Un anno fa, la direzione di LiBeR, rivista dedicata alla letteratura per ragazzi della Biblioteca di Campi Bisenzio, è passata a Ilaria Tagliaferri. La nuova direttrice, dunque, compie un anno di attività. Per festeggiare questo tempo che sappiamo essere stato ricco di riflessioni, dubbi e impegni, abbiamo pensato di rivolgerle alcune domande: su di lei, sul suo lavoro e sulla rivista che le è stata affidata. (e se poi, dopo aver letto questa intervista, vi venisse una voglia irresistibile di abbonarvi a LiBeR, potete farlo qui).
La copertina del numero 128 di LiBeR (illustrazione di Luca Tagliafico).
Ilaria, vorrei partire dalla tua formazione. Che strade hai percorso, per studi ed esperienze, per diventare prima bibliotecaria, poi redattrice e, infine, direttrice di una rivista?
Sono entrata per la prima volta nella biblioteca del comune dove abitavo, Sesto Fiorentino, quando avevo sedici anni e frequentavo il liceo. Ricordo che ero con mio padre e il libro che avevo chiesto (Ivanhoe, di Walter Scott) era collocato in magazzino: in quel momento però il montacarichi che collegava il bancone del prestito al magazzino, che stava al piano terra, non funzionava. La bibliotecaria, una signora con un gran serto di capelli crespi, si alzò e scese a prenderlo, con premura, scusandosi. Io e mio padre ci guardammo stupiti, questa cosa ci parve una gran gentilezza: ma come, ci dicevamo con gli occhi, qui nessuno ci conosce, entriamo, non paghiamo e ci accolgono così? Orca (anzi il mio babbo disse oscià, perché era romagnolo), bello. Dopo qualche minuto avevo la mia tessera e il mio libro in prestito. Da quel giorno si può dire che dalla biblioteca non sono più uscita: sono diventata volontaria di quella stessa struttura, che accoglie una delle società per le biblioteche circolanti più antiche d’Italia: ci passavo le domeniche mattina e diversi pomeriggi dopo la scuola. I volontari si occupavano di ricollocare i libri sugli scaffali, ma anche di registrare prestiti e restituzioni. Lì ho capito quanto mi piacesse quella specie di osservatorio privilegiato e silenzioso dell’umanità che la biblioteca rappresenta, attraverso lo scambio, la scelta, la condivisione delle letture. Ricordo il grande senso di libertà e di intimità che mi sembrava arrivare direttamente dal bancone, dagli scaffali, dai corridoi delle sale: da lì mi potevo soffermare a osservare i lettori, i loro gesti, i tic, ascoltavo le loro voci abbassate per rispettare il silenzio, e nessuno aveva da ridire, anzi, sembrava tutto molto naturale. In biblioteca si poteva stare soli, o soli con i libri, e goderne. Senza vergognarsene e senza doversi giustificare: è questo che mi ha conquistata.
