Nella mia esperienza di lettrice, la forza con cui la fiaba irretisce, trascina, non ha pari. Che si tratti di fiabe popolari, antiche, moderne, letterarie. Che si tratti di Giovannin senza paura, Il Principe felice, Pollicino, I cigni selvatici, Il principe ranocchio, La gatta bianca, Alice cascherina, La famosa invasione degli orsi in Sicilia o Le bellissime avventure di Caterí dalla trecciolina. Da un certo punto di vista si ha l'impressione di conoscere le ragioni di questo incantamento: la natura archetipica della fiaba, il suo trarre continuamente dal fondo la potenza delle immagini che la costruiscono; le sue geometrie, giocate fra ripetizione e sorpresa, scarto e simmetria; un tessuto narrativo in cui realtà e magia sono trama e ordito di un disegno mirabile perché profondamente veritiero (le fiabe sono vere, dicevano infatti Benjamin e Calvino: sono vere letteralmente).
E, tuttavia, qualcosa nella prodigiosa capacità di rapimento della fiaba sfugge sempre. Si direbbe che questo elemento inafferrabile, come un ingrediente su cui la famiglia dei narratori mantenga un caparbio silenzio, sia la chiave fondamentale del suo inestinguibile successo. Perché la fiaba parla ai bambini e agli adulti di oggi – spesso distratti, stanchi, spaesati, fatui, spaventati, abbrutiti, nevrotici – come un anello che, infilato, conferisca la lingua capace di parlare a ciò che abita il nostro più disatteso profondo. Possiamo solo intuire nei suoi suoni l'eco di quel codice segreto capace di portare alla luce la natura misteriosa di cose, fenomeni, uomini, piante, animali, in una quotidianità, come quella di oggi, in cui la latenza feroce della violenza e della depressione, nega loro la possibilità stessa di manifestarsi, di essere.
Possiede tale dote al massimo grado la magnifica storia di Selma Lagerlöf, La leggenda della Rosa di Natale, che dà il titolo alla nuova raccolta di racconti della scrittrice svedese, premio Nobel per la letteratura nel 1914, edita da Iperborea. Un racconto che a tutti gli effetti si può ascrivere al genere della fiaba.
Ill. botanica da Nicolas François La Botanique Mise à La Portee de tout le Monde, 1774.
Ill. botanica da Otto Wilhelm Thomé Flora von Deutschland, Österreich und der Schweiz, 1885.
Durante i miei corsi di scrittura, all'inizio di ogni lezione leggo una fiaba. E chiedo a chi partecipa di porre la massima attenzione durante l'ascolto, e di appuntarsi quel che più lo colpisce. È un sistema infallibile per entrare in relazione con un testo. Provate a seguire questa indicazione nel leggere l'inizio di questa storia: simulate una voce narrante dentro di voi e ascoltatela con la massima attenzione. Oppure leggete davvero a voi stessi ad alta voce. Oppure, ancora meglio, chiedete a qualcuno di leggervela. Un'amica che fa teatro mi ha spiegato che non esiste modo migliore per capire se un testo funziona o no. Perché questo modo di leggere aiuta a sviluppare una modalità di attenzione specifica, che smette di essere spontanea e quindi soggetta alle fluttuazioni e agli automatismi che ci governano, per diventare consapevole. Esercitata con costanza, diventa uno strumento di precisione, di comprensione, fondamentale.
Ill. botanica da Johannes Zorn, Icones Plantarum Medicinalium, 1784.
In queste prime pagine, ascoltando bene il testo, identifico le parole-gradino che una dopo l'altra mi conducono giù, lungo la scala che porta alla camera nascosta, sotterranea, di una casa solo apparentemente familiare. Sono i vestiti di pelle lacera, la casa a fuoco, il branco di lupi, i sei pani rotondi, il muro alto e massiccio, la porticina socchiusa, l'estate, le erbacce strappate, il farinello e la gramigna, i rigidi gigli bianchi, il Toccami se hai il coraggio, la regina di Danimarca, l’issopo e il caprifoglio coperto di corimbi arancioni, la moglie del brigante che si pianta in mezzo al sentiero. E si potrebbe continuare, scendendo di gradino in gradino, fino alla fine della storia (se la volete leggere tutta, però, dovrete procurarvela, perché quello che pubblichiamo qui, per quanto lungo, è solo un brano).
