In colonia

Un giorno su Facebook lessi un breve post in cui Janna Carioli raccontava un ricordo della sua esperienza infantile in colonia. Mi divertì, mi incuriosì, mi colpì, infatti mi dispiacque che fosse così breve, non poterne sapere di più perché quelle parole promettevano una narrazione avvincente, una storia che valeva la pena conoscere. Così scrissi a Janna se avesse per caso voglia di scriverne di più di quella sé al mare, in quegli istituti di contenzione che furono le colonie. Disse di sì, con mia grande soddisfazione. Così è nato questo libro: In colonia, appunto, con copertina di Fulvia Monguzzi e veste grafica di Anna Martinucci. Vi proponiamo una riflessione di Janna, in proposito, e un brano del libro.

Martedì, 30 ottobre, alle 18, alla libreria Trame, in via Goito 3/C, a Bologna, In colonia sarà presentato da Janna Carioli e Giovanna Zoboli. Intervento musicale a sorpresa! Chi lo desidera potrà portare una propria foto di vacanza in colonia…

[di Janna Carioli]

Quando i Topipittori mi hanno chiesto di raccontare le esperienze che da piccola avevo vissuto nelle Colonie marine, praticamente mi hanno invitata a nozze. Aver trascorso tutte le estati della mia infanzia in quelle istituzioni al cui confronto la Cayenna era un Club Mediterranée mi aveva segnata profondamente. Scrivere di quei lunghi mesi di noia devastante, alzabandiera, bagni mancati, cure del sole da porchetta arrosto, fischietti militari, costumi di lana, è stato catartico.

 

Un effetto positivo, però, la colonia su di me lo ha avuto: per la legge del contrappasso, mi ha spinto a fare la maestra. Dicevo a me stessa che un bambino meritava di meglio di quello che avevo avuto io e volevo provare a darglielo.  Ho insegnato per anni in un piccolo paese della bassa bolognese, condividendo con dei meravigliosi genitori avventure possibili solo in quei rari periodi in cui la pedagogia vive momenti felici.

Tanto per smentire le colonie, un anno portammo addirittura tutti i bambini della scuola al mare per una settimana. Guardare i piccoletti entrare in mare liberamente e riempire secchielli d’acqua per costruire castelli, chiacchierare e ridere a bassa voce con quello che magari si svegliava alle due di notte e mi raccontava che davvero aveva visto uno squalo, mi ha permesso di capire che sì, qualche cosa di meglio della colonia si poteva fare. Quando ho deciso di lasciare la scuola, come regalo, ho scritto una Bella Addormentata in Musical, che i bambini hanno rappresentato a teatro e che, ancora oggi che sono diventati genitori, cantano ai loro figli. È stato il mio primo racconto scritto. Da allora non ho mai smesso di scrivere, perché penso che le colonie si combattano anche così.

La prima volta

Quando la corriera ci scodellò davanti alla colonia, ai miei occhi di seienne sembrò gigantesca. 
E lo era.
 In puro stile fascista, era un casermone che aveva la forma di una nave di cemento a tre piani con tanto di torretta di comando, sulla quale sventolava la bandiera tricolore. Persa in mezzo ad altri seicentonovantanove bambini, mi sentivo una formica.
 Al microfono, una voce sconosciuta diede un ordine:


– Maschi di qua e femmine di là!


Il formicaio si aprì come il Mar Rosso e ci trovammo divisi: fratelli da sorelle, amici da amiche.


– Le bambine dai sei agli otto anni di qua, quelle dagli otto ai dieci, di là!


Io che non capivo bene dove fossero i ‘di qua’ e i ‘di là’ stavo attaccata a Roberta come una patella e mi dissi che l’avrei seguita, anche se avessi dovuto dichiarare di avere novant’anni.


– Tutti in la per due!
Le suore col cappellone bianco dalle ali svolazzanti cercarono di comporre delle le approssimative.


– Prima squadra... dentro!