Quando dopo un anno dalla mia laurea in lettere moderne mi hanno chiamata dalla biblioteca di Campi Bisenzio, che si era appena trasferita nell’attuale sede di Villa Montalvo, ho toccato letteralmente il cielo con un dito: stavo lavorando come commessa part-time in un gigantesco centro commerciale poco distante dalla Villa, in attesa di tempi professionalmente migliori, e non mi sembrava vero di abbandonare i golfini di cachemire, che ripiegavo con una certa goffaggine, per potermi ritrovare di nuovo fra i libri. Mi son sempre chiesta come due luoghi così profondamente diversi – il centro commerciale e la biblioteca ̶ potessero ritrovarsi così vicini, convivere a pochissimi chilometri di distanza, con la differenza che il gigantesco tempio dello shopping è molto conosciuto e ci sono addirittura pullman di acquirenti agguerriti che lo raggiungono di prima mattina, mentre la biblioteca è sempre alla ricerca di conferme, ha un costante bisogno di essere promossa, frequentata, rinnovata per non finire in una specie di buco spazio-temporale che affosserebbe tutte le sue fondamentali potenzialità. Appena entrata al lavoro nella biblioteca di Campi Bisenzio (era l’ottobre del 2002) ho conosciuto, anche dal punto di vista professionale, LiBeR: mi è stato proposto di occuparmi dell’editing dei testi che sarebbero stati pubblicati sulla rivista, e ho accettato con entusiasmo. L’editing può essere un lavoro stimolante a tratti anche divertente se lo si fa su testi i cui contenuti ti appassionano, e a me non sembrava vero di poter sfruttare questa possibilità di “sistemare i testi” per imparare, conoscere, approfondire la riflessione sulle narrazioni, capire quali fossero i titoli di qualità, spiare i personaggi dei libri attraverso le parole dei loro autori, dei critici, degli illustratori. E poi c’era l’aspetto concreto: quello che facevo si traduceva in un oggetto esteticamente bello, che si poteva toccare, sfogliare, mettere di piatto su uno scaffale. La prima volta che ho visto un mio strillo (una breve frase che sintetizza il contenuto di un articolo, nel caso di una rivista) in copertina su LiBeR avevo poco più di venticinque anni, ho gongolato a lungo, ho pensato caspita, fa un bell’effetto. Negli anni sono passata dall’editing dei testi alla collaborazione redazionale a tutto tondo, sempre più specifica, che via via si è arricchita in modo molto denso, grazie alla fitta rete di relazioni e collaborazioni con gli operatori del settore che si affidano al nostro lavoro per avere un orientamento nel grande mare magnum dei libri per bambini e ragazzi: senza di loro la rivista non esisterebbe. Dopo i relativi pensionamenti dei miei due responsabili - a cui si deve l’ideazione del progetto in anni in cui davvero non esisteva niente di simile nella letteratura giovanile - la guida di LiBeR è passata a me, trasformando in modo importante le mie giornate lavorative, perché al momento passo molto più tempo in redazione di quanto non ne trascorra in biblioteca. Ho lottato perché questa promozione fosse riconosciuta a livello contrattuale e posso confermare che l’avanzamento professionale di una figura femminile che si ritrova in una posizione di responsabilità non è affatto cosa scontata. Sono soddisfatta di aver portato a termine questo anno così complesso con quattro numeri della rivista forse un po’ diversi rispetto a quelli a cui erano abituati i lettori di LiBeR, ma sui quali abbiamo investito molte energie.
Villa Montalvo: la sede della Biblioteca comunale Tiziano Terzani di Campi Bisenzio.
Nello specifico, per quale ragione hai scelto il campo della letteratura per ragazzi e cosa ti piace dei libri per ragazzi?
Ho sempre letto moltissimo, fin da bambina, pur non avendo in casa un background di studi e cultura. Non saprei definire esattamente come sia arrivato per me l’amore verso la lettura: so però che si è arricchito grazie alla scuola, fin dalle elementari, alla piccola biblioteca che la maestra ci aveva fatto allestire in classe, e grazie al fatto che i miei genitori mi hanno sempre lasciata libera di decidere cosa fare in materia di libri, e, una volta cresciuta, di studi. Magari i miei non riuscivano bene a capire i miei gusti (dicevano che ero troppo drammatica in ogni cosa) ma si fidavano molto del mio istinto. Di sabato pomeriggio chiedevo loro portatemi in libreria, e mi ci portavano. Sceglievo da sola i titoli, mi basavo sulle copertine, andavo quasi sempre sui libri Mursia con la copertina rigida. Li confidavo poi alla maestra, l’unica che, spesso osservandomi da lontano, si era accorta di quanto