Ingeborg Bachmann nel suo libro In cerca di frasi vere, afferma: “Ieri oggi, domani sono racchiusi nella lingua. Se la lingua di uno scrittore non regge, non regge neanche ciò che dice.” Una riflessione che dovremmo incidere nel marmo. E in Letteratura come utopia, chiarisce quale sia il lavoro da fare sulla lingua: “Dobbiamo lavorare duramente con la cattiva lingua che abbiamo ereditato per arrivare a quella lingua che non ha mai governato e che pure governa la nostra intuizione e che imitiamo.” (questi brani sono tratti dalla prefazione di Giorgio Agamben al libro della Bachmann, Quel che ho udito e visto a Roma, Quodlibet 2002). Nella lingua della fiaba, il tempo vive nella sua interezza: quello dell'istante, quello delle epoche trascorse e quello di cui nulla sappiamo perché ancora non è stato. In essa, i narratori (una famiglia eccentrica che ha il culto dell'impersonalità quanti altri mai, e che contemporaneamente lascia l'impronta della propria voce sulle parole, cioè quanto di più personale esista) rifondano continuamente l'eredità ricevuta, ben lungi dal credere che basti imitarla. La rifondano a ogni paragrafo, a ogni frase, a ogni parola, liberandosi da tutto quanto non è necessario, in una severa disciplina che sola consente di governare l'intuizione. Perché utilizzare la lingua antichissima delle fiabe impone un tirocinio duro, continuo, di rinunce, le prime delle quali sono all'arbitrio e alla 'naturalezza', padre e madre di ogni cattiva lingua.
Per questo non smettiamo di tornare alle fiabe. Per questo non c'è lingua più adatta della loro a chi stia imparando a parlare, a pensare, a leggere, a raccontare il mondo, dentro e fuori di sé, agli altri, a se stessi.
Con questa fiaba, vi salutiamo. Ci ritroviamo il 12 gennaio. I nostri più affettuosi auguri a tutti.
Ill. botanica da Heinrich Witte Flora. Afbeeldingen en beschrijvingen van boomen, heesters, éénjarige planten, enz., voorkomende in de Nederlandsche tuinen, 1868.
Ill. botanica da Frédéric Burvenich, Édouard Pynaert, Émile Rodigas Revue de l'horticulture belge et étrangère, 1881.
La moglie del brigante, che viveva in una caverna lassù nella foresta di Göinge, si era messa un giorno in viaggio per andare a mendicare giù in pianura. Il brigante era un bandito fuorilegge e non osava uscire dalla foresta, accontentandosi di stare in agguato dei viandanti che si avventuravano nella fascia dei boschi. Ma in quell’epoca i viaggiatori erano rari, nel nord della Scania, e se gli capitava di non avere fortuna nella sua caccia per qualche settimana, toccava alla moglie mettersi in cammino. Portava con sé i cinque figli, e ognuno aveva vestiti di pelle laceri, calzari in scorza di betulla e in spalla una bisaccia lunga quanto lui. Quando la donna varcava la porta di una capanna, nessuno osava negarle ciò che chiedeva, perché se non veniva bene accolta era capace di tornare la notte dopo e dare fuoco alla casa. La moglie del brigante e i suoi figli erano peggio di un branco di lupi, e molti avrebbero voluto trafiggerli con una lancia, ma non lo facevano, sapendo che l’uomo era sempre lassù nella foresta, e avrebbe saputo prendersi la sua vendetta, se fosse accaduto qualcosa ai bambini o alla donna.
Mendicando di casa in casa, la moglie del brigante arrivò un giorno a Öved, che all’epoca era un monastero. Suonò e chiese del cibo. Il guardiano abbassò uno sportellino che si apriva nel portone e le allungò sei pani rotondi: uno per lei e uno per ogni ragazzo. Mentre la madre era davanti al portone, i figli correvano in giro. Ed ecco che uno venne a tirarla per la gonna, segno che aveva trovato qualcosa e la chiamava a dare un’occhiata, e la moglie del brigante prontamente lo seguì.
Tutto il monastero era circondato da un muro alto e massiccio, ma il ragazzo era riuscito a trovare una porticina secondaria che era socchiusa. Arrivata lì, la moglie del brigante la spalancò subito ed entrò senza chiedere il permesso, com’era sua abitudine. Il monastero di Öved era allora diretto dall’abate Hans, che era un esperto orticoltore e vi aveva impiantato un piccolo orto botanico, ed era lì che la donna si era introdotta.
Alla prima occhiata fu tale il suo stupore che dovette fermarsi sulla porta. Era piena estate e l’orto botanico dell’abate Hans era così pieno di fiori che lo sguardo era abbagliato dai suoi azzurri, rossi e gialli. Ma presto un sorriso di gioia le si diffuse sul viso e s’incamminò per uno stretto sentiero che serpeggiava tra le tante piccole aiuole. Un frate converso andava in giro a strappare erbacce. Era stato lui a lasciare aperta la porticina nel muro per gettare farinello e gramigna sul mucchio di spazzatura che c’era fuori. Appena si accorse che la moglie del brigante era entrata con tutti i suoi cinque figli, le corse incontro ordinandole di andarsene. Ma la mendicante proseguì come se niente fosse. Il suo sguardo vagava tutt’intorno ammirando ora i rigidi gigli bianchi che si estendevano su un appezzamento, ora l’edera che si arrampicava fino in cima al muro di cinta, senza degnare il monaco della minima considerazione.
