l'apprendimento di una prassi. Inquesto senso l'assoggettarsi a una disciplina è, in sé, una pratica diequilibrio. Stare in equilibrio significa trovare una misura giusta nelfare le cose, non applicare regole che in quanto tali si pensa possanorisolvere i problemi solo per il fatto di averle applicate. Stare inequilibrio, per esempio, significa trovare il modo di procedere su uncrinale lungo il quale stanno conoscenza tecnica e conoscenza di sé,impersonalità e personalità, rispetto della norma e suatrasgressione, istinto e ragione, coraggio e prudenza,forza e fragilità, movimento e stasi, abbandono e controllo,fiducia e diffidenza, raccoglimento e condivisione, gratuitàe necessità, passato e futuro, e si potrebbe continuare.

Disciplinarsisignifica sapere che procedere lungo questo crinale è possibile, ma ancheche l'aver trovato la forma dell'equilibrio oggi non ci garantisce chequesta si ripresenti sotto il medesimo aspetto, e replicando i medesimipassi, domani. Motivo per cui domani bisogna ricominciare da zero, comese nulla fosse stato fatto, e tutto quel che si sa e si è sperimentatofosse da rimettere in discussione. In questo senso, essere disciplinati,in sé, è un esercizio complicatissimo, faticosissimo e impegnativo. Loscoglio della frustrazione è enorme ed è la fatica vera e principaleda affrontare, qualunque cosa si voglia intraprendere. Qualunquerisultato si voglia ottenere in qualsiasi campo, proviene dallacapacità di disciplinarsi che, in sé, corrisponde all'eserciziostesso dell'equilibrio. E l'esercizio dell'equilibrio altro non è chel'esperienza che corpo e mente fanno nell'affrontare le cose alla ricercadi una misura esatta fra interno ed esterno, visibile e invisibile:che si tratti di stare in equilibrio danzando sul ghiaccio o di farstare in piedi una colonna di sassi diversissimi per peso e dimensionio di camminare su una corda sospesa sul vuoto.

Poi c'è un momento, ma è solo un momento,che può essere chiamato 'stato di grazia', in cui la persona diventala forma stessa dell'equilibrio, lo incarna come uno stato naturaledell'essere. Scompare allora la fatica della scelta, lo sforzo delladisciplina. E l'equilibrio diventa abbandono. Philippe Petit ha raccontatoche, dopo i primi passi lungo il cavo teso fra i grattacieli, eseguiti inuno stato di grande tensione, improvvisamente, inaspettatamente ha provatouno stato di perfetta gioia. In questa condizionale mentale, che mai piùha provato per il resto della vita, per 45 minuti ha camminato, avantie indietro, inginocchiandosi, sdraiandosi, rialzandosi, percorrendo ilcavo da una parte all'altra, mentre giù in strada, era l'alba, la gentea poco a poco, si radunava a guardarlo, stupefatta e commossa, incredula eatterrita, euforica ed entusiasta. Petit ha affermato anche che dopo averevissuto quell'esperienza statisticamente impossibile ha capito che èpossibile fare qualsiasi cosa.
E, a mio avviso, non perché,come dicono tutti i manuali di self-education, basta volerlo. Ma proprioperché si rinuncia a volere, per fare una compiuta, consapevolissima e altempo stesso impersonale esperienza di sé e della realtà. Che forse èla cosa più difficile per un essere umano.