davvero mi piacesse leggere. Lei, brusca, a volte approvava i titoli e altre volte no. Le dissi che avevo comprato Rosella di Louisa May Alcott, e che avevo delle perplessità al riguardo, lo trovavo noioso: mi disse senza mezzi termini che della Alcott potevo fermarmi a Piccole donne, non c’era bisogno di insistere. Gli anni Ottanta, quelli della mia infanzia, sono stati per la letteratura per ragazzi, in particolare per la narrativa, una stagione fertile, densa di suggestioni, idee, di autori che hanno lasciato il segno. Si è trovato finalmente nelle storie lo spazio per l’irriverenza, per andare contro alle convenzioni, per parlare di scuola, natura, emozioni e rapporti familiari senza retorica né patetismi, ma anzi affondando la penna nell’ironia, nella trasgressione raffinata, a volte spavalda, nel coraggio delle scelte, e hanno preso vita personaggi indimenticabili come, per citarne solo un paio, Lavinia di Bianca Pitzorno, o Matilda di Dahl. Io da piccola questi personaggi non li conoscevo: quando ho iniziato a lavorare per LiBeR, mi sono subito accorta di quante storie meravigliose mi fossi persa da ragazzina e da allora, senza sosta, ho cercato di recuperare. Questo “tornare indietro”, alla mia infanzia e all’adolescenza, attraverso i libri – altra fantastica possibilità offerta dalla biblioteca, che raccoglie sterminate quantità di titoli non più in commercio – mi ha fatto scattare la molla dell’innamoramento per la letteratura per ragazzi, che a oggi rappresenta la parte serena, vitale, ma anche dolorosa e complessa delle mie letture, perché quei libri parlano alla parte di me che ancora mi piace e in cui mi riconosco, quella che si meraviglia, si stupisce, si immagina cose e persone, e ci trovo dentro la freschezza, la potenza, la cura del raccontare. Cose per me fondanti.
L'interno della biblioteca.
Chi ti segue su Facebook sa che sei una lettrice appassionata, vorace e raffinata. Che rapporto hai con i libri, sia dal punto di vista professionale sia personale?
Leggo molta narrativa, faccio fatica a “distinguere” quella per ragazzi da quella per gli adulti, comunque diciamo che in generale privilegio soprattutto i romanzi italiani e americani. Quando leggo non sono mai completamente sola perché ho davanti, come una specie di ologramma, un personaggio, un lettore Altro da me. Se tale personaggio è vero, cioè qualcuno fisicamente già esistente, è come se mi facesse compagnia nella lettura e prima o poi so che lo incontrerò in biblioteca; se invece il personaggio è presunto ed esiste solo nella mia immaginazione so che prima o poi prenderà forma e si materializzerà, (probabilmente sempre in biblioteca!), e potrò consigliargli quello specifico titolo. Ho una inquietante propensione a essere totalizzante con i libri che leggo, nel senso che se mi piacciono mi fanno un effetto pervasivo: se una storia mi coinvolge, la ritrovo nei gesti, nel cibo, nei posti del mio quotidiano, ci penso e ci ripenso, diventa una specie di appendice che mi porto dietro. Per questo motivo non guardo le serie tv, che si basano su meccanismi narrativi volti a fidelizzare lo spettatore quasi fino a “stordirlo”: preferisco lasciare il mio stordimento in mano ai libri, semplicemente perché così mi sembra, dopo anni di tentativi, di saperlo controllare (e forse nascondere) meglio rispetto a quello che produrrebbero le scorpacciate televisive.
Puoi raccontare in breve come è nata LiBeR e in che modo è legata alla Biblioteca di Campi Bisenzio?
Il progetto LiBeR nasce nel 1988: anni, come dicevo prima, cruciali per la letteratura per bambini e ragazzi. Il progetto comprende la rivista - trimestrale, che rappresenta, a partire da quel momento, un osservatorio privilegiato dei fenomeni che hanno interessato il mondo del libro per bambini e ragazzi – e una bibliografia in forma di banca dati (LiBeR database) che raccoglie la documentazione di tutte le novità librarie per bambini e ragazzi distribuite in Italia a partire dal 1987. Dico che è un osservatorio privilegiato perché si basa sulla possibilità di avere “i libri alla mano”: in biblioteca a Campi Bisenzio, dove nasce e tutt’ora ha sede il progetto, vengono infatti acquistati tutti i libri per bambini e ragazzi pubblicati in Italia. I libri vengono poi catalogati da uno staff di documentalisti con il massimo recupero delle informazioni: grazie all'approfondita descrizione bibliografica, al suo sistema di soggettazione per parole chiave e alla valutazione di ogni opera, il database permette di realizzare percorsi di lettura, approfonditi e diversificati per fasce d'età.
