[di Ilaria Tagliaferri]
Quando mi capita di visitare una città, straniera o italiana, cerco sempre di affacciarmi in una delle sue biblioteche più raggiungibili, spesso proprio in quella pubblica, perché mi incuriosisce vedere come siano organizzati gli spazi, quali arredi siano stati scelti per le sale destinate ai bambini e ai ragazzi, quanta gente si aggiri tra gli scaffali alle cinque del pomeriggio, se i bar e i servizi siano accessibili, ben forniti, puliti. Mi appassionano in particolar modo le indicazioni per accedere alle varie sezioni, mi fermo a osservare come sono disposte, se sono numerose o se ci si affida al vecchio gioco di perdersi un po’ in città per conoscerla bene, che poi vale anche in biblioteca. Mi piace soffermarmi anche sulle postazioni pc riservate agli utenti, per capire se a me, sconosciuta e straniera, comunicano subito qualcosa, se mi fanno venir voglia di provare a fare una ricerca, anche abbozzata, oppure se mi fanno sbuffare e scappare via subito per la troppa complessità. Spesso durante le gite, studiando gli itinerari, non ho dovuto cercare troppo a lungo l’indirizzo della biblioteca, perché passeggiando per il centro la struttura mi si è presentata all’improvviso davanti, salvandomi magari da un momento di stanchezza per il girovagare che si sa, quando facciamo i turisti, è sempre in agguato.
Mi è successo anche a Copenaghen, l’ultima capitale che ho visitato, quest’estate: stavo percorrendo con due amiche un tratto della città leggermente distante dalla celebre strøget, la via dello shopping, quando mi è caduto lo sguardo su due lunghe vetrine che esponevano libri senza prezzo, che a guardarle bene facevano intravedere altri scaffali sullo sfondo e che a guardarle benissimo erano contigue alla vetrina di un bar, il Democratic Cafè, che - ho scoperto dopo - è in definitiva il punto ristoro della biblioteca centrale di Copenaghen.
La biblioteca più famosa della capitale danese, dal punto di vista architettonico, è in realtà la Kongelige Bibliotek, il cosiddetto “diamante nero” – il nome è dovuto alla copertura di granito scuro – ossia la biblioteca nazionale della Danimarca: una delle più grandi biblioteche della Scandinavia, visibile, gigantesca e impressionante, lungo le rive del Canale Christianshavns. Quella che ho visitato io è invece la Hovedbiblioteke, la biblioteca pubblica principale della città, aperta ogni giorno dalle 8 alle 21, con tre piani ricolmi di libri, dischi, riviste, a disposizione degli utenti. Al centro della struttura troneggiano ampie scale mobili che consentono di arrivare velocemente ai vari piani: la stanchezza del girovagare mi è passata in un attimo e li ho visitati tutti.
Mi ha colpito molto constatare come l’essenzialità degli arredi e degli allestimenti andasse puntualmente, in ogni piano, di pari passo alla ricchezza, perlomeno quantitativa, dell’offerta di libri. Nello spazio riservato alle attività dei bambini non ho visto decorazioni né manufatti speciali di alcun genere: nessun quadretto alle pareti, né peluche, nemmeno cuscini morbidi, o libri fatti con materiali particolari (gomma, plastica, stoffa) in evidenza. Nello spazio riservato ai laboratori e alle attività c’erano una serie di poltroncine colorate di plastica, un grande tavolo di legno con molte sedute intorno, una lunga asse e due grossi tubi di legno per l’esplorazione e la conoscenza delle forme e dello spazio. In un’area attigua, dedicata ai bambini più piccoli, c’erano, sparsi per terra, tanti tasselli in plastica a forma di lettere dell’alfabeto, per comporre le parole direttamente sul pavimento.
Completamente assenti i gadget, le forme buffe, i tappeti dai colori pastello: come se l’infanzia, pur naturalmente riconosciuta come dimensione con una sua specificità (tutto il secondo piano, enorme, è dedicato ai libri per bambini e ragazzi) non fosse richiamata, identificata né tantomeno coccolata da alcuna connotazione tenera, ammiccante, morbida. Mi è sembrato di notare questo tipo di approccio all'infanzia anche mentre passeggiavo per le strade: nei movimenti, nei gesti, negli sguardi delle persone adulte verso i minori. Ho visto più volte genitori giocare con i figli piccoli, su panchine, traghetti, muretti e ai tavoli dei bar, ma ogni volta mi ha colpito una sorta di sobria serietà, non disgiunta dalla tenerezza, con cui ho sentito i grandi rivolgersi alle pance, alle guance, agli occhi dei piccoli.
Le sale della biblioteca riservate ai lettori giovani e giovanissimi avevano la stessa aria seria: erano ordinate, essenziali, a tratti severe, esattamente come quelle per gli adulti. In queste sale ciò che mi è balzato agli occhi, e non è scontato né banale, è stata, potente e solida, la presenza dei libri. Oppure, nel caso della mediateca, dei cd e dei vinili. Erano loro i protagonisti assoluti del campo visivo dell’utente, in una sorta di continuità tra adulti e bambini che dava un’aria di concreta e accogliente res publica a tutta la struttura. Non c’era ombra del rischio di confusione o sovrapposizione tra biblioteca e ludoteca, che è spesso materia controversa per chi lavora in questo settore.