Lui pensò che la donna non avesse inteso e fece per prenderla per un braccio e accompagnarla all’uscita. Ma quando la moglie del brigante capì le sue intenzioni gli rivolse uno sguardo tale da farlo indietreggiare. Fino a quel momento aveva camminato curva sotto il peso della bisaccia, ora si drizzò in tutta la sua altezza: “Sono la moglie del brigante della foresta di Göinge. Toccami se hai il coraggio!” Ed era chiaro che dicendo quelle parole era sicura di essere lasciata in pace come se avesse detto di essere la regina di Danimarca. Ma il frate converso osò comunque resisterle, anche se ora, sapendo con chi aveva a che fare, le parlò gentilmente. “Moglie del brigante”, disse, “devi sapere che questa è una comunità di soli monaci, e che nessuna donna del paese è ammessa all’interno delle sue mura. Se non te ne vai, i monaci si arrabbieranno moltissimo con me, perché mi sono dimenticato di chiudere la porticina, e forse mi scacceranno dal monastero e dall’orto botanico.” Ma preghiere come quelle erano sprecate con la moglie del brigante, che proseguì dritta verso l’aiuola delle rose, ammirando l’issopo, tutto fiorito dei suoi fiori lilla, e il caprifoglio coperto di corimbi arancioni.
Allora il monaco non ebbe altra scelta che correre nel monastero a chiedere aiuto. Quando tornò con due monaci grandi e grossi, la moglie del brigante capì subito che la cosa si faceva seria e si piantò in mezzo al sentiero gridando a voce stridula tutte le vendette che si sarebbe presa se non le permettevano di stare lì quanto le pareva. Ma i monaci non capivano perché dovessero avere paura di lei e pensavano solo a farla uscire. E così la moglie del brigante gridò ancora più forte e si lanciò su di loro prendendoli a graffi e morsi, e lo stesso fecero tutti i suoi figli. I tre uomini capirono presto che non potevano batterla e dovettero ritirarsi in cerca di rinforzi. Mentre si precipitavano sul vialetto che conduceva al portone, incontrarono l’abate Hans che accorreva per sapere cosa fosse tutto quel baccano. I tre monaci gli confessarono che la moglie del brigante di Göinge era entrata nel monastero, e che non essendo riusciti a cacciarla via, andavano a cercare soccorsi. Ma l’abate Hans li rimproverò di aver usato la forza e proibì loro di chiamare aiuto. Rispedì i due monaci alle loro occupazioni e, per quanto fosse vecchio e debole, portò con sé solo il frate converso nell’orto botanico.
Quando vi giunse, la moglie del brigante passeggiava come prima tra le aiuole. L’abate non poté reprimere lo stupore. Era certo che quella donna non avesse mai visto un orto botanico in vita sua, eppure si muoveva tra le aiuole, ciascuna piantata con la sua specie di fiori rari e sconosciuti, guardandole come se fossero sue vecchie amiche. Sembrava riconoscere sia la pervinca che la salvia e il rosmarino. Ad alcune sorrideva, davanti ad altre scuoteva il capo. L’abate Hans amava il suo orto botanico quanto gli era consentito amare qualcosa di terreno e perituro. E benché l’intrusa avesse un’aria selvaggia e minacciosa, non poteva fare a meno di apprezzare che avesse lottato contro tre monaci per potersi godere il giardino in santa pace. Le si avvicinò e le domandò pacatamente se l’orto le piaceva. La moglie del brigante si voltò rabbiosa verso l’abate, aspettandosi solo di essere assalita e sopraffatta, ma quando vide i suoi capelli bianchi e le sue spalle curve gli rispose pacata: "Alla prima occhiata ho pensato di non averne mai visto uno più bello, ma ora mi accorgo che non regge il confronto con un altro che conosco.”
L’abate Hans non si aspettava certo una risposta simile, e al sentire che la moglie del brigante conosceva un paradiso terrestre più bello del suo, le guance rugose si soffusero di un lieve rossore. Il frate converso che gli era accanto cominciò subito ad ammonirla. “Questo è l’abate Hans”, disse, “che con immensa cura e devozione ha raccolto personalmente in questo posto i fiori di paesi lontani e vicini. Sappiamo tutti che non esiste giardino più bello nell’intera Scania, e non spetta a te, che vivi tutto l’anno nella foresta selvaggia, permetterti di giudicare la sua opera.”
