[di Susanna Mattiangeli]
Ho conosciuto Vincenzo Schirripa qualche anno fa, quando mi ha invitato a parlare di Come funziona la maestra alle allieve del suo corso di letteratura per l’infanzia alla Lumsa. Ricordo l’imbarazzo nel leggere la frase “Sotto il vestito la maestra è tutta nuda” di fronte alle suore studenti. Imbarazzo superato grazie alla certezza che quella proposizione valesse per ogni tipo di maestra e anche grazie alla serenità con cui Vincenzo ha accolto nella sua aula lo straniamento e la provocazione. Negli anni ho avuto modo di apprezzare in lui quel tipo di apertura e quella propensione all’esperimento sociale che provengono certamente dal mondo scout di cui si è occupato anche da ricercatore. È nello stile scout mettere a disposizione spazi dove figure diverse possono discutere vari temi in modo orizzontale, con grande libertà di intervento e al tempo stesso con la responsabilità di un impegno a lungo termine. L’idea di far confluire all’interno dell’università aggiornamenti sul dibattito che arriva dal mondo esterno – più di una semplice condivisione di pratiche educative o resoconti sull’educazione alla lettura – nasce dalla consapevolezza che la condizione socioculturale di maestre e maestri non è un dato di natura, ma è una circostanza mutevole che racconta lo stato di salute della nostra democrazia.
Questa prospettiva viene da lontano, da una preparazione da storico che emerge anche nel suo Insegnare ai Bambini. Una storia della formazione di maestre e maestri in Italia pubblicato quest’anno da Carocci. Un racconto documentato di come funziona la maestra dall’Ottocento ai giorni nostri e, insieme, una storia della scuola elementare e poi primaria; un libro breve ma denso di informazioni e dati, utile a chi fa ricerca per l’abbondanza di apparati critici ma anche a chi si occupa in vario modo di scuola, di educazione, di libri per l’infanzia e di letteratura con l’infanzia o con la scuola dentro. La domanda, semplice, di partenza è questa: che cosa serve per insegnare ai bambini e alle bambine? Come si stabiliscono, come e dove si aquisiscono i saperi necessari a formare le creature umane? Nel nostro paese, ci racconta Schirripa, la formazione degli insegnanti è nata come una grande operazione di ingegneria sociale in seno al nostro Risorgimento e si è evoluta nel tempo - dalla patente ottocentesca per insegnare fino alla formazione universitaria - senza che la collettività abbia trovato risposte condivise alle questioni basilari. Alla natura corale e talvolta dissonante del pensiero sull’educazione primaria è dedicato questo libro che a me ha fatto l’effetto della prima lettura di Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio de Mauro, ovvero la sensazione di doverlo rileggere altre due volte per assorbire tutte le informazioni. Non escludo di farlo presto. Nel frattempo, con il permesso della casa editrice, propongo due brani dal primo capitolo alle lettrici e ai lettori di questo blog.
“1.1 L’anello forte” della rivoluzione scolastica
La figura del maestro non è nata nell’Ottocento, la sua storia è cominciata molto prima. Le maestre e i maestri come li conosciamo oggi, però, sono frutto di una rivoluzione recente. Fra la fine del XVIII e quella del XX secolo l’idea di estendere universalmente l’acquisizione dell’alfabeto attraverso la scuola ha prodotto effetti ingenti. La specie umana ha immaginato e fatto esistere un mondo in cui tutti o quasi i suoi membri possono comunicare attraverso la scrittura e ha costruