[di Susanna Mattiangeli]
Tempo fa ho recuperato dopo anni un libro bellissimo: I Draghi locopei. Imparare l'italiano con i giochi di parole, di Ersilia Zamponi. Per chi non lo conosce, è il resoconto dell’attività pomeridiana svolta nel 1982 nella scuola media a tempo pieno di Crusinallo, frazione di Omegna, durante gli incontri con i ragazzi dedicati ai giochi di parole di cui ‘i draghi locopei’ è appunto il meraviglioso immaginifico anagramma, che richiama esseri fantastici composti di segni alfabetici, creature smontabili del regno delle lettere. E di combinazioni di lettere, anagrammi, sciarade, crittogrammi, indovinelli in rima è pieno questo libro, stampato prima in semplici dispense da distribuire a scuola e poi per Einaudi nel 1986.
Prima edizione di I Draghi locopei (Einaudi 1986).
I Draghi locopei è un repertorio di giochi e un’immersione nelle possibilità della lingua nato nella scuola italiana dei primi anni ottanta in cui si cominciavano a diffondere certe modalità didattiche frutto delle sperimentazioni dei decenni precedenti.
I ragazzi, nel racconto che Zamponi fa introducendo il libro, allenavano la mente e prendevano confidenza con termini e forme senza avvertire l’obbligo del compito assegnato, accettavano la fatica di ragionare per il puro gusto di risolvere un enigma, di inventarne di nuovi.
Zamponi dice di aver preso spunto per il suo lavoro da una rubrica di Giampaolo Dossena che usciva allora ogni settimana sul supplemento libri de La Stampa. Ma altrettanto esplicitamente si riferisce al lavoro di Rodari come modello di partenza per entrare insieme ai ragazzi nelle strutture della lingua, per scoprire il legame che il limite della regola ha con la libertà dell’invenzione. Se Rodari non si è occupato molto di giochi di parole in senso stretto, certo ha proposto di esplorare il linguaggio come oggetto concreto, partendo dal suo funzionamento per smontarne i meccanismi.
Del resto, la Grammatica della Fantasia è un generatore di storie che diventano tanto più esplosive quanto più si sfruttano le possibilità offerte da una serie di premesse logiche rigorose, quanto più, cioè, si seguono le regole del gioco. Oltre a Dossena e Rodari, Zamponi cita tra i suoi punti di riferimento Raymond Queneau, tra i fondatori de l’OULIPO, gruppo di sperimentatori degli anni Sessanta.
«Alle origini, enigma, poesia e metafora sono strettamente intrecciati, Aristotele lo sapeva. La più alta delle metafore poetiche e il più meccanico degli enigmi hanno in comune il fatto che le parole possano dire più di quello che sembrano dire. Tra gioco di parole, lapsus, sogno e invenzione corrono legami sottili. Coraggio ragazzi, malgrado i programmi ufficiali la scuola sopravvive.»
(I Draghi locopei, Einaudi 2017, prefazione)
La scuola sopravvive. Così scriveva Umberto Eco in una Bustina di Minerva del 1985, dopo aver letto quel mazzo di fogli ciclostilati proveniente dalla Scuola Media Rodari di Crusinallo e presto passato di mano in mano attraverso lo stesso Dossena che lo ricevette per posta da Zamponi. È stato proprio in seguito all’attenzione di appassionati del genere che I Draghi locopei è stato pubblicato da Einaudi ottenendo un’attenzione che Stefano Bartezzaghi - nella postfazione all’edizione del 2017 - spiega con l’ondata d’interesse per le questioni linguistiche sollevatasi in quegli anni di divulgazione delle teorie strutturaliste, della semiotica e degli studi sulla comunicazione. Anzi, aggiunge Bartezzaghi, il successo dei Draghi locopei è stato in Italia “la festa d’addio dello strutturalismo” che proprio mentre si inseriva nei programmi scolastici andava esaurendo la sua spinta d’avanguardia.
Pur senza la fortuna di aver frequentato i corsi pomeridiani di Ersilia Zamponi, durante quella festa d’addio io devo essere caduta dentro un barile come Obelix, devo averne assorbito il contenuto così che più di trent’anni dopo continuo a sentirne gli effetti. In quella festa c’era la promessa di trasformare la lettura di ogni testo - e tutto a quei tempi era un testo - in un’operazione di decodifica di cui si avvertiva la persistenza dell’aspetto ludico e ogni produzione di testi in un’avventura della mente che prende una strada e la segue fino in fondo; ma, come tutte le ondate, questa passione ha avuto la sua fase di calo per diventare solo uno tra i tanti strumenti a disposizione.
Il luogo dove questo atteggiamento sopravvive è la scuola primaria, per l’ovvio motivo che quello è il territorio del grado zero della scrittura, la sede in cui si può dissezionare il sistema della lingua a partire dai suoi moduli elementari. Se si può attribuire a Rodari il ruolo storico di aver introdotto questo metodo nella scuola e nella produzione letteraria destinata ai bambini, l’operazione di Ersilia Zamponi è stato un modo molto alto di raccoglierne l’eredità a soli due anni dalla morte.
