Il bambino che abita il mondo

[di Marta Zoppetti*]

C’è un’installazione del Bauhaus, probabilmente un esercizio di metodo, che vidi vent’anni fa in una mostra a Milano e mi colpì in modo particolare. Non riesco più a rintracciarla. Non è nel catalogo, non la conoscono persone competenti cui ho chiesto, mi sono perfino chiesta se l’avessi davvero vista, o se fosse frutto della mia immaginazione.

Mi sono confrontata con l’unica persona che aveva visto la mostra insieme a me, e ha confermato che sì, quel lavoro c’era, era un lavoro minimale e noi l’avevamo letto come un modo particolarmente efficace di rappresentare le relazioni, le corrispondenze, le temporanee affinità e le inevitabili distanze tra esseri umani.

Una scatola di scarpe priva di coperchio, nella quale erano piantati piccoli chiodi in ordine casuale - come disposti in costellazione - e tra questi chiodi erano tesi elastici di vari colori, mi pare gialli, rossi, blu.

Alcuni di questi elastici facevano perno sullo stesso chiodo - e in quel punto coincidevano, in quel punto c’era la massima aderenza, la massima vicinanza, solo in quel punto erano insieme nello stesso tempo e nello stesso luogo -  e dopo si allontanavano, ognuno verso altri punti di tensione.

Visto dall’alto, era un bellissimo disegno geometrico di lontananze e momentanee coincidenze, fermate in un istante tridimensionale.

*

Avevo un’altra età. Al tempo, quel lavoro mi aveva colpito così profondamente perché frequentavo i testi di Benjamin e lui, più di altri, si prestava a un pensiero complesso, un pensiero che procedeva ‘per costellazioni’.

Un pensiero che disponeva in un ordine particolare idee (parole nelle quali erano racchiuse idee) apparentemente lontane e che parevano per nulla connesse tra loro, creando un disegno unico e inedito. Una volta guardate in quella disposizione, quelle idee assumevano tutto un altro peso, tutto un altro senso.

Benjamin, più di altri, ha praticato costantemente - e, mi viene il dubbio, non del tutto volontariamente - un pensiero scomodo.

Un pensiero snob, non per tutti. Particolarmente adatto a essere ‘citato’, sfruttato, estrapolato dalla propria costellazione e utilizzato a piacere.

Ma le tessere di ogni enigmatico mosaico da lui creato avevano senso solo se disposte da lui, e viste nel loro insieme.

Perché i suoi pensieri erano la sua collezione.

La collezione di pensieri di Benjamin avvicinava elementi estranei e li disponeva in una nuova costellazione di senso.

Un pensiero che metteva l’uomo in una posizione marginale rispetto alle cose.

Cose fuori posto, danneggiate, dimenticate, che non servono più a niente e a nessuno.

Liberate dal dover essere adatte a qualcosa, utili a qualcuno. Cose la cui dignità consisteva nell’essere in-utili.

Questa, appesa dietro a me in questo momento, è una collezione di cose trovate in spiaggia, .

Un lavoro del mio bambino più piccolo (lo abbiamo incollato insieme).

 

Nel Il cruccio del padre di famiglia di Franz Kafka, l’essere umano adulto e prepotente viene messo spalle al muro da Odradek, rocchetto sbrindellato a forma di stella che da sempre abita il sottoscala, la polvere. Un oggetto incomprensibile e dispettoso che gli ride in faccia - la sua risata ha il fruscio delle foglie secche - e che gli sopravviverà.

Questa visione marginale dell’essere umano a favore delle cose è innata in WB.

Al mondo delle cose, più che agli umani, ha sempre prestato la massima attenzione infantile.

Un bambino silenzioso, che aveva confidenza con i luoghi e con gli oggetti. Un bambino che giocava a nascondino e mentre giocava si trasformava, letteralmente fondendosi con gli arredi della stanza.

“Il bambino che sta dietro la portiera diviene a sua volta qualcosa di fluttuante, uno spettro. […] dietro una porta è porta lui stesso” (W.B., Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi 2001)

Mentre attraversava uno spazio illuminato da vetrate colorate, lui stesso diveniva colore.

