[di Lorenzo Sartori]
Platano.
Poi arrivò l'inverno e questa attività, così appagante e profonda, che ero convinto che non sarebbe mai più andata via dalla mia vita, da un giorno all'altro cessò. Non per la stagione, tutt'altro che rigida: banalmente per lasciar posto a impegni e progetti che richiedevano tutta la mia attenzione e il mio tempo. L'estate prima, assieme all'attività di ritrarre gli alberi avevo scoperto, grazie al ladro di biciclette che mi aveva appiedato, il bello del camminare. Semplicemente: non ai monti dentro paesaggi incantevoli, questo lo conoscevo già: intendo sui marciapiedi della mia città, per fare la spesa o andare in centro o…
Questo non ho potuto lasciarlo: ho camminato tutte le mattine al sorgere del giorno e anche prima, nei campi che ho vicino a casa. Così facendo gli alberi ho continuato a tenerli con me, parte della mia quotidianità estetica e spirituale, e per la prima volta ho davvero osservato gli alberi spogli, sorprendendomi di trovarli belli – perché son brutti, e non certo per colpa loro, tanti alberi di Milano mutilati da potature orrende e ignoranti, che offendono il cuore assieme alla vista, e di cui hanno da render conto alla loro coscienza condomini e giardinieri dal portafogli pingue e l'anima scheletrica. Non solo li ho trovati belli, ma li ho visti: nella loro interezza, nel disegno compiuto della loro interezza grazie all'essenzialità delle linee nude del legno. Tanto che credevo, nel tornare a disegnarli, che non mi sarebbe stato più possibile sceglierne la porzione che più o meno sempre avevo disegnato l'estate e l'autunno scorsi nel comodo, ma limitato formato del mio quaderno, ossia il tronco e una parte dei rami bassi e quel tanto di fogliame che compare in campo. Credevo che li avrei disegnati tutti quanti, o per meglio ancora dire, la metà visibile ed emersa all'aria di loro.
Ma neanche questo, è stato. L'ostacolo ora non è la dimensione del foglio. È proprio la distanza dei miei occhi dall'albero: ho la sensazione di non arrivare a conoscerlo davvero, se la distanza m'impedisce lo sguardo 'tattile', sulla corteccia anzitutto.
Perché disegnare gli alberi è fare conoscenza con esseri vivi, entrare in relazione non solo con una superba manifestazione della Vita, ma con individui, vivi. Che sono, peraltro, per l'artista, modelli ideali: pazientissimi nel posare, sempre disponibili, pressoché immobili!
Fico di Besagno.
Quando ho dato inizio al primo taccuino degli alberi, non sapevo che sarebbe stato un taccuino degli alberi. Attaccavo uno dei tanti taccuini dal vero, generici. Ho dedicato, senza essere proprio fiscale, una pagina al disegno e una ad annotazioni che si riferiscono al disegno o che nascono dal disegnare. Nella primissima pagina di annotazioni, scrivevo un intento che più smentito di così, a posteriori, non poteva essere:
… Però avevo, come pare, bisogno di ripercorrere qualche errore, riprendere le misure del disegno dal vero in natura e anche di una spinta a prendere una decisione: d'ora in avanti non più di venti minuti per copia, misurati con l'orologio se il piglio che ho in quel momento è eccessivamente meticoloso. E se occorrono ritocchi, si faranno poi.
Beh, una delle cose fondamentali che ho imparato è che, per disegnare un albero (anzi quella porzione di albero che dicevo), occorre almeno un quarto d'ora di disegno iniziale 'a tentoni', grazie al quale raggiungo uno stato di presenza in cui finalmente vedo l'albero che ho davanti. E questo succede nei periodi in cui sono in forma, allenato dalla pratica quotidiana. Se no può volerci anche mezz'ora. Il disegno completo mi ha spesso richiesto due, tre ore e più, quasi sempre in sessioni successive. Che cosa succede nella fase iniziale in cui il disegno non ingrana e neanche me ne rendo davvero conto? La sensazione è sfuggente, ma la descriverei come un brancolare. Disegnare a tentoni, come dicevo. Uno smarrirsi progressivo degli intenti iniziali. Il dissolversi o moltiplicarsi o rimescolarsi dei punti magnetici d'attenzione di partenza. Un vagare, lasciarsi portare… dalle ramificazioni delle linee, dall'intersecarsi delle forme, dalla messa a fuoco delle superfici che dà tatto all'occhio… È una resa progressiva. Poco a poco mi arrendo alla forza della visione che però io non so scindere dalla forza stessa vitale dell'albero: della sua anima, con cui provo, con le mie modeste capacità, a entrare in risonanza.
Carpino.
Ippocastano.
A volte questa resa progressiva e quasi impercettibile sbocca all'improvviso in un impeto della mano che prende sicurezza nella guida del disegno, che cioè a un certo punto sa come selezionare, cosa seguire dei tanti, troppi stimoli e tentazioni d'interesse, e cosa è possibile, per il momento, tralasciare. Lo fa con sicurezza perché si è creata una sintonia (con la visione o con l'albero) e così a guidare non è l'arroganza della scelta formale, dello stile, un partito preso d'artista. Non è, alla buon'ora, l'ego a tracciar linee sul foglio, è una più discreta testimonianza, l'omaggio umile alla sontuosa bellezza della vita vegetale. Il risultato non è più importante, non molto più che l'appunto di poche frasi su un taccuino dinnanzi alla gloria del Creato, di un tramonto nella natura selvaggia… ossia un mero appiglio per non smarrire il ricordo di sensazioni vissute. Perché è così. Alla fine anche il disegno meglio riuscito è niente a confronto della bellezza toccata con lo sguardo e assorbita attraverso il disegnare. Disegnare gli alberi diventa in primo luogo una forma di meditazione, una tecnica di presenza profonda a ciò che mi sta attorno, o sotto gli occhi (o sopra, per dirla più giusta ancora).
(1 - continua)
Carpino.
Melo.