[di Marcella Marraro]
A fotografare volti affiancati ho cominciato per caso o per gioco, non certo con la consapevolezza di maneggiare materiale delicato e intimo, di poter generare immagini che commuovono o sorprendono, di portare alla luce qualcosa che era in ombra. L’ho fatto, all’inizio, quasi per sbaglio. Nient’altro che una tra le infinite strade che può percorrere chi, come me, ama la fotografia e guarda tutto attraverso il mirino perché ogni cosa che viene isolata dal contesto circostante si amplifica e si rivela, perfino uno sputo.
Sputi al microscopio
Mi era capitato più volte di confrontare le foto di famiglia per cogliere somiglianze. In particolare mi soffermavo sulle foto di mio padre sperando di trovare sul suo viso i miei stessi lineamenti e sul mio i suoi, nell’evidente tentativo di sentirlo più vicino, di vedere le prove di un legame indissolubile, di accorciare quelle distanze fisiche ed emotive che ancora faticavo a capire nonostante in quegli anni fossi già adulta e a mia volta genitore.
Mentre mi interrogavo sul senso e sull’effetto delle somiglianze tra genitori e figli e intuivo che riconoscere sul proprio volto tratti altrui può essere rassicurante o, al contrario, fastidioso e generare fierezza e senso di responsabilità oppure inquietudine, il mio esperimento approdò alla nuova generazione. In una foto mio figlio appariva simile a me, ma nell’altra era identico al padre, tanto da farmi sospettare che anche tra me e mio marito ci fosse analogia di tratti. E invece no. Chi di noi non si è sentito dire di somigliare sia alla madre sia al padre, pur avendo genitori diversissimi?
Filippo con me / Filippo col padre
La somiglianza non è solo fisionomia. Da genitori e nonni ereditiamo fronti alte o basse, nasi corvini o all’insù, dentature perfette o irregolari ma anche quegli atteggiamenti corporei che fanno dire a chi conosce i nostri parenti che siamo “tutta sua madre” o “uguale a suo nonno”. Si può essere accomunati da un modo di sorridere, di sostenere lo sguardo, di tenere la testa. Chissà se quelle espressioni e posture sono tutte scritte in qualche minuscolo frammento del patrimonio genetico o se invece si acquisiscono nel corso della lunga frequentazione domestica. A me piace pensare che l’insieme di muscoli che poggia sulla struttura ossea del volto si modelli anche nella condivisione di esperienze e stati d’animo e, dunque, che genetica e vita vissuta lavorino insieme ogni giorno per plasmare il nostro aspetto. Forse è a questo che pensava Walt Disney quando ideò la sua deliziosa carrellata di ritratti femminili e canini nella Carica dei 101 (1961).
A proposito di cani, mi chiedevo divagando, a quale umano somiglia la mia dolcissima Viola? La risposta arrivò grazie a un gioco proposto durante il lockdown dalla pagina Instagram Tussen Kunst & Quarantaine che invitava a fotografarsi in atteggiamenti e abiti ispirati a opere celebri.
La carica dei 101 – L’annunciata di Antonello da Messina e Viola
Mentre il progetto RAM-Ritratti a metà usciva dai confini famigliari e prendeva corpo nella rete di amici, mi rendevo conto che i filoni di indagine erano due: da una parte le somiglianze tra consanguinei (bambini e genitori, fratelli e sorelle, nonni e nipoti) e dall’altra le persone non consanguinee che però avevano trascorso anni insieme: amici, colleghi, compagni di vita.
Più di tutto, però, mi accorgevo che le persone che mi chiedevano il ritratto si preparavano allo scatto con serietà. Il risultato del montaggio era solo il momento finale di un’esperienza più articolata. Per loro si trattava di un salto dal trampolino che richiedeva una certa dose di coraggio e temerarietà. Sentivano, era chiaro, di fare qualcosa di importante: stavano indagando un legame così potente da lasciare tracce sul volto. Non era un gioco.
Isi con Cristina (nonna), Ginevra con Nicola (padre) Gabriele e Simone (amici)
Quando fotografo coppie di persone non mi sento un osservatore esterno. So di entrare nel loro legame, nella loro trama di affetti. Cerco di farlo in punta di piedi, ma quando chiedo loro di guardarmi, talvolta di accennare un sorriso, il loro sguardo diretto in camera mi colpisce, mi parla.
Gli adulti e i bambini che incontro per la sessione fotografica mi raccontano di sé, mi spiegano cosa li ha portati da me e sono sempre contenti di vivere questa esperienza insieme, come se si stessero facendo un regalo. Per scelta, prendo solo quello che mi viene offerto, anche se non sarebbe difficile valicare il confine. Come scrive Diane Arbus, “Fotografare è come andare in punta di piedi in cucina a notte fonda e rubare i biscotti”.
Faccio molti scatti perché nell’affiancare due visi per evidenziare le somiglianze non c’è nulla di casuale o automatico. Spiego che la nostra metà destra è molto diversa dalla metà sinistra e bisogna fare diverse prove per trovare l’abbinamento migliore, che armonizzi forme, dimensioni e proporzioni.
Shooting fotografico al Festival Tuttestorie
Poi, finita la sessione, c’è l’attesa. Il risultato arriva dopo qualche giorno e con quello le reazioni, che mi aiutano a comprendere il senso del progetto. Il sentimento più frequente è la sorpresa per le somiglianze inattese: il bambino sembrava così simile alla mamma e invece è identico al nonno paterno. Nei ritratti degli amici c’è spesso la sensazione di un pensiero o di un sentire in comune tra le due persone ritratte. Le persone mi scrivono:
“Non te lo aspetti, pensi a un gioco, un esercizio puramente estetico e invece si rimane spiazzati.”
“… è come indossare degli occhiali magici con cui diventiamo tutti l'altro noi.”
Se “l'essenziale è invisibile agli occhi”, in questo caso, la profondità del legame diventa manifesta.
“… si inizia ad interrogarsi su quali altri tratti si abbia ereditato o si abbia passato ai propri figli.”
Le storie personali sono molte, troppo intime per essere rivelate fuori dalla relazione che si instaura tra chi ritrae e chi è ritratto. Immaginarle, però, non è difficile.
Andrea e Bruno, Marco e Anita al Festival Tuttestorie di Cagliari
A ottobre 2023 RAM-Ritratti a metà è approdato a Tuttestorie, il festival della letteratura per l’infanzia di Cagliari, a detta di amici il più emozionante di tutti. In tre giorni ho fotografato circa 400 persone: un autentico crash-test per il progetto e per le mie energie. Mai avrei immaginato di vedere persone in fila per avere un Ritratto a metà, perché non credevo che queste fotografie, nate per caso e per gioco, potessero assumere valore e significato per così tante persone, per adulti e bambini.
Vittorio con Leo, Vittorio con Elena, i due fratellastri insieme
Nel mio computer i ritratti a metà sono oggi centinaia e, quando li sfoglio, mi ritrovo con tutti questi volti che mi guardano con fiducia e trepidazione. Mi sorprende notare come ognuno mi abbia lasciato un ricordo netto e unico di come è andata, di quello che si è detto e fatto, delle emozioni che si sono agitate a volte in modo evidente e altre con pudore, sotto la superficie.
RAM-Ritratti a metà (www.ritrattiameta.it), il progetto che mi è esploso tra le mani, è un’esperienza di relazioni più che di immagini.