Eravamo la prima squadra? Boh? E di chi era quella voce che dava ordini?
 Siccome le bambine davanti a me avevano cominciato a camminare, le seguii. La prima iniziazione fu la conquista del letto nelle enormi camerate da venti. Da veterana, Roberta sapeva quali occupare e ne arraffò uno anche per me, vicino alla porta e più lontano possibile da uno strano gazebo con le tende bianche che si trovava in mezzo alla stanzona. La prima sera scoprii a cosa serviva.
 Quando arrivò l’ora di dormire, le luci della camerata si spensero e il baldacchino s’illuminò di un incerto chiarore giallognolo.
 L’ombra scura di un avvoltoio con le ali spiegate si alzò contro il telo della tenda.
 Io e le altre bambine, rannicchiate sotto alle coperte, guardavamo con gli occhi sbarrati quell’apparizione in- quietante dentro la gabbia bianca. C’erano i mostri in colonia! Un drago volante! Un fantasma!


– Quella è la suora che si spoglia. Lei dorme lì dentro. Una voce risuonò squillante nella camerata, seguita dalla risata liberatoria di tutte.


Un ringhioso Stttttt partì dal gazebo e la luminescenza gialla si spense. Rimanemmo a lungo a commentare a bassa voce, fra noi, la strana apparizione.


– La suora, sotto al cappellone, avrà i capelli lunghi o corti?

– Forse ha le trecce...


– O magari è pelata...


– O ha i capelli a spazzola...


E giù a ridere.


Scoprii presto perché Roberta si era fiondata sui letti in prossimità della porta: erano quelli più vicini ai gabinetti. Andare in bagno di notte, per me rappresentava sempre una prova di coraggio. Bisognava uscire dalla camerata e percorrere un lunghissimo corridoio in penombra. Le porte dei servizi che s’intravedevano in fondo mi sembravano bocche spalancate pronte a ingoiarmi. Io trattenevo la pipì fino all’inverosimile, pur di non dover affrontare il buio. Quando proprio non ce la facevo più, mi alzavo e mi avventuravo di corsa in quella minacciosa oscurità, tenendomi più rasente al muro possibile. Poi mi sedevo sul gabinetto e, finalmente, con grande sollievo, ‘la mollavo’. Peccato che una mattina mi accorsi di essermi solo sognata di alzarmi e correre in bagno. In pratica l’avevo fatta a letto. Autodifesa dei sogni.


Terrorizzata, rimasi accucciata sotto alle coperte con gli occhi chiusi. Avevo già avuto occasione di vedere cosa succedeva quando qualcuna faceva pipì a letto. Veniva lasciata in mezzo alla camerata, bagnata e tremante, mentre la suora strillava all’inserviente di cambiare le lenzuola «di quella pisciona!». Tutte le altre bambine attorno a me si erano già alzate e stavano sciamando verso i bagni, mentre io fingevo di dormire. Roberta mi scosse una spalla.


– Ehi, sveglia!

Io mi misi a piangere senza dire niente e lei capì. Si guardò attorno. Eravamo rimaste le sole ancora in camerata.

– Mettiti delle mutande asciutte. Sbrigati.


Veloce come una saetta, fece una cosa incredibile. Tolse il lenzuolo fradicio e corse a stenderlo alla meglio su un altro letto, acchiappando al volo quello asciutto. Poi tornò da me, girò il materasso mettendo la parte bagnata in basso e ricompose la mia cuccia. Il tutto mentre io singhiozzavo in silenzio, cambiandomi le mutande.


– Piantala di fare la lagna – sibilò. – Andiamo a lavarci. E guai a te se fai la spia.


Poco dopo una bambina ‘pisciona’ veniva sgridata al posto mio.
 Io tremavo dentro dalla paura che mi scoprissero, mentre Roberta mi guardava con gli occhi furbi.
 Non mi passò neanche per l’anticamera del cervello di farmi avanti e dire che ero stata io.