Dopo aver esplorato i vari piani e dopo aver sospirato a lungo di fronte a una intera parete di vinili suddivisi per genere musicale ed esposti di piatto in semplici scaffali quadrati, sono tornata nella zona dell’accoglienza, e ho notato come, alla fine del pomeriggio, l’utenza fosse quella eterogenea tipica dell’orario in cui gli uffici sono chiusi: oltre agli studenti e ad alcune persone anziane nei tavoli di consultazione erano sedute anche persone evidentemente uscite dal lavoro che passavano a ritirare libri, o a leggere i giornali. Tre ragazzi di nazionalità diverse, seduti intorno a un tavolo rotondo, dopo aver parlato un po’ a bassa voce si sono dati la mano e hanno chiuso gli occhi: erano due maschi e una femmina, lei pronunciava piano alcune parole in una lingua che non abbiamo saputo riconoscere, ma ci pareva orientale, e i due amici le rispondevano in coro, sommessi, concentrati. Credo pregassero. Nella biblioteca (l’ho scoperto visitando il sito ufficiale) tra le tante attività c’è anche un’ora di canto, tutte le settimane, il mercoledì di prima mattina. A guidare il coro, fatto da utenti che liberamente decidono di partecipare, è un bibliotecario con evidente passione per la musica: nei video disponibili sulla pagina Facebook della struttura si vede un signore molto alto e dinoccolato che, con evidente e appassionata competenza, prima di ogni esecuzione canora fa riscaldare la voce degli utenti con esercizi vari, vocali e gestuali. Ma soprattutto si vede che l’età delle persone che partecipano è la più vasta e varia che si possa immaginare: si va dagli adolescenti agli anziani, si gorgheggia molto, si ride, ma in maniera contenuta. È un’attività seria, poco spettacolarizzata, divertente, ricreativa, ma sobria, si percepisce chiaramente che fa parte di una quotidianità che non lascia troppo spazio all’esibizionismo né al protagonismo.
Mi sono imbattuta nell’infanzia danese, oltre che negli spazi della Hovedbiblioteke, anche in un luogo dove davvero non avrei immaginato di incontrarla: nella cittadina di Hillerod, all’interno di uno dei più famosi siti turistici della Scandinavia, il castello di Frederiksborg. All’ultimo piano del castello, antica dimora di re e principi dal 1640 al 1840 e ora museo di storia nazionale, è stata allestita di recente una mostra di disegni realizzati dai ragazzi danesi, tra i 10 e i 15 anni, per un concorso intitolato Portrait now!. I ragazzi sono stati invitati a eseguire un dipinto o un disegno di un’altra persona, e l’unica condizione richiesta era che la persona (una o più di una) fosse stata realmente incontrata dall’autore del ritratto. Ho osservato a lungo i ritratti realizzati, esposti lungo le pareti del castello: accurati, attenti, brillanti, malinconici, sfuggenti, geniali come i lavori dei ragazzi, a volte, possono essere. Se ne stavano lì, in mostra accanto ai dipinti ufficiali della famiglia reale, al mobilio prezioso, alle sculture, in un luogo istituzionale, importante, frequentatissimo ogni giorno da centinaia di persone. I lavori dei ragazzi stavano letteralmente accanto alle altre opere d’arte, in uno spazio fisico capace di accoglierli entrambi con eleganza, naturalezza, e senza nessun tipo di connotazione che indicasse una differenza, una frattura, tra infanzia e adultità: mi è sembrato una specie di abbraccio, collettivo, inclusivo, silenzioso che non stringe, non strepita, non sgomita per farsi riconoscere come tale.
Da questi due incontri con l’infanzia danese ho portato a casa la stessa sensazione soddisfatta di quando, incontrando un bambino che non si conosce, si riesce a entrarci in contatto: spesso, per riuscire nell’impresa, basta non rivolgersi a lui o a lei con gridolini o buffetti, ma piuttosto parlargli o sorridergli con gentilezza, senza vezzeggiarlo. Ecco, quello danese mi è sembrato un approccio all’infanzia intelligente e profondo, senza pizzicotti sulle guance, metaforici e non: come se ai bambini e ai ragazzi fosse stata naturalmente e concretamente riconosciuta quella grande dignità che a loro appartiene, ma che a volte viene fagocitata, anche nelle strutture come biblioteche e nei musei, dall’ansia di vezzeggiamenti, di ritagliare per loro uno spazio dedicato, delicato e iperprotetto, quasi che mettendoli in relazione con gli adulti si rischiasse in qualche modo di confonderli, di scalfirli, rendendoli più fragili.
Forse in Danimarca, come in altri paesi del Nord, si è lavorato molto, e con successo, sul concetto di equilibrio: la lunga asse di legno che ho visto nella sala della biblioteca serve proprio a quello.