Conoscere nuove parole, familiarizzare con somiglianze fonetiche, riconoscere i meccanismi retorici che ispirano i titoli dei giornali, gli slogan. E poi stravolgere l’inno nazionale, sezionare poesie famose. Per giocare su una poesia occorre conoscerla e bene, diceva Eco. E aggiungeva: così la scuola sopravvive.
Ora però ci si lamenta che proprio a partire da questo modello di scuola si è persa la conoscenza di base della grammatica. I ragazzi che vanno all’università parlano male, scrivono peggio. Il discorso sarebbe lungo, così come è stato lungo e pieno di interventi il dibattito seguito alla lettera al Ministro dell'Istruzione dei 600 professori universitari, lo scorso anno. Al centro del discorso è stato il ruolo della scuola primaria e secondaria di primo grado, accusata di non insegnare più le nozioni fondamentali a favore di attività parallele, ludiche, alternative. Paola Mastrocola, insegnante e scrittrice, qualche anno fa ha attribuito proprio al rodarismo (e al donmilanismo) la responsabilità di questa perdita di padronanza grammaticale e lessicale. La colpa non è tanto di Gianni Rodari scrittore, ha detto, ma del Rodari che entrava nelle scuole e pretendeva che i bambini ridessero un po’ di più.
«L’idea implicita nel metodo rodariano, l’idea sotterranea (ma poi neanche tanto) era che la scuola dovesse smettere di fare cose noiose tipo la grammatica, per mettersi invece a educare alla libera facoltà creatrice. Anzi, peggio: quel che Rodari esplicitamente dice è che fare cose noiose e tristi come la grammatica spegne addirittura, nei bambini, lo slancio creativo.» (P. Mastrocola, Togliamo il Disturbo, Guanda 2011, p.53).
Tralasciando il fatto che Rodari non proponeva tuffi nella libera facoltà creatrice, non so cosa pensi Mastrocola de I Draghi locopei.
In un’intervista, Zamponi fa intendere che la sua attività pomeridiana, in aggiunta e non alternativa alle ore di studio, non serviva comunque a prendere ottimo in analisi logica:
«L'abilità nei giochi di parole non è sempre proporzionata alla capacità di svolgere bene le altre attività linguistiche proposte dalla scuola [...] può accadere che un ragazzo culturalmente deprivato produca delle invenzioni linguistiche che mi fanno rimanere col fiato sospeso.» (I Draghi locopei 2017, p.153).
In effetti, prima ancora della rubrica enigmistica di Dossena, lo slancio era arrivato a seguito di un incontro di una sua classe con Franco Fortini, che si raccomandava:
«Che cosa deve provare di sé un ragazzo della vostra età? Deve provare le possibilità che lui ha. Per esempio: la possibilità fisica, che può esprimersi nello sport o nella fatica fisica. Prendiamo il caso della fatica fisica, la bruta fatica dello spaccalegna, di chi deve scaricare un camion di sacchi o scavare la terra. Diventa una prova: il corpo viene spinto al massimo. Si sperimenta se stessi come pura macchina. Conoscere questo, sapere quali sono le proprie possibilità, è molto importante. Nello stesso tempo c’è un altro aspetto: quello dell’attività intellettuale non strumentale, come quella dello scoprire o del formulare un teorema di geometria, oppure vincere le difficoltà di una traduzione, oppure il godimento intellettuale di una sequela puramente logica. E molto importante avere nell’età scolare la possibilità di provare questi estremi. Guai se perdi quella gratuità. I ragazzi sono tutti figli di principi. Il mondo è stato fatto per loro» (I Draghi locopei, 2017, introduzione).
La gratuità. È proprio quella, a quanto pare, che ha spinto dei ragazzi a risolvere e inventare indovinelli, zeppe, frasi bifronti, a fare esercizi difficili e inutili con piacere, in sostanza a divertirsi. Eco affermava serenamente che quegli esercizi, la signora professoressa, “potrebbe benissimo farli invece del programma”. Ma lei rivendicava proprio quello spazio libero perché lasciar intravedere una finalità didattica diretta di quegli stessi giochi, rendere l’attività ‘strumentale’ avrebbe probabilmente ucciso gli entusiasmi. Che quel momento fosse liberamente scelto ma pur sempre incluso nella scuola, con la stessa insegnante della mattina, dice qualcosa sia sul senso pieno dell’operazione, sia sulla qualità del pensiero o dell’intuito pedagogico che la muoveva.
Ma ora, si dice, ci sono altre priorità, c’è la peste digitale, ci sono gli stranieri, bisogna ritornare alla lezione frontale, infilare nuovi test intermedi sulla grammatica e quindi basta, fine dei giochi, questi sistemi, si è capito, non funzionano.
E poi ormai gli anagrammi li trovi su internet.
Bene, bravi, allora: tanti auguri. A unti arguti, urtanti guai. Ù, in gratuità.