«Nel nostro giardino c’era un chiosco decrepito e abbandonato. Lo amavo per le sue vetrate multicolori. Quando all’interno passavo di vetro in vetro, mi trasformavo, mi coloravo come il paesaggio che, ora avvampante ora polveroso, ora sommesso ora lussureggiante, stava nella finestra» (idem).

Il bambino, che abita il mondo delle cose e ne è plasmato, è il collezionista per eccellenza.

Raccoglie tappi di bottiglie, elastici rotti, rocchetti dimenticati, figurine, chiodi curvi, pezzetti di vetro, piume di piccione trovate sul davanzale della finestra e li mette al sicuro, nell’armadietto del suo scrittoio.

«Lo scrittoio vicino alla finestra divenne il mio posto preferito. L’armadietto nascosto sotto il sedile ospitava non solo i libri che mi servivano a scuola, ma anche gli album quello dei francobolli e i tre riservati alla raccolta di cartoline illustrate. […] Potevo sentirmi non solo a casa, ma addirittura nel guscio, come uno di quei chierici che nei quadri medievali appaiono rinchiusi nel loro inginocchiatoio o nello scrittoio come in una armatura» (idem).

Chi colleziona ha un criterio incomprensibile agli altri.

Un filo sottile e invisibile che lo porta a notare, scegliere, raccogliere, nascondere e disporre nella propria scatola dei tesori oggetti apparentemente lontani tra loro.

Il bambino riconosce l’importanza del dimenticato, dell’in-utile, e la eleva a criterio magico di selezione del suo privatissimo tesoro.

Un criterio intimo, che non lascia nulla al caso.

Le cose, disposte secondo quel peculiare criterio, formano un disegno.

Quel disegno è il ritratto segreto del loro piccolo collezionista.

Torna quindi l’idea di disposizione in costellazione segreta di cose apparentemente lontane tra loro.

*

Applicando il processo di disposizione in costellazione all’esperienza emotiva di ogni essere umano, potrebbe emergere una mappa segreta, unica e irripetibile.

«Fin dalla preistoria l’uomo ha sentito l’esigenza di organizzare visivamente il suo pensiero, inventandosi mappe per tracciare confini, la presenza di cibo, acqua o nemici: erano una questione di sopravvivenza. Col tempo le mappe sono diventate non solo strumenti progettati per la comprensione di uno spazio – per orientarsi all’Ufficio Postale così come nella Città di Smeraldo – , ma anche per la diffusione di idee e stati d'animo.

Ogni mappa è progettata per organizzare le idee, prima ancora di mostrarci uno spazio. È da sempre uno strumento utile a prendere una decisione, per condurci verso una scoperta. La mappa infatti ci svela ogni possibilità, offrendoci uno sguardo che ha un ché di divino. Ci rende imbattibili di fronte al mondo perché ci dà, sulla carta, il potere di non perderci mai: è una sorta di bacio sulla fronte della Strega Cartografa. Il territorio non è l'unica variabile di riferimento di una mappa: può essere concettuale o schematica, può sovvertire la geografia ed essere puramente personale.» (Luigi Farrauto, Doppiozero)

Una mappa determinata da scelte, dalle circostanze di tali scelte, da errori e fortune.

I punti di riferimento emotivi. I maestri, gli amici d’infanzia, gli amori finiti male, le prime volte, le chiavi di lettura regalate da estranei inconsapevoli.

Fissando su una mappa questi punti di riferimento umani e gli oggetti della propria ‘collezione’ e collegandoli tra loro con linee o elastici, emerge un disegno irregolare. Il proprio ritratto segreto.

Chi ha viaggiato molto, può usare una mappa del mondo.

Chi ha viaggiato meno, la mappa di una città.

Chi ha viaggiato interiormente, la mappa di una casa, con le sue stanze e i suoi segreti.

 

*Nata a Bergamo, Marta Zoppetti vive da quasi vent'anni a Venezia. Dopo gli studi universitari a Milano (si è laureata in filosofia, con una tesi di Estetica su Das Wortbild - parola e immagine in Walter Benjamin) ha vissuto due anni negli USA dove ha studiato comunicazione presso la Boston University. Lavora da anni presso la Fondazione Giorgio Cini onlus, dove promuove borse di studio per ricerche in ambito umanistico. Traduce per diletto da inglese e da tedesco. Colleziona libri illustrati per bambini e non smetterà anche quando i suoi figli saranno cresciuti. Scaffali permettendo.