Oggi presentiamo il nuovo titolo della collana Gli anni in tasca, dedicata a narrazioni autobiografiche di infanzia e adolescenza. Si tratta di Quando arriva la musica di Ilaria Tagliaferri, appassionata lettrice e bibliotecaria, alla guida della rivista LiBeR, che con questo libro fa il suo esordio nella narrativa e che qui ci racconta in che modo, con la scrittura, ha recuperato il racconto della bambina che è stata.
[di Ilaria Tagliaferri]
La prima cosa che ho scritto di questo libro è stata il finale. Avevo voglia di raccontare un momento lontano che mi era tornato in mente quasi per caso, come succede a volte quando si smette di dar retta ai pensieri aggrovigliati e ne arriva uno che prende forma da solo, limpido, luminoso. Era un ricordo legato al mio babbo e al suo sguardo, e ho buttato giù qualche riga cercando di rammentare dove eravamo quando è successo, quali fossero i colori, le forme della campagna che avevamo intorno.
In Quando arriva la musica la campagna compare spesso, perché è un libro dove racconto una parte della mia infanzia e la campagna ne è stata la cornice: una cornice per niente “rileccata”, come si dice a Firenze quando si intende qualcosa di sistemato e composto, fin troppo perbene, quasi di finto. La mia campagna è stata quella dove erano cresciuti i miei genitori, quella dei loro paesi d’origine; io l’ho vissuta negli anni Ottanta e loro ai tempi della guerra, e l’ho sempre sentita, fin da piccolissima, come un luogo affascinante, misterioso e benevolo allo stesso tempo e, soprattutto, pieno di storie. Me le raccontavano mio padre e mia madre, le storie del loro passato, ma le vivevo anche io, le storie vere e immaginarie, soprattutto quando trascorrevo in quei paesi piccoli, tra Romagna e Toscana, le lunghe estati arroventate dell’era delle spalline imbottite sui vestiti e dei capelli laccati oltre ogni misura.
In quei luoghi il tempo sembrava fermo agli anni Cinquanta per certi versi, con le chiavi appese fuori dalle porte e le vecchiette che si riunivano per chiacchierare di tutto e niente dalle sei del pomeriggio fino a imprecisate ore serali e io, lì, ho scoperto, a occhi sgranati e perennemente a bocca aperta, mille cose. Soprattutto ho avuto la prova che quelle cose era possibile condividerle con gli amici: nella mia vita d’autunno-inverno nella periferia di una grande città immaginavo di farlo, di giocare, inventare e raccontare, andare qua e là e di incontrare questo e quella, ma la realtà era che passavo molto tempo da sola, come a volte capita a chi è figlio unico. Nei paesini, invece, potevo passare interi pomeriggi con la mia amica del cuore e il gruppetto dei ragazzini appena poco più grandi di noi, anche solo guardandoli giocare a calcio nel campetto dietro la chiesa, e fantasticando di amori, avventure, storie horror, pettegolezzi che più che fantasticherie si trasformavano in vere e proprie piccole sceneggiature, che un po’ si rifacevano alla realtà - a volte anche alla cronaca nera - e un po’ erano inventate.
Ce le raccontavamo, queste storie di cuori infranti, spiriti e delitti, puntata dopo puntata, in piccoli gruppi eterogenei che si formavano un po’ a caso, a seconda di chi era uscito prima subito dopo aver pranzato, o di chi invece era stato costretto all’infame pisolino dai parenti, quasi sempre nonni e nonne. Stavamo seduti a terra, nei giardini comunali, e ci raccontavamo “le robe”, in un’atmosfera fatta di caldo appiccicoso, mistero e ascolto reciproco che altrove, per me, era del tutto sconosciuta. Il tempo trascorso a casa, quella dove vivevo tutto l’anno, dopo la scuola, è sempre stato molto legato alla televisione, che ho consumato a grandi dosi (come una vera bambina pop degli anni Ottanta!), imparando a memoria le storie dei cartoni animati, le sigle, ma anche i dialoghi tra i personaggi e persino i jingle delle pubblicità, con il grande e forse unico amico con cui condividevo le lunghe ore quotidiane di fronte al tubo catodico e che viveva nel mio palazzo. Un tempo, quello, che ha iniziato ad appartenermi di più, nel senso che l’ho sentito più vivo e mi ci sono riconosciuta, solo da quando è comparsa la musica.
