Il nostro ultimo volume degli Anni in tasca è di una scrittrice cilena molto conosciuta, Maria José Ferrada, di cui già abbiamo (felicemente) in catalogo Il segreto delle cose. Con queste brevi riflessioni Maria José, oggi, ci introduce a quelle che sono alcune delle migliori e più riconoscibili qualità del suo stile: la concretezza, il mistero, l’essenzialità, la chiarezza. La ringraziamo.
[di Maria José Ferrada]
Iniziai a scrivere libri venticinque anni fa per fare un regalo a mio fratello minore. Era un libro di poesie su cartoncino, ispirato ai giochi che lui si inventava e dove, non avendo io talento per il disegno, avevo attaccato delle stelle e altri ritagli di collage (ricordo che in un precoce tentativo di introdurre mio fratello di tre anni alla poesia sperimentale, inclusi una poesia che si intitolava Poesia trasparente e che consisteva in un foglio di cellofan). Questo semplice libretto di cartone fu un regalo anche per me perché, col tempo, si è trasformato nel mio lavoro e, come accade con i veri lavori, mi insegna ogni giorno qualcosa di nuovo. Ecco alcune delle cose che ho imparato durante la scrittura di Un albero, una gatta, un fratello.
La memoria
Stavo terminando il libro, quando, leggendolo a mia madre, che mi aiuta nella rilettura delle bozze, ci siamo accorte che c’era un errore temporale in uno dei ricordi. Una delle storie che raccontava il mio vicino – su un uomo che si era perso nel deserto – era sì successa e apparsa sui telegiornali, ma molti anni più tardi di quanto ricordassi. In altre parole era impossibile che il mio vicino dell’infanzia me l’avesse raccontata. Il problema non era l’errore in sé quanto il fatto che io ricordassi il momento in cui mi raccontava la storia e, come dissi a mia madre, lo ricordavo per-fet-ta-men-te. Dentro uno dei tanti cassetti della mia memoria c’eravamo io e il mio vicino, seduti sul ramo di un albero. C’era la sua voce intenta a raccontare la storia, con dovizia di dettagli, e anche la mia espressione di terrore mentre ascoltavo (un uomo, sceso un momento dal treno in cui viaggiava, era diventato una mummia). La memoria mi aveva ingannato e lo aveva fatto per-fet-ta-men-te.
Questo annullava il mio ricordo? Passai in rassegna la mia testa e il mio cuore (credo che la memoria si trovi in un luogo intermedio) per giorni. I miei ricordi erano lì, li avevo conservati e ritoccati. All’inizio questi “aggiustamenti” mi preoccupavano, potevo scindere i fatti da ciò che avevo sottratto o aggiunto nel raccontarli a me stessa? No, ormai non potevo. E il fatto è che non sapevo più cosa fosse cosa. Rimasi in collera con la mia creatività per giorni. Una cosa era correggere i miei testi (togliere delle parole o delle scene intere, cercare dei sinonimi, potare) e un’altra rendermi conto che avevo applicato la stessa operazione ai miei ricordi. Poi, come spesso accade, ci ho fatto pace. Capii che queste alterazioni non erano il frutto di un capriccio creativo, ma il tentativo di vivere serenamente quei momenti tristi e oscuri che capitano nella vita di chiunque. Anche nella mia.
Autobiografia o finzione? Credo che separare le due cose non sia semplice. E forse nemmeno necessario.
Estratto da Un albero, una gatta, un fratello.
Il silenzio
Prima di scrivere Un albero, una gatta, un fratello ho scritto un romanzo intitolato Kramp (pubblicato in Italia da Edícola) dove una bambina – come me – accompagna suo padre, un commesso viaggiatore, in giro per i villaggi del sud del Cile, che in realtà potrebbe essere qualsiasi altro paese.
C’è un elemento in comune tra i due libri, un elemento che nel racconto della storia pesa tanto quanto le parole, che non si legge né si sente, ma è lì a segnare il corso degli eventi come se fosse un secondo protagonista – benché non secondario. Il silenzio. Il silenzio è la coperta che ha avvolto tutta la mia infanzia. Non amo parlare di generazione perché mi sembra un termine totalizzante e dunque ingannevole, per cui mi limiterò a dire che la stessa coperta avvolgeva anche i miei vicini, i miei cugini e i miei compagni di scuola. Essere cresciuti sotto una dittatura significava che non si poteva dire ciò che si pensava, soprattutto in presenza di noi bambini che ingenuamente avremmo potuto riportare ogni discorso al vicino (senza sapere da che parte stava il vicino). Cene silenziose, fine settimana silenziosi, adulti che erano diventati esperti nel parlare senza dire nulla. Io mi servo del silenzio, che si è attaccato per sempre alle mie parole come fosse una piccola ombra bianca.
Paura di dire troppo? Forse. La paura, comunque, è uno strumento utile per la scrittura.
Parole semplici
Credo che entrambi i romanzi siano parenti di Il segreto delle cose e della maggior parte dei miei libri per bambini. Il punto è che i miei romanzi e le mie poesie, indipendentemente dall’età dei loro lettori potenziali, sono scritti con parole semplici. Questa scelta è legata alla mia ammirazione verso la capacità dei bambini di guardare al mondo e di nominarlo con parole trasparenti e rotonde. I bambini che incontro nelle scuole e nei laboratori di poesia mi hanno insegnato a preferire uccello, albero, nuvola, cielo, rispetto alle parole astratte usate dagli adulti per nominare quelle cose. Un uccello per me non è la libertà o la leggerezza. È semplicemente un uccello, e questo mi sembra perfetto e meraviglioso.
Estratto da Il segreto delle cose.
Non mi piacciono i discorsi perché la maggior parte delle volte sono pieni di parole e le parole quando sono tante finiscono per mettersi in mezzo, come una muraglia, tra noi e la realtà. Fedele a questo principio e prendendo come esempio i bambini, preferisco non dire alle persone a cui mi rivolgo quello che devono pensare su un albero. Semplicemente mi accontento di dire pioppo, gelso, cipresso e di lasciare che siano loro a pensare o interpretare nel modo che preferiscono. Per farlo, possono utilizzare quello che hanno a portata di mano: la loro memoria – che sicuramente è tanto imperfetta quanto la mia – le loro emozioni e la loro esperienza.
Estratto da Un albero, una gatta, un fratello.