L'ultimo libro prima del grande stacco di agosto, è stato Dizionario segreto di infanzia di Arianna Giorgia Bonazzi, della collana Topi Immaginari di cui, finora sono usciti altri due volumi: Infanzia di una fotografo di Massimiliano Tappari e A volte sparisco di Francesco Chiacchio. Come Francesco e Massimiliano, Arianna in questo libro segue le tracce della propria vita immaginaria infantile per arrivare alle sue radici. Lo fa con grazia, ironia, vena spavalda, pensosa, e persino un po' folle, come in effetti folle è, spesso, anche la percezione allucinata dell'infanzia nel darsi spiegazione del mondo. Il romanzo che ha scritto, a noi è parso molto bello, e del tutto a sé. Vi invitiamo a leggerlo, ma prima leggete la presentazione della stessa Arianna.
Sono stata convinta di avere dei seri problemi con le immagini fino al giorno in cui Giovanna Zoboli, ricordando il mio esordio con lo strano Les adieux, (di cui abbiamo scritto qui, ndr) non mi ha proposto di scrivere un testo sulle origini del mio immaginario.
Mi correggo: sono rimasta convinta di non possedere un immaginario sia mentre accettavo sventatamente di scrivere sul mio immaginario, che durante l’intera stesura di quel che è diventato Dizionario segreto d’infanzia. Mi raccontavo che da sempre non vedevo per immagini, ma che filtravo la realtà attraverso i suoni: gli occhi rivolti verso un interno buio, permettevo solo alle parole di penetrare il mio guscio, e per giunta a quelle parole, non attribuivo il loro significato convenzionale, ma un senso tutto mio, più adatto e giusto all’impressione che esse lasciavano in me.
È stato solo a libro pubblicato, durante il primo incontro coi lettori, che la mia editor - fino a quel momento discretamente nascosta nel pubblico - è saltata su a gamba tesa a stroncare le mie lagnose fanfaluche dicendo che questo “è un libro pieno di immagini!”
È stato come svegliarsi con uno schiaffo. Ma certo, era così! Quando dicevo di leggere i libri “ascoltandoli” nella mente senza visualizzare nulla, al punto che la mia esperienza artistica ne risultava totalmente acciecata, che razza di pose mi stavo dando?
Il fatto che nella mela abitasse un piccolo orso-toro, che l’astrakan fosse un cane dello spazio e Valeria una mantellina verde, non erano forse alcune delle pullulanti immagini del libro, che la mia libera associazione verbale, sopravvissuta all’oblio dell’infanzia, poteva oggi accendere nel lettore?
Le idee che Istria significasse distruzione, che ruvido fosse un terribile insulto o che gli organi genitali femminili avessero un nome maschile hanno dato vita a una mia personale teoria linguistica, secondo la quale ciascun individuo bambino avrebbe una propria lingua privata aderente alla sua anima, e che si diventa adulti subendo la violenza di dover aderire a un linguaggio civile.
Nel libro, oltre alla raccolta delle mie allucinate visioni linguistiche - a volte registrate fedelmente dalla memoria, altre volte ricreate secondo il meccanismo mimetico della finzione letteraria - c’è anche l’idea che il linguaggio civile sia per forza inadeguato, e che sia impossibile ottenere da esso una totale rappresentazione di sè.
Ma come?, mi si è obiettato. Un libro che è tutto un omaggio alla potenza generatrice del verbo, e pure sottolinea la limitatezza espressiva del linguaggio?
Era un’obiezione giusta. Per assurdo, non ci avevo mai pensato. (Dopotutto, sono ancora la bambina presuntuosa che si credeva un dio capace di rinominare il mondo).
Mi sono risposta che la fiducia in infiniti linguaggi personali e la presa di distanza dalle rigidità del linguaggio intersoggettivo non sono in contraddizione con la mia opera. È la letteratura, infatti, l’unica forma di artigianato che tanto finemente può forgiare la materia imperfetta della lingua, fino a farla aderire all’anima individuale con precisione tendente all’infinito. È solo in questo territorio che, di nuovo, dopo la magia infantile del battesimo, le parole ritornano a vestire a pennello i loro abiti, a riempire precisamente le loro minuscole case.
In questo libro, ho inserito gli spiriti parlanti di tanti scrittori che sono cresciuti bilingui o trilingui, e quello di mio suocero, che tradusse dallo spagnolo all’italiano le prime impressioni della sua vita nella Pampa.
Nel Dizionario, ho detto che “il mondo con gli anni si squarcia sempre meno e sempre richiedendo più forza”, ma che pure lì sotto “c’era il mondo vero di ciascuno”, e che “quello di chi scrive era fatto di parole”. Ora penso che tutti, e non solo pochi esseri eccezionali, possano tornare a tuffarsi in quel fiume carsico, a bere boccate e cucchiaiate del torrente che mormora sotto alla superficie opaca dell’abitudine al parlare.
“Le parole, come piccole splendide cose (e dunque camicie, scampoli, limoni di pane), ci tengono attaccate alla vita interiore, dentro alla corrente avversa che vuole strapparci da noi.”
La grafica del volume e della collana è di Anna Martinucci; l'immagine in copertina è di Guido Scarabottolo, e anche quella che appare al link su Facebook, realizzata per il libro Cose che non vedo dalla mia finestra, di Giovanna Zoboli (2012). Ndr