Si dice che veniamo dallo spazio

Oggi esce la quinta novità dell'autunno: le immagini sono di Beatrice Alemagna, le parole della svedese Sara Strindsberg. Il libro è Al parco.

[di Giovanna Zoboli]

Beatrice Alemagna ci ha abituato ad albi di cui è al tempo stesso autrice e illustratrice (eccetto per classici di grandi nomi che accetta di illustrare, come Rodari, la Lindgren o Saint-Éxupery). Per questo nuovo libro con le figure, tuttavia, ha fatto un'eccezione, proponendo ai lettori il testo di una scrittrice svedese, Sara Stridsberg, poco conosciuta dai lettori italiani (sono stati pubblicati solo due titoli, finora, in italiano, uno da Mondadori e uno da orecchio acerbo), ma di grande levatura,.

Non è l’unica novità proposta da questo libro. Siamo, infatti, abituati a vederci cambiare le carte in tavola da questa artista che, pur riconoscibilissima e coerente nel proprio linguaggio figurativo, non ama ripetersi. A ogni nuova uscita sorprende il lettore, imboccando strade impreviste e secondarie che, tuttavia, sempre, spalancano, all’improvviso, paesaggi e aperture mozzafiato (per esempio, dopo il segno umoristico di Manco per sogno, se ne è uscita con una cupissima e sanguinaria Biancaneve).

Al parco è un libro severo, attraversato da venti di selvatichezza, mistero e libertà.

Ha un testo meraviglioso, che descrive con secchezza e precisione il territorio accidentato e pericoloso dell’infanzia, mostrando le sue luci abbaglianti, ma non nascondendone le ombre. Un testo che evoca il mistero potente che ogni luogo di libertà - come un parco: casa dell’imprevisto, dell’alterità, della difformità -, è in grado di offrire ai bambini e alle bambine come nutrimento necessario, assoluto. Un nutrimento che gli adulti ignorano o, se conoscono, evitano di somministrare per avversione ideologica, idiosincrasia personale o, il più delle volte, semplice paura.

Il parco, invece, fornisce ammaestramento d’avventura a chi vi entra. Lo fa a rischio e pericolo di chi lo esplora. È un mondo a sé: entrandoci si rinuncia alla vita così come fino a quel momento si è conosciuta, la si abbandona (con gusto). Ci si abbandona. I suoi argonauti rinunciano al tempo, sanno che quella che si trascorre al parco è una durata imprecisata, una plaga sconfinata, che si espande senza fine. Ma sanno anche che una banale interruzione può porre fine in un secondo a quella dimensione, richiamando al tempo parallelo dell’abitudine e della casa, dei genitori e della famiglia: perché siamo piccoli, ragiona la voce narrante, e dei grandi abbiamo ancora bisogno per vivere.

Una volta che ci hanno portati via da qui, possono volerci anni per tornare. 

«Mamma, possiamo andare la parco?» 

«Più tardi». 

«Adesso?»

«Fra poco».

«Quando andiamo?»

«Dopo».

«Va bene. Quando è dopo?»

Dopo può voler dire anni luce. 

C’è un acuto senso della sopravvivenza, in questa vicenda. Lo si intuisce anche dalla descrizione di una curiosa figura che sembra aver fatto del parco la propria dimora elettiva: una creatura altra, spettinata, vestita di un impermeabile giallo, che non ha paura di niente e ha l’odore del lampo. Questo strano essere dà ordini e impone giuramenti, parla come un oracolo, lingua a quanto pare familiare agli spaesati e impavidi esseri che raccoglie attorno a sé.

Vi sono anche altri abitanti, al parco, tutti sono minuscoli, risibili, marginali, toccati dalla grazia dell’invisibilità, viventi che sanno stare senza fatica sotto fiori e alberi enormi, che sanno scomparire insieme al parco, all’improvviso, inghiottiti dal mistero, dalla notte.

A volte, infatti, il parco scompare, poi ritorna all’improvviso. Se lo si è conosciuto, capita che si cada preda di stati d’animo incogniti: «A volte sembra che la nostra vita sia fatta di nostalgia. Una mancanza che stordisce per qualcuno che ci è sfrecciato accanto.» Il parco, infatti, sembra addestrare soprattutto a una cosa: all’incertezza di quello che si è e di ciò che succederà, a tutto ciò che di nuovo potrà accadere. È questo il premio che offre ai suoi frequentatori.

«Si dice che veniamo dallo spazio. Ma non lo sappiamo. Così andiamo al parco», riflette la voce fuori campo a cui le immagini realizzate da Alemagna fanno da straordinario corredo.

La loro straordinarietà sta in questo: non offrono appigli a chi in esse cercasse la bellezza convenzionale dell’infanzia e della natura, o una poeticità d'ufficio. Vediamo bambini e paesaggi assorti, lontani, proprio come ci capita, camminando in una città, quando adocchiamo all’improvviso un frammento imprevisto, il balenare di qualcosa che ci sfugge e che ci è negato. E allora dobbiamo uscire da noi e cercare una strada che ci porti molto indietro, a quando sapevamo i misteri della precarietà, le loro promesse e le loro minacce.