In questo modo, con l’acquisto e la documentazione dei libri in modo così importante, continuativo, e, lasciamelo dire, ingombrante (nel senso che ci servirebbe più spazio dove sistemare i volumi), biblioteca e rivista si alimentano reciprocamente e sono strettamente intrecciate. A conferma di questo c’è la presenza del fascicolo con le schede novità, allegato a ogni numero di LiBeR: se la rivista rappresenta la parte critica e letteraria del nostro lavoro, il fascicolo ne è la fondamentale e preziosa appendice bibliografica.
Alcuni numeri della rivista LiBeR.
Come pensi sia cambiato il nostro settore editoriale e insieme a esso, i lettori, grandi e piccoli?
I dati tratti da LiBeR database, sui quali lavoriamo e di cui diamo conto nel rapporto annuale, ci dicono che da una decina d’anni la produzione editoriale ha una tendenza stabile alla crescita qualitativa. Questo è senza dubbio un dato positivo, ma bisogna tenere conto che nel frattempo sono cambiati anche i lettori, che da un lato sono sempre più coinvolti dalle nuove tecnologie e faticano a trovare spazi da dedicare alla lettura, autonoma o condivisa con i genitori, se si tratta di bambini piccoli. Purtroppo la crescita qualitativa della produzione editoriale è ancora, nonostante tutti i nostri sforzi (nostri nel senso di tutti noi che operiamo in questo settore) ancora materia per gli addetti ai lavori. Nelle classifiche pubblicate dai quotidiani nazionali sui libri per bambini e ragazzi più venduti resistono titoli forti solo dal punto di vista commerciale e spesso deboli dal punto di vista della qualità dei contenuti. Resistono, e hanno un discreto successo, le scelte editoriali legate al marketing. Il lavoro di promozione delle letture di qualità è gigantesco e va portato avanti in rete: un anello di congiunzione fondamentale della rete è quello tra biblioteche e scuole. Dovrebbero conoscersi, frequentarsi, amarsi di più. Personalmente uno degli obbiettivi che mi sono data quando ho assunto il timone di LiBeR è stato proprio quello di rendere la rivista e il suo lavoro approfondito sui libri più accessibile e raggiungibile per gli insegnanti, che sono forse tra i primi ad aver bisogno di strumenti concreti di cui avvalersi per orientarsi nel mare magnum della letteratura per bambini e ragazzi.
Quali sono le cose che ritieni stiano cambiando e debbano cambiare nel lavoro di una biblioteca?
Le biblioteche oggi hanno bisogno di maggiori risorse economiche, il precariato è molto diffuso tra gli operatori e rende difficile portare avanti progetti e iniziative complesse e bisognose di cura come tutte quelle rivolte alla promozione della lettura. Penso in particolare alle biblioteche scolastiche, a oggi mancanti di una e vera e propria regolamentazione, lasciate in mano a insegnanti o operatori volontari appassionati che non possono comprensibilmente occuparsene in maniera professionale e continuativa. C’è bisogno, secondo me, in un certo senso, di liberare il mondo dei libri dalla patina generalista e un po’ retorica secondo cui tutti con i libri possono fare tutto, basta avere passione: non è così, serve preparazione, regolamentazione, retribuzione. I progetti di promozione alla lettura che vedono coinvolti genitori, nonni, parenti lettori proliferano, fanno allegria e hanno sicuramente una valenza importantissima: li affiancherei però a progetti dove chi legge, chi recita o chi conduce laboratori lo fa in maniera professionale, per dare giustamente ai bambini e ai ragazzi un’offerta diversificata, studiata, efficace.
In biblioteca a Campi Bisenzio.
Quali sono le cose che ritieni stiano cambiando e debbano cambiare nel lavoro di una rivista? E che ruolo pensi possa avere questa, oggi?
