di Giovanna Zoboli e Joanna Concejo, 2015
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“C’era una volta”, ci dice il titolo: siamo nella fiaba, il patto di finzione è stabilito, fin dall’inizio. In copertina il lupo, nero, e la bambina, rossa: una promessa di manicheismo morale, il bene e il male. Cappuccetto rosso, dunque, rito di passaggio, crescita: eh, sì, siamo indubbiamente nella fiaba. Apriamo il libro e… ci accorgiamo subito che le cose non prendono la via che ci aspettiamo. Ecco, per prima cosa incontriamo il bosco, due doppie pagine: bellissimo, il bosco di Joanna Concejo; non il bosco buio e spaventoso, ma odore di felci e abeti, qui, resina, aria buona, una luce calda che proviene dall’alto, a sinistra. Questo ci raccontano le due doppie pagine iniziali. Ma qual è il mondo che circonda la bambina? La madre è la grande assente in questa storia, la bambina è “invisibile”, sola, nessuno ad ascoltarla, la nonna è una paladina degli stereotipi più biechi, intenta solo ad agitare un futuro catastrofico fondato su antichissimi dettati, fatto di “attenta agli sconosciuti, attenta a te”, e nella sua casa, sopra la sedia del narratore, un chiaro monito: trofei di caccia alla parete. La fine è nota. Molto efficace la prosa poetica di Giovanna Zoboli: come si potrebbero altrimenti rappresentare i mezzi discorsi, le frasi senza coraggio, il detto e non detto, i luoghi comuni con cui gli adulti si compattano ai danni dei ragazzi nell’età della crescita, quando non sono più i piccoli, fiduciosi pargoli adoranti, pronti a seguire qualunque cosa venga loro dall’adulto, quando crescono e cercano il proprio posto nel mondo, quando avrebbero diritto ad essere creduti degni di fiducia, ritenuti capaci di autolimitarsi, di sbagliare e di imparare dagli errori e di capire in autonomia quando e dove sia il pericolo? Questa fraseologia poetica, mai compiuta, fortissima è lì a descrivere la demagogia che circonda la bambina. Ma la bambina è accolta dalla natura, dal bosco, grande, immenso protagonista di questa storia, che la ascolta, la vede, le parla e, soprattutto, ne è ascoltato. Succede ogni duemila anni che qualcuno si accorga che il bosco ulula, fischia, sì, ma è anche un meraviglioso, delicato, profumato, compagno di vita per noi esseri viventi su questo pianeta, necessario, il bosco, non per essere distrutto a nostro uso e consumo, ma come fonte di essenza, scoperta, di esperienza, soprattutto nell’infanzia. Il bosco si fa lupo, la bambina e il lupo si vedono, si parlano, si legano. [...] A chi parla questa storia? È una fiaba, e come ogni fiaba, non è scritta per bambini né per aduti né è scritta per adulti per poi essere successivamente adattata ai bambini. Invece, come succedeva nei racconti del focolare, è un racconto per tutti. Parla dunque ai bambini? Perché no. Ognuno ne coglierà ciò che serve, riservandosi un livello di comprensione più profondo per il futuro. Agli adulti? Certo. Chi vorrà, saprà ascoltare, guardare questa storia, queste immagini potenti, forse vivrà con un brivido il ricordo della propria adolescenza braccata, o magari più libera e selvaggia di quella che oggi ha deciso di concedere al proprio figlio. Ma soprattutto parla a loro, ai giovani, ai ragazzi in cerca di un luogo, di un ascolto, di una possibilità di far vibrare il proprio presente, le proprie possibilità di incontro, di vivere nella natura, e che invece, sempre più, si trovano soli, alle prese con le case, prigioni dorate, sempre più chiuse, alle prese con i “non devi”.
Da È la parola che ci rende uguali, di Sonia basilico, in Il blog dei Topipittori, 16/03/2015
Il testo è una rielaborazione della fiaba di Cappuccetto Rosso a cura di Giovanna Zoboli e le illustrazioni sono opera di Joanna Concejo. La Zoboli è una scrittrice, editor e curatrice editoriale ed è la fondatrice, insieme a Paolo Canton, della casa editrice Topipittori. Joanna Concejo è un’illustratrice polacca. La sua matita è precisa, paziente e minuziosa e le sue illustrazioni racchiudono un alone di sacralità che le rende gravi e quasi spaventose. Nelle immagini della Concejo traspare qualcosa che si potrebbe chiamare “anima”: niente è affidato al caso, tutto nasce come frutto di una relazione profonda e vitale dell’illustratrice con il foglio e la matita. Vi si scorge una concentrazione assoluta, una devozione, quasi, nei confronti del disegno: le sue tavole sembrano emergere da un grande silenzio ed anche un grande freddo. Come se ogni tratto nascesse da un mondo lontano e saggio e arrivasse ad essere disegnato dopo avere percorso una strada di consapevolezza. Sono immagini sempre vive e piene di verità: di verità scomode, di solitudine, di introspezione, di coscienza. Tutto ha senso, quando è la Concejo che disegna. E poi c’è la storia. La storia di tutti e di sempre, rivista con estrema raffinatezza dalla Zoboli. Una madre, una figlia, una nonna, un lupo, un cacciatore. E una casa e un bosco. C’era una volta una bambina. [...] Cappuccetto rosso è sulla soglia: ferma appena prima del bosco, del sempreverde intenso degli abeti, il viso verso il lettore che già sa da dove viene e si immagina dove andrà. La macchietta rossa in tutto quel verde appare quasi una sfida a noi, che pensiamo di sapere tutto di lei, della sua disobbedienza, delle conseguenze. La bambina è l’ultimo anello di un percorso di genealogia femminile: deve obbedire alla madre e prendersi cura della nonna. La madre nel libro non si vede e non viene mai viene nominata ma la dimensione femminile da cui prende il via la vicenda è dichiarata subito: C’era una volta una bambina, una casa, una madre e una nonna. Fra la piccola e le sue ave c’è la casa, spazio privato di competenza femminile, luogo deputato all’apprendimento e all’esercizio dei suoi compiti. Noi conosciamo la storia e sappiamo perchè la bimba è nel bosco, da sola, col vestito rosso e il cestino: sta obbedendo alla madre. Discendenza ed obbedienza ad un ordine dato - un ordine che è quello del sentiero del bosco, un ordine che si è imposto con la forza e la costanza di mille e mille anni di pratica della disciplina. Come il sentiero, creato dal continuo passaggio sul medesimo lembo rubato al bosco su cui alla fine non cresce più niente: come la cultura che si fa norma e si traveste da natura, regola fisiologica, e come tale indiscutibile. Quello che ho visto, nella scelta di questa bambina, è la scelta di rompere con tutta una storia di adesione alla regola che ha impedito alle nonne, alle madri e alle figlie di uscire dal sentiero, conoscere chi abitasse il bosco e scegliere un linguaggio di scambio con l’altro. Luce Irigaray ha insegnato che l’ordine maschile è stato fondato sul mutismo della donna e sulla rimozione della sua potenza generativa - non biologica ma simbolica: la pervasività del discorso maschile sul mondo è tale da impedire alle donne anche solo di pensarsi e quindi di relazionarsi fra sè e con l’altro in maniera autonoma e consapevole della propria differenza. La madre e la nonna in questo albo sembrano perpetrare quella rimozione e quel discorso: non offrono alla figlia/nipote niente più che un sentiero già tracciato.
Da C'era una volta una bambina, di Irene Barrese, in Il lavoro culturale, 11/11/2015