Una bambina che cammina sola tra i campi

Dopo larticolo di Gilles Baum, autore del testo di Il sasso più bello, da poco in libreria, oggi parla del libro Joanna Concejo, che l’ha illustrato. Lo fa attraverso le domande che le ha rivolto Letizia Soriano. Le risposte di Joanna sono tradotte da Lucilla Faedda. Grazie a tutte e tre.

Mi piacerebbe sapere qualcosa dei tuoi studi, della tua formazione. Era già chiaro per te che saresti diventata un’illustratrice?

A quindici anni ho cominciato il liceo artistico. Non per una vera passione per l’arte, mi piaceva molto disegnare, ma niente di più. Volevo andare via di casa e l’unico modo per farlo era trovare un istituto superiore che non fosse il liceo classico o scientifico: erano nella città vicina al mio paese, e per frequentarli non sarei dovuta partire… Avevo quindi la scelta tra un istituto agrario, forestale, o per periti elettronici, un liceo pedagogico, o artistico. Pensai di poter provare quest’ultimo. C’era una prova d’ingresso, mi sembrava fattibile. Mio padre era contrario, una “leggenda di famiglia” racconta che fece addirittura dire una messa perché fallissi. Invece entrai, frequentai il liceo, poi le Belle Arti con un diploma in disegno e illustrazione (non riuscivo a scegliere tra le due discipline e li ho conseguiti entrambi).
 
 
E poi, no, non sapevo ancora che un giorno sarei diventata illustratrice. Durante gli studi coltivavo il sogno di diventare un’artista di fama mondiale che avrebbe realizzato grandi installazioni, sculture… e che avrebbe esposto nelle più grandi gallerie del mondo. Già allora amavo l’illustrazione e i libri ma non desideravo diventare illustratrice. Ci arrivai molto più tardi.
 
 
A un certo punto realizzai di essere stanca, di non aver più voglia di nutrire questa grande ambizione, preferivo il disegno e in piccole dimensioni. Volevo soprattutto raccontare storie, cosa che facevo già, nelle installazioni in particolare, ma mi accorsi che mi bastava un pezzo di carta e una matita, che non avevo più bisogno di impressionare, di impiegare grandi mezzi, spostare volumi. Ho trovato la mia dimensione nel formato intimo del libro.
 
 
So che nel tuo lavoro c’è molto della tua infanzia, del luogo in cui sei nata. Non la Polonia delle grandi città, ma quella dei piccoli paesi. C’è un episodio in particolare che collega il tuo mondo di bambina al tuo lavoro con le immagini?
 
Non so se esista un episodio in particolare. Penso sia l’esperienza di una bambina che viveva in campagna, presa nel suo insieme. Credo che il mio libro scritto con Rafael Concejo Ne le dis à personne (che esiste solo in francese e coreano, al momento) possa spiegare al meglio questa connessione. Tutte le piccole cose di cui è fatta quella vita, arricchita dalla bellezza dei paesaggi, dalla gente, dagli animali e dalle piante. I momenti semplici e silenziosi di una bambina che cammina sola tra i campi, le praterie, le foreste, che ascolta il vento, che fa il bagno in limpidi laghi, che gioca nella neve, che raccoglie i funghi e i mirtilli selvatici, che sente sul viso il calore del sole o il gelo dell’inverno. Ma è stato anche l’ascoltare le storie che mia nonna raccontava la sera, il seguire mio nonno e il suo cavallo nel lavoro tra i campi, durante la semina e il raccolto. Sentirsi parte di quel mondo, di quel tutto. Sentirsi al proprio posto. Ovviamente non c’è stata solo bellezza in quella vita, ma anche tristezza, sfortuna, momenti di disperazione. Però custodisco sempre queste sensazioni dell’infanzia e di connessione a questa parte di me, mentre disegno.
 
 
A partire da questo racconto, riesci a ricostruire come si muovono e come arrivano le idee per i tuoi progetti?
 
Non sarei in grado di ricostruire tutto, ma in parte certamente sì. Soprattutto perché ho sempre con me i miei quaderni di bozzetti, dove c’è una grande parte del mio lavoro e che ricostruiscono tutto il processo. Si possono rintracciare tutte le ricerche e seguire i movimenti delle idee e le loro trasformazioni. Si può vedere come il libro si costruisce piano piano, man mano che arrivano le idee. Di solito all’inizio non ho l’idea completa del libro. Mi metto a lavorare quando ho 4 o 5 immagini di seguito e poi mi affido al processo di creazione. So che ne  arriveranno altre non appena comincerò a disegnare quello che ho in mente dal principio.
 
 
È il fatto stesso di disegnare che mi permette di andare avanti. Il tempo che passo sul disegno, è anche un tempo di riflessione che mi permette di arrivare tranquillamente all’immagine seguente. Ho il tempo di pensare a come sistemarla. In realtà disegno solo quello che già so, sapendo che le cose che ancora non so si riveleranno in corso d’opera. In generale funziona. A volte ho bisogno di più tempo e di ricerche più approfondite sui miei bozzetti. Ma devo comunque disegnare per trovare le soluzioni, riflettere non basta. Perché quando disegno, quando cerco, lascio delle tracce che posso sempre guardare. Penso sia importantissimo saper guardare attentamente il proprio lavoro quando si fanno delle prove grafiche. La soluzione è sempre lì, anche in quello che potremmo considerare non riuscito. Non mi affeziono mai troppo a un’idea, resto aperta a qualsiasi cambiamento. Tra l’altro mi sono accorta che le idee che all’inizio sembrano geniali non funzionano subito. Bisogna saperci rinunciare.
 
