Premessa
Io sonouna che sfrutta i bambini. Li metto a lavorare e non lipago nemmeno. Al massimo preparo la merenda.
Si chiamalaboratorio, da noi. Chiunque abbia a che fare con ibambini sa di cosa si tratta, più o meno. È una parola che uso sempreanch’io, per fare prima. Ce ne sono altre: potrei dire bottega,atelier, scuola. Però ogni volta dovrei stare a spiegare. Invece sedico laboratorio tutti fanno la faccia della persona che ha capito,più o meno. Quindi va bene. In fondo mi ci sono abituata e mi piace,anche perché qualche volta diventa labboatoio,con due b, perché siamo a Roma.
Ho cominciato per caso e non è che mi piacessemolto, all’inizio. Erano sempre dei massacri pazzeschi e mi sembrava chenon avesse molto senso, oltre al fatto che si buttavano via tonnellatedi piatti di plastica e di vernice. Poi pian piano ho cominciato adavvicinarmi più seriamente alle attività con i bambini e ormai ho fattoin tempo a vederne parecchi diventare grandi. Come si dice in questi casi,ho avuto modo di rifletterci su.
Ho disegnato, ho costruito,ho fatto esperimenti e pasticci, ho fatto filmati con bambini dai 3 ai12 anni e soprattutto ho parlato con loro.
Non credo di avere una dote innata, néuna vocazione particolare. Ora però non ne posso fare a meno. Magariun giorno mi passa, ma per ora è così.
Anzi, a voltemi monto la testa e mi sembra di trovare significati universali inquesta cosa di lavorare con le mani insieme a dei bambini. Il problemaè che quando mi vengono queste illuminazioni ho le mani occupate ese non scrivo subito le cose io me le dimentico, quindi adesso questisignificati non ve li posso dire.
Però posso dire che secondo me unlaboratorio comincia ad avere un senso, non so se universale,quando ogni settimana puoi vedere dei cambiamenti nel segno,nella volontà. Ma ha senso anche chiacchierare, raccontarsi lenovità. Se si riesce a trovare un tema per far parlare tutti, magariun argomento che non sembra avere niente in comune con quello cheintanto stanno facendo le mani e invece poi chissà, un’attinenzac’è e qualcuno se ne accorge anche.
Certi incontrisono meglio di altri. Ci sono stagioni e orari più adatti, perchéil corpo reclama il suo movimento quotidiano.
Spesso c’è un grande caos e alcuniproprio non ce la fanno a stare seduti, oppure tutti parlanoinsieme, o canticchiano.
Io sto lì, ascolto, imparoe metto da parte. Perché si lavora con le immagini ma ci sono dimezzo anche tante parole, così quando tutti vanno via rimangonoper terra pezzetti di carta, gomme, matite ma anche mozziconidi storie, virgole e frasi lasciate a metà che magari vale lapena raccogliere. Certe volte metto tutto insieme ed esconofuori dei testi che diventano libri, poi dai libri arrivanoaltre idee per lavorare ancora insieme.
Una cosa che mi ha sempre appassionato è ilmodo in cui ci si appropria di una parola, per imitazione, per il suono,per il ricordo di un’esperienza.
Tempo fa ho fatto un piccoloesperimento che è durato solo un mese e raggruppava bambini di etàmolto diverse: c’era chi sapeva scrivere, c’erano piccoli di tre anni,bambini chiacchieroni e anche molto timidi. Un gioco semplice, un po’surrealista. Si ritagliano da varie riviste sostantivi, verbi o aggettivi,scelti per la loro grandezza, per il colore, per il carattere. Si mettonoinsieme termini concreti e astratti, poi si mischia tutto e si chiede di pescare.
I più grandi sono andati avanti da soli,alcuni corretti come un dizionario, altri più spiritosi. Chi non sapevaancora scrivere ha dettato; chi non conosceva da prima il significatodi una parola ci ha provato, spesso riuscendoci.
Per le illustrazioni, visto che avevamo tutti quei ritagli, abbiamomischiato collage, matite e pennarelli e oltre a tanti libretti quadratipieni di parole liberate sono venuti fuori quintali di idee per nuoviincontri.
I momenti più belli sono quei silenzi di unattimo di fronte a una parola familiare.
Ehm…vuol dire… è quando… E allora si mima, o si ride ebasta.
Come se i pensieri si ingorgassero e non riuscisseroa uscire. Succede anche ai grandi.
Ci sono paroleche a certe età percorrono una strada sempre uguale o quasi. Adesempio, a sei anni: amore = baciarsi sulla bocca = che schifo.
Altre volte arrivano sintesi profonde, o soluzioni di fronte a parolesconosciute. Come quando ho chiesto a quella bambina di tre anni e mezzoche cos’era la fedeltà, parola che aveva appena pescato e che tenevatra le mani: un foglietto, naturalmente. E mi guardava con una faccia comea dire: non ti sei letta Roland Barthes? Ok, sì, scusa... Per forza poidopo ti viene voglia di scrivere poesie.
Le Piccole Parole (ovvero quando resti sola,spazzi per terra e ci pensi su)
Cercando poco ne ho trovate tante,
c'erala Mamma, il Mondo, l'Elefante,
il Potere, laFelicità.
Poi c'era il Piede,
la Diagonale, il Letto,
la Gabbia, il Ponte,la Genialità.
Le ho ritagliate, messein un sacchetto,
e ho detto - Adesso pesca,
e spiegami
qualunque cosaesca.
Volevo sedermi ad ascoltare
il racconto delle piccole parole,
vedere se leparole grandi
dispiegate decollano lontano,
o se restano mute
accartocciatein mano.
E così l'Oggetto èqualcosa per davvero,
la Pazienza è quandotutto è calmo.
Nel dubbio, la Fedeltà è unfoglietto
zitto, scritto in nero
incollato al quaderno per l'eternità.
La Diagonale è una striscia in per così,
(A volte il corpo
dice a modo suo,
e un disegno aiuta.)
Il Bellosi spiega con l'esempio,
la Bontà col suocontrario.
Non è il tempio del metodo,
questo vocabolario.
L'ordine,come al cinema,
è quello di apparizione;
dove c'è spazio libero,
si faun'illustrazione.
Ho riempito paginedi ore
e ho sentito
cheavrei continuato all'infinito,
con questo giocodi parlare di parole.
Piccolospirito dei corpi nuovi
che ti muovi
come un demone minimo mai stanco,
insegnami tutto dal principio,
dimmi dinuovo l'Amore,
la Maestra, il Tempo.
Ricominciamo
da questo fogliobianco.