“Io non pretendo affatto di farmi giudice né suo né tuo”, replicò la donna. “Dico soltanto che se a voi due fosse dato di vedere il giardino che ho in mente, strappereste tutti i fiori che sono qui e li gettereste via come erbacce.” Ma il monaco giardiniere era fiero di quelle piante quasi quanto lo stesso abate Hans, e alle sue parole scoppiò in una risata sprezzante. “Capisco bene che tu voglia indispettirci. Chissà che bel giardino ti sei fatta tra le ginestre e i pini della foresta di Göinge. Oserei giurare sulla salvezza della mia anima che prima d’oggi non eri mai stata in un orto botanico.”
La moglie del brigante diventò rossa di rabbia sentendo che non le credevano e gridò: “Può darsi benissimo che io prima di oggi non sia mai entrata in un orto botanico, ma voi monaci, che siete santi uomini, dovreste sapere meglio di me che la notte di Natale la grande foresta di Göinge si trasforma in un giardino per festeggiare la nascita di Gesù. Noi che ci viviamo, lo vediamo succedere ogni anno, e in quel giardino vedo fiori così meravigliosi che non oso nemmeno alzare la mano per coglierli.”
Il frate converso avrebbe voluto ribattere, ma l’abate Hans gli fece cenno di tacere. Fin dall’infanzia aveva sentito raccontare che la foresta di Göinge si vestiva a festa la notte di Natale. Aveva desiderato così tante volte vederla, ma non c’era mai riuscito. Perciò pregò e supplicò ardentemente la donna di ospitarlo nella sua caverna il Natale di quell’anno. Se solo gli avesse mandato uno dei suoi figli a fargli da guida, sarebbe salito lassù da solo, e non li avrebbe mai traditi, ma anzi ricompensati per quanto stava in suo potere.
La donna sulle prime rifiutò, pensando al marito e al pericolo che correva permettendo all’abate Hans di salire alla sua caverna. Ma il desiderio di dimostrare al monaco che il giardino che conosceva era più bello del suo ebbe la meglio su ogni timore, e alla fine acconsentì.
“Ma non porterai con te più di un accompagnatore”, disse. “E non ci tradirai o tenderai tranelli di sorta, quant’è vero che sei un sant’uomo.” L’abate Hans diede la sua parola e la moglie del brigante se ne andò. Poi l’abate ordinò al frate converso di non raccontare a nessuno l’accordo che aveva preso, temendo che gli altri monaci, venuti a conoscenza delle sue intenzioni, non avrebbero permesso a un vecchio come lui di salire fino alla caverna del brigante. Lui stesso non intendeva rivelare ad anima viva il suo proponimento. Ma accadde che l’arcivescovo Absalon di Lund fece sosta a Öved durante un viaggio e vi trascorse la notte. Quando l’abate Hans gli mostrò il suo orto botanico, ricordò la visita della moglie del brigante, e il frate converso, che era lì a lavorare, lo sentì parlare di quel bandito che viveva da molti anni come fuorilegge nella foresta, e chiedere al prelato una lettera d’assoluzione per lui, perché potesse tornare a una vita onesta in mezzo agli altri uomini.
“Data la situazione”, disse l’abate Hans, “i suoi figli diventeranno delinquenti peggiori di lui, e dovrete presto vedervela con un’intera banda di briganti lassù nei boschi.” L’arcivescovo obiettò che non gli piaceva l’idea di lasciarlo a piede libero in mezzo alla gente onesta della pianura. Era meglio per tutti che se ne stesse nella foresta. Al che l’abate Hans si infervorò e raccontò al prelato la storia della foresta di Göinge, che ogni anno, a Natale, si trasformava in un giardino fiorito. “Se la gloria di Dio si manifesta a quei briganti”, disse, “non possono essere così malvagi da non meritare la pietà degli uomini.” Ma l’arcivescovo sapeva come rispondergli. “Questo te lo posso promettere, abate Hans”, disse sorridendo. “Il giorno che mi manderai un fiore del giardino di Natale di Göinge, ti farò avere lettere d’assoluzione per tutti i fuorilegge che vorrai.”
Il frate converso capì che l’arcivescovo era incredulo quanto lui sulla storia raccontata dalla moglie del brigante, ma l’abate Hans non ci fece caso, lo ringraziò della generosa promessa e gli assicurò che gli avrebbe di certo mandato il fiore.
[Da La leggenda della Rosa di Natale, di Selma Lagerlöf, Iperborea 2014, traduzione dallo svedese di maria Svendsen Bianchi.]
Ill. botanica da Otto Carl Berg & Carl Friedrich Schmidt, Darstellung und Beschreibung sämtlicher in der Pharmacopoea Borusica aufgeführten offizinellen Gewächse, 1858-1863.