 
Mi piace l’atmosfera che c’è nei tuoi libri perché è un’atmosfera senza tempo. La definirei un’atmosfera interiore in cui mi ritrovo moltissimo. Vorrei chiederti che rapporto hai con il tempo durante le fasi di lavorazione dei tuoi libri. 
 
La tematica del tempo era già presente nella risposta precedente. Ho parlato del tempo passato su un disegno e che mi è necessario per arrivare serenamente all’immagine seguente, a farla maturare nella mia testa, ad annotare cose, fare studi o bozzetti, fare prove di composizione…
 
 
Per la realizzazione di un libro, credo sia necessario, almeno per quanto mi riguarda, un tempo di vita. Bisogna che mi succedano cose a cui io possa attingere, che possa nutrire di pezzetti di vita la narrazione che si sta creando nel libro. Sono felice di sentire ciò che Paolo (Canton) mi dice sempre: «Il libro è pronto quando è pronto». È meraviglioso ricevere un regalo del genere da un editore.
 
 
È un po’ come dire «Il frutto è maturo quando è maturo». E mi piace anche ciò che la mia amica illustratrice Iwonka Chmielewska dice spesso «Non è tirando un filo d’erba che il prato crescerà più in fretta». Ovviamente quest’attitudine è un lusso che non posso sempre permettermi. A volte devo davvero rispettare delle scadenze e in questi casi la mia esperienza e la mia conoscenza del mestiere mi aiutano. Ma in realtà, più vado avanti, più è difficile fare un nuovo libro. Ho sempre lo stesso groviglio nello stomaco quando comincio.
 
 
Come si incontrano, si integrano (se questo accade) la Francia, la Polonia - e forse anche l’Italia - nei tuoi progetti?
 
Tutto converge nei miei progetti di libri. Veramente tutto. Ciò significa che i posti in cui abito, la gente che incontro, le situazioni di cui sono testimone o che vivo, quello che vedo, potrebbe finire in uno dei miei progetti.
 
 
Ovviamente non occorre che compaia tutto. Ma la realtà è la prima risorsa alla quale attingo. Alla fine è abbastanza semplice, perché la realtà è sempre là, basta essere disponibili e osservatori. E in questo senso, sì, certo, Francia, Polonia, Italia e molti altri luoghi entrano nei miei progetti. Ovviamente non nelle stesse proporzioni e non posso prevedere in anticipo cosa ci ritroverò.
 
 
Leggendo il tuo ultimo libro Il sasso più bello ho avuto la sensazione che la storia si ricollegasse a due testi precedenti: Il Signor Mirabile e L’anima Smarrita. Quasi come se si trattasse di una trilogia con un protagonista unico, il cui vissuto evolve di volta in volta. Secondo te questa può essere una lettura possibile?
 
Non mi piace parlare di letture possibili. Capisco che si possano ritrovare dei punti in comune tra i libri che ho illustrato, anche se gli autori dei testi sono diversi. Penso che inconsciamente le mie scelte di collaborazioni siano legate alle tematiche che mi sono care. Spesso, non ho neppure bisogno di verbalizzare quello che è importante per me. Mi basta sentire dentro di me la possibilità di farne delle immagini e, alla fine, un libro. Con il tempo, penso anche che sia meglio lasciare sospese le cose, senza definirle troppo, senza etichettarle, senza cercare tutte le risposte. Ho un po’ paura delle parole e del potere che hanno di fissare le cose e allo stesso tempo, di impoverirle, amputarle, renderle troppo concise e chiare privandole di tutti gli altri sensi che potrebbero prendere. Mi piace l’aspetto sfocato proprio all’immagine. Credo di preferire questo linguaggio che per me è più una comunicazione tra le mie sensazioni e quelle del lettore.
 
 
Quindi, mi guardo bene dall’immaginare le letture possibili. Non è neppure un problema mio, in realtà. Tutte le letture possibili esisteranno che io lo voglia o no. Il mio lavoro è solo non ostacolare tutte queste possibilità.
 
 
Torno ancora a Il sasso più bello. L’uomo con la barba incolta è una persona che ha rinunciato all’estetica dell’apparire in un mondo sommerso dal fango. Mentre evolve intimamente e soggettivamente, assistiamo all’involuzione del mondo intorno a lui. Per questo il lancio del sasso, che smuove e rimette in discussione la palude a cui tutti si sono abituati, è fondamentale. È un’azione rivoluzionaria che solo una persona che ha ritrovato la propria anima, la propria identità, può avere il coraggio di fare. Quanto, nel tuo lavoro, è importante la ricerca dell’identità? E quanta gioia e quanta fatica c’è in questa ricerca?
 
Non so se sia veramente una ricerca d’identità, e se lo fosse, non è qualcosa che mi anima o che è la mia priorità. A volte ho l’impressione che quando ho smesso di cercare la mia identità, le cose hanno iniziato ad andare meglio.
 
 
O forse, la ricerca dell’identità è una cosa che si fa in modo continuo e in silenzio, come sottopelle. E se è così, questo porta una quantità di gioia e di sofferenza, ma non saprei quantificarle. Penso anche sia un processo continuo, impossibile da afferrare e da definire. Penso anche che potrebbe essere solo una sfaccettatura del lavoro creativo. In ogni caso le tue domande mi hanno obbligato a riflettere a cose che non sono abituata a raccontare.