In questo libro ho provato a raccontare come piano piano la musica sia arrivata a riempire le mie giornate, pur rimanendo a lungo chiusa nello spazio di un salotto, dove la ascoltavo per ore, eccezion fatta per dei brevi, bellissimi momenti in cui la condividevo con mio padre, un uomo timido e introverso che a volte ricorreva al canto per comunicare con me. È stato mio padre a incoraggiare, nella sua maniera sorniona, senza alcuna enfasi, la passione per la musica che pian piano si era accorto che mi stava nascendo dentro: lo ha fatto con gesti piccoli, lasciando che il tempo facesse il suo corso, ascoltandomi di nascosto cantare in quel salotto dal quale escludevo tutte le presenze che non fossero vinili. Non sono diventata una musicista professionista, ma quando finalmente mi son decisa a uscire dal salotto e a tirare fuori la voce, la musica mi ha permesso di fare alcuni tra gli incontri più importanti della mia vita, e anche di salutare con grazia i miei genitori quando è venuto il momento di separarsi.
Tornando a come è nato questo libro, direi che ho iniziato a scriverlo perché il dolore dell’essere orfani, da adulti, ha qualcosa di strano e di profondo, che forse una volta di più ha bisogno di essere raccontato, e che ci spinge a cercare il contatto con il passato, con il tempo trascorso con chi non c’è più, con le sue crepe e le sue meraviglie, con quel lessico che non ritornerà e che, almeno nel mio caso, non so a chi trasmettere. Mentre scrivevo, però, ho spostato lo sguardo dai miei genitori a me, e ho ritrovato in quegli anni lontani una specie di ricerca silenziosa, ma ostinata: quella della mia passione, della gioia dell’ascolto, delle canzoni e delle note che mi hanno fatto da cuscino, àncora e apripista alla vita. Una ricerca che ho riscoperto scrivendo, che aveva voglia di farsi sentire, di uscire fuori. Da libro malinconico dedicato più o meno consapevolmente all’assenza è diventato un libro più luminoso, con cose che rischiarano, o almeno io credo sia così. Credo sia anche un libro buffo, visto che l’ironia è una cosa che va spesso a braccetto con la malinconia, e che ci sia dentro tanto di quello che ho imparato lavorando in biblioteca con bambini e ragazzi, che amo osservare, ascoltare.
I bambini che incontro tutti i giorni sono una specie di infinita miniera di spunti per me, che si autoricarica in continuazione: spunti per pensare, ricordare, raccontare. A volte anche solo per ritagliarmi il tempo di guardarli e di far loro attenzione, perché sono capaci, con pochissimo, di suggerirti milioni di riflessioni. Sono molto contenta di aver scritto qualcosa che forse qualche bambino leggerà. Penso che i bambini siano lettori esigenti, li temo un po’, ma li sento anche incredibilmente vicini, sotto tanti aspetti. Un amico qualche tempo fa mi ha regalato una raccolta di racconti di Katherine Mansfied intitolata Qualcosa di infantile ma di molto naturale, e mi ha detto ecco, questo titolo mi ha fatto proprio pensare a te, a come sei: e in effetti è così, alla soglia del mezzo secolo, ho le rughe e una bambina dentro che, come se niente fosse, si inventa le sue storie e le contamina con la realtà. In Quando arriva la musica ho provato a raccontarla, questa bambina, e anche a farla uscire dal salotto, per trovare la sua voce, e cantare.