Abitare il museo con la propria storia

Oggi presentiamo Quante storie per un quadro, il secondo volume, uscito a marzo, insieme a quello dedicato alla Pinacoteca di Brera, per la collana Piccola Pinacoteca Portatile. Lo facciamo attraverso le parole di Melania Longo, sua autrice.

[di Melania Longo]

«Alla sera, nella nostra casa ai piedi della collina di Fiesole, quando eravamo molto piccoli, prima che la mamma ci addormentasse con qualche favola inventata lì per lì, il babbo ci prendeva in braccio facendoci girare per il lungo corridoio e sostando davanti a ogni quadro, usandolo come pretesto per raccontarci una piccola storia [...] Fu questo il nostro percorso museale domestico che ci abituò all’idea che ogni dipinto è una storia, forse la tua storia che devi imparare a leggere e interpretare, per poterla raccontare.»(1) 

Anche nella casa dei miei genitori c’era una piccola pinacoteca a cui, ancora oggi, sono intimamente legata. L’appartamento era attraversato da un lungo corridoio, che fungeva da raccordo tra le stanze del giorno con quelle della notte.  Proprio da qui, il mio minimo museo casalingo ha iniziato a narrare le sue storie. I dipinti, che mettevano in scena le quattro stagioni, lentamente avevano trasformato quello spazio di passaggio in un luogo dove fermarsi voleva dire vivere un’avventura di rivelazione.

Nonostante siano trascorsi tanti anni,  i sentimenti che accompagnavano le mie lunghe soste davanti a quelle immagini sono incancellabili.

Quando le guardavo mi sentivo serena, come quando si fa ritorno in un posto del cuore e ogni cosa è in ordine, ferma lì dove è sempre stata.

Allo stesso tempo, però, ero molto curiosa fino a sentirmi sulle spine, disposta a indagare ancora e ancora, con la speranza di trovare un nuovo dettaglio che mi fosse sfuggito.

Esploravo le cose dipinte così come si fa con un pezzo di prato, concentrata con tutti i miei sensi per cogliere una novità. Scandagliavo quel piccolo mondo, tenuto insieme da una cornice, eppure così smisurato e denso di mistero.

«Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora [...] Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende (...)» (2) 

Osservare significava leggere le cose che, in quell’immagine, avevo imparato a conoscere, ma anche desiderare di perdermi, di spingermi più in là, meravigliarmi ancora, fantasticare anche solo pensando “cosa succederebbe se…”

Quella speciale pinacoteca domestica, con tutte le domande che mi rivolgeva, ha lentamente aperto la mia immaginazione.

Come tutti i bambini, sapevo che non esiste solo ciò che vediamo.

Nelle opere d’arte, così come nella realtà, molte cose possono farci da bussola. Per trovare la strada giusta, però, con quelle cose bisogna imparare a dialogare e sapere che, attraverso l’ordinario, si può fare esperienza dell’inaspettato.

C’è sempre qualcos’altro in attesa di manifestarsi.

C’è chi lo incontra socchiudendo gli occhi e lo chiama “invisibile”; chi, invece,  lo accoglie ad occhi aperti e se ne innamora inspiegabilmente come quando, contemplando un paesaggio o un volto, diventiamo parte di uno scambio emotivo e di complicità.

Come tutti i bambini sapevo anche un’altra cosa: le immagini non vogliono essere chiamate per obbligo, ma per desiderio e per curiosità.

«Al cuore dell’apertura mentale c’è la curiosità. La curiosità non si schiera né insiste su un unico modo di fare le cose. Esplora tutti i punti di vista. E’ sempre aperta a tentare nuove strade, sempre alla ricerca di nuove intuizioni. Costantemente spinta dal desiderio di orizzonti più vasti, osserva con stupore i limiti della mente»(3). 

Quando questo accade le immagini, le opere d’arte escono dalle cornici, si tendono generosamente verso di noi e ci invitano a un movimento.

Guardare, allora, diventa saper cogliere la complessità e la ricchezza del conoscere come processo che trasforma ogni opera in una risorsa infinitamente più ricca e sfaccettata.

Vedere, non è un atteggiamento passivo e l’arte determina una reazione che in qualche modo ci trasforma.

Crescendo, non ho mai smesso di cercare le immagini e, soprattutto,  di trovare in esse delle connessioni di senso per farle risuonare nella vita.

Ho appreso che per entrarci in relazione ci vogliono particolare coraggio e addestramento, come il palombaro dell’anima descritto da Melville(4), che sa inoltrarsi negli abissi mentre tutti nuotano in superficie; o come un esploratore che, abbandonata la tecnologia, si lascia guidare solo dalla natura e dai suoi segnali.

Con le opere d’arte è la stessa cosa, non ci si può misurare, coglierne il pieno valore esistenziale se prima non si è appreso come far crescere la qualità delle nostre visioni.

Il flusso continuo della comunicazione visiva in cui siamo avviluppati può ostacolare questo incontro e rischia di ridurre ogni esperienza della nostra vita, anche quella al museo, in mero consumo «[..] la gente non ha più tempo per guardare e nel contempo vedere (...) ‘Guarda, consuma, dimentica’ è la cultura di oggi.»(5)  scriveva Luca Pozzi nel 2004 sulle pagine de Il Giornale dell’Arte.

Il museo, invece, inteso come patrimonio di storie(6), può diventare uno spazio dove la meraviglia, seme da cui nasce la conoscenza(7), stimola l’ingegno e l’immaginazione.

