[di Lisa Topi]
Non fatevi ingannare dai colori in copertina: Sebbene gli somigli, Archì non è arlecchino. Archì è il protagonista del nuovo libro di Roberto Piumini, illustrato da Emmanuelle Bastien. Un personaggio tanto leggero che, se dalla finestra arrivasse una folata di vento a sfogliare le pagine del libro, lo vedremmo volare via.
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È un omino tondo e multiforme, tanto che scorrendo la sequenza in movimento lo si vede scomporsi e ricomporsi come fosse la linea di un diagramma, un gomitolo, uno stormo di uccelli, un bambino che ha nascosto dei giocattoli sotto il cappotto ma, uno dopo l’altro, li perde per strada. Io, a quattro anni, riuscii a camuffare sotto i vestiti un barattolo di vernice e una collezione di macchinine. Ma non è certo un ladro Archì.
Ha il passo goffo e comico dei piccoli, cammina, dondola, cade, si rialza e ricomincia. E dei bambini ha anche il pragmatismo. Non sa bene chi sia, sa solo che una cosa, se ha le ali va o che se soffi forte, suona. Proprio così fanno molti bambini che, quando inciampano in una novità la interpretano attraverso quel che sanno – e quanto più questa è lontana tanto più poetico è il nesso – cosa che gli adulti scambiano per un esercizio di fantasia. Nel momento in cui si suona, un tubo di cartone non finge di essere una tromba, è una tromba.
Lui, del resto, può essere una bottiglia, un naso, una seggiola, un becco, un otto, un pesce, una scolaresca in fila indiana. È tante figure quante se ne possono immaginare combinando i suoi elementi. È tutt’uno con il mondo, perché i pezzetti che lo compongono si sparpagliano continuamente adattandosi alle metamorfosi della natura. Separarsene non lo spaventa, in fondo bastano la punta del suo naso, due mani e un paio di scarpe per inseguire il suo cappello in fuga. Non si prende troppo sul serio Archì.
La prima volta che ho letto questo libro ho pensato istantaneamente a un racconto di Katherine Mansfield, letto anni fa. Mi ha sorpreso riprendere il libro in mano e accorgermi che il ricordo era ancora più vicino alla realtà di quanto mi aspettassi. Ferragosto, questo il titolo, è la descrizione di una folla eccentricamente vestita a festa, che per lunghi paragrafi avanza sulle pendici di una collina, come se fosse un unico, rotolante essere polimorfo.
Non si può leggere la prosa di Katherine Mansfield senza percepire la sovrastruttura dei suoni e della ritmica. In questo racconto, la musica è anche uno dei personaggi, che si frantuma in tanti allegri pezzettini, si ricompone, si frantuma di nuovo, si dissolve, [mentre] la folla si disperde, risalendo lentamente il pendio. Così, diversamente, si può provare a leggere Archì a voce alta come una filastrocca, con il respiro della virgola che cade a metà di dodecasillabi (il più delle volte) dall'andamento fluttuante.
La fauna del ferragosto è variopinta e, a tratti, perturbante. C’è chi saltella su una gamba sola, chi gira su se stesso, si siede con solennità, si rialza. Ci sono donne grasse in corsetti di velluto, megere secche come ombrelli logori, vecchissimi bebè in calessi che paiono culle a dondolo. Linguette che smussano gli angoli dei coni alla crema e bocche che bevono limonate sbrodolandosi sui vestiti. Si annunciano prodigi, si offrono preveggenze e oggetti di ogni fattura, solletichini, bambolotti, rose e piume. Come assomiglia ad Archì l’uomo robusto con la faccia rosea e dei calzoni di flanella biancastra, una giacca blu con un fazzoletto rosa che sbuca dal taschino e un cappello di paglia troppo piccolo in bilico sulla nuca. Ognuno di loro, e tutti insieme, potrebbero essere Archì.
Ma c’è una cosa che, più di qualsiasi somiglianza, li allontana. Il racconto di Katherine Mansfield si chiude con un’interrogazione raggelante, l’idea di un panorama vertiginoso sulla cima della collina, che è negato al lettore. Il sospetto di un abisso. Il nostro Archì nel suo percorso si è liberato da solletichini, bambolotti, rose e piume ed è giunto, anche lui, in cima, ma ha davanti a sé lo spazio limpido di un orizzonte da esplorare.