Una rivista dovrebbe basarsi su una squadra di collaboratori che abbiano competenze diverse, da incrociare: dovrebbe essere un lavoro di continuo confronto, una specie di puzzle umano e intellettuale sempre in disordine, e però capace di ricomporsi velocemente. Oggi le riviste cartacee vivono spesso con una spada di Damocle sulla testa, non dobbiamo nasconderlo: il nostro settore mantiene, però, ancora, una vitalità tale da consentirci appunto un confronto altrettanto vitale, che, nel caso di LiBeR, si regge moltissimo sui contributi portati dagli esperti, dagli studiosi, da librai, bibliotecari e docenti, a livello nazionale. Io mi occupo di tessere una sorta di trama, a volte multiforme, tra tutte le idee che proponiamo, riceviamo e raccogliamo e di tradurla nei numeri che escono, e che hanno sempre un tema portante.
Quali sono le cose che ami di più e quali di meno nel tuo lavoro?
Amo molto essere circondata dai libri in senso fisico. Mi piace, e mi sembra ancora una specie di magia, il fatto che mentre leggo un articolo per la rivista posso annotarmi i titoli da raggiungere fisicamente e un attimo dopo li ho sulla scrivania, perché la biblioteca dista pochi metri dal mio ufficio. La redazione, però, è collocata dal punto di vista spaziale e amministrativo all’interno di una struttura pubblica (la biblioteca comunale, appunto) e ogni tanto ha bisogno di uscire dai meccanismi burocratici che inevitabilmente la coinvolgono (e che mi piacciono meno: delibere, atti formali, decisioni sulla manutenzione della struttura, sui bilanci eccetera) e di tuffarsi in ciò per cui è stata creata: i libri. Per questo tengo spesso la scrivania ingombra di albi illustrati, come in questo momento: sto preparando dei corsi di formazione per gli insegnanti del nido, ne ho approfittato per circondarmi dei miei titoli preferiti e guai a chi me li tocca.
La mia scrivania.
Cosa pensi sia per te da una parte irrinunciabile, dall’altra fondamentale, nel lavoro di direttrice?
È irrinunciabile tessere la trama tra le idee e le opinioni sulle tematiche di cui scegliamo di occuparci, cercando di rispettare i diversi punti di vista. È fondamentale ricordarsi, come diceva Rodari nel Giornale dei genitori, che i bambini hanno molte più risorse di quanto noi adulti siamo abituati ad attribuir loro: questo è un concetto che applicato ai libri rivolti a loro non va mai dimenticato, tantomeno in un lavoro di direzione. Come direttrice, quando c’è da prendere una decisione o da fare una scelta in merito a temi e contenuti io cerco di ricordarmi sempre quanto concretamente serva a bambini e ragazzi veder riconosciute le loro risorse e sopratutto la loro dignità, anche e soprattutto in materia di letture, sia che si tratti di un albo da leggere sul cuscino morbido che di un romanzo affilatissimo che tocca temi controversi, a volte dolorosi.
Cosa ritieni sia più importante, oggi, offrire da una parte a chi legge LiBeR, e dall’altra, a chi viene in biblioteca?
Credo che il compito di entrambe le facce del progetto, quindi sia LiBeR sia la biblioteca, alla fine sia uno solo: aiutare i lettori a orientarsi nella moltitudine dei titoli che ogni anno vengono pubblicati, lasciandoli allo stesso tempo liberi di decidere, fare domande, avere dubbi. Non esiste un solo titolo perfetto, fortunatamente, e noi abbiamo il grande privilegio e la grande responsabilità di offrire al lettore una scelta per quanto possibile coerente con il tipo di richiesta che ci viene fatta, e ragionata secondo le nostre competenze. Possiamo sostare (in biblioteca è necessario non fare le cose di fretta, non mi stancherò mai di ripeterlo) con il lettore davanti allo scaffale, “libri alla mano”, e in questo momento più che mai è un privilegio davvero enorme, che va vissuto con lucidità e impegno.
Grazie!
Ilaria Tagliaferri nel giardino della Biblioteca di Campi Bisenzio.