Quante storie può raccontare un museo? Come posiamo il nostro sguardo sulle opere d’arte? Quando queste smettono di essere solo nozioni da mandare a memoria per farsi, invece, soggetti che a loro volta ci guardano?

Riusciamo ad ascoltare le domande che ci pongono? In che modo gli rispondiamo?Siamo disposti a dedicare loro un tempo meno finalizzato e a lasciarci andare in uno slancio di identificazione e appartenenza?

Partendo da queste domande in Quante storie per un quadro! Giochi di invenzioni con le opere d’arte ho provato a creare uno spazio di interazione con l’arte, aperto a chi vuole scoprire (e a chi lo sa già) come il museo sia una casa da abitare e non un luogo qualunque da visitare, dove, non solo si interroga quello che si vede, ma anche, e forse soprattutto, si interroga sé stessi.

Alla base del lavoro di progettazione c’è stata la riflessione sulla necessità attuale di colmare la distanza con il patrimonio culturale che, prima di essere una “cosa da venerare”, è la testimonianza viva di esperienze umane con cui tutte le persone, al fine di rifondare una cittadinanza culturale, possono e devono entrare in una nuova relazione. La qualità di questo legame dipende dalla nostra disponibilità a metterci in gioco, dal momento che il patrimonio culturale ci provoca nel chiederci un giudizio, di scegliere se approfondire l’esplorazione, il significato, nell’essere o meno disponibili alle sue sollecitazioni emotive e cognitive.

«La bellezza misteriosa dell’orizzonte bianco di neve, ondulato e disabitato, gelido e luminoso, disteso intorno a noi in ogni direzione, non dipende dalla sua estetica e nemmeno dalla sua potenza, ma dall’infinità di storie che là dentro potrebbero avvenire e coinvolgerci.»(8) 

Insieme ad Alessandro Sanna, abbiamo disegnato un museo immaginario, dedicando particolare attenzione alla rappresentazione dei fruitori, con l’obiettivo di valorizzare le loro storie, suggerite da sguardi, posture, eccetera, favorendo nei lettori processi di immedesimazione e, perché no, di identificazione. Attraverso di essi abbiamo provato a rappresentare il museo come spazio polifonico di partecipazione, che si pone in ascolto dei pubblici intesi quali comunità interpretative del patrimonio culturale.

Allo stesso tempo, quel che ci stava più a cuore era raccontare quante cose può essere un museo per chi lo visita. Le esplorazioni, di scrittura e di disegno, aprono, allora, le porte di uno spazio permeabile all’altro e che muta forma: a volte è un documento oppure un ricordo, altre volte è un inciampo o un’invenzione, fino a diventare un tappeto volante e infine uno specchio. Tuttavia, su ispirazione delle più moderne ricerche di museologia e pedagogia del patrimonio, l’idea principale di museo che il libro intende proporre è quella di essere un laboratorio di idee, che favorisce l’incontro con l’opera d’arte e dove il processo di costruzione dei suoi significati, da parte dei fruitori, è circolare e dialogico(9).

Il museo di “Quante storie per un quadro!” chiede a chi lo abita di intrecciare la propria percezione, che registra il dato visivo, con il pensiero, affinché le sensazioni abbiano un senso più profondo e diventino esperienza, sentimento.

«Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce ciò che hai visto nell’oscurità, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno». (Caspar David Friedrich)

Infine, un’ultima precisazione: gli esercizi di scrittura e di narrazione, con i quali invito i lettori a guardare da punti di vista nuovi le opere d’arte, non sono concepiti come pura palestra per imparare a scrivere, né come pretesti per dar voce al proprio “io”, mettendo del tutto da parte la storia dell’arte o banalizzando gli aspetti iconologici e iconografici di un’opera.

Al contrario, gli “esperimenti di pensiero” proposti intendono accompagnare sia i bambini che gli adulti nel familiarizzare con i processi di interpretazione e negoziazione del museo, per far comprendere la profondità e la ricchezza di significati e mondi racchiusi in un’opera, e provare a farli risuonare con la propria vita, ricollocandoli al centro di uno scambio che genera bellezza. memorie condivise e senso civico.

«[...] il grande desiderio dei musei (è di) non essere mandati a memoria, ovviamente, ma essere frequentati, riconosciuti fondamentali per l’esistenza della comunità umana, coltivare l’idea che una collettività si prenda cura di tramandare la memoria, di sollecitare, di indirizzare all’accesso, di difendere il senso e di rinegoziarlo, attualizzarlo, con il proprio costante contributo.»(10)

 

[1] F.M. Cataluccio, La Memoria degli Uffizi, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 12-13.

[2] C. Candiani, Questo immenso non sapere, Einaudi, Torino, 2021, p. 9

[3] R. Rubin. L’atto creativo: un modo di essere, Mondadori, Milano, 2023, p. 256

[4] H.Melville, Lettere, in Opere Scelte, a cura di C. Gorlier, Mondadori, Milano, 1990, p.1129.

[5] Luca Pozzi, in “il Giornale dell’Arte”, n.237, novembre 2004, p. 43.

[6] S. Bodo,S. Mascheroni, M. G. Panigada (a cura di), Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2016.

[7] B. Bettelheim, La Vienna di Freud, La Feltrinelli, Milano 1990, p.162.

[8] F. Michieli, La Vocazione di perdersi, Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti, Ediciclo editore, Portogruaro, 2021, p. 9.

[9] H.-G. Gadamer, The historicity of understanding, in P. Connerton (a cura di), Critical sociology, London, Penguin Books, 1976.

[10] G. Brambilla, Soggetti smarriti. Il museo alla prova del visitatore, Editrice bibliografica, Milano 2021. p.86