Fratellitudine

[di Rita Gamberini]

Chicco combatteva la sua battaglia contro i denti storti con un apparecchio che non metteva quasi mai, non appena uscivamo lo infilava in tasca avvolto in un fazzoletto e giocava a pallone. Capitava così che tornassimo a casa con l’apparecchio in condizioni precarie e i rimproveri erano per me che non vigilavo abbastanza sul mio dinamico fratellino.

Tutto era cominciato quando avevo nove anni. Lo ricordo come fosse ieri: da in fondo alla strada qualcuno gridava «l’è un masc’, l’è un masc’» (è un maschio, è un maschio), era mio padre galvanizzato dalla nascita di un bambinetto che entrò prepotentemente nella nostra famiglia. Tutto il vicinato doveva sapere. Presto lo seppi anch’io che per molti anni lo ebbi al seguito e trovai una inconsapevole soluzione per mettere da parte diffidenze e timori; sviluppai al contrario nei suoi confronti una sorta di predilezione che conservo tuttora per i bambini e le bambine e che spesso è ricambiata. Sai come quando si dice che uno ha un debole…

Così mi presi cura di lui, in svariati modi. Quando ero io a dargli la pappa, Chicco sul seggiolone, partivo da in fondo al corridoio con una mantella che mi copriva il capo, una breve corsetta, un po’ di strepito e via con il cucchiaio, aaahmmm. A volte lo intrattenevo con una magia e lo rendevo invisibile, poi davanti allo specchio lo convincevo che solo lui poteva vedersi, nessun altro. Oppure gli leggevo una favola pronunciando le parole con accenti sbagliati, suscitando in lui una sorta di infantile disperazione e fiduciosa attesa che gli accenti tornassero al loro posto.

Insomma mi davo da fare un sacco, e può essere che un certo tipo di intrattenimento fosse tutto fuorché affettuosa dedizione, ma dovevo pur trovare un modo per sottrarmi a una insidiosa insicurezza che si è plasmata attraverso il puro divertimento e ha lasciato il posto a un vero sentimento fraterno.

Per molti anni il tempo non scolastico di Chicco fu legato al mio e a quello di mia sorella che ha condiviso in tutto e per tutto la nostra vita familiare, in maniera più composta e assennata, ma è sempre stata coinvolta in tutte quelle pittoresche vicende che vengono rievocate più e più volte quando, nei momenti conviviali, ci si abbandona ai ricordi d’infanzia.

Chicco sempre protagonista, andiamo al circo e una scimmietta dalla sua gabbia gli ruba il berretto, scendiamo in strada e cade nel buco di una cisterna, lottiamo sul letto e si sfascia l’orsetto…

Alla sfortuna che ci seguì in parecchie occasioni si tentava di rimediare raccomandando a Chicco di non dirlo al babbo e alla mamma, cosa che invece avveniva regolarmente e non c’erano scuse. Non che si abbattessero su di me chissà quali terribili punizioni, ma lo sconforto di essere destinata ad occuparmi di un fratello piccolo si accompagnava alla sensazione di subire un’ingiustizia.

Non so dire quanto un’impotente battaglia contro le imposizioni familiari, secondo cui il pomeriggio potevo uscire ma Chicco doveva venire con me, abbia favorito la mia personale lotta all’ingiustizia, che negli anni mi ha portato a un fattivo impegno sociale e poltico, ma potrei arrischiarmi a dire che tre parole, cura, giustizia e responsabilità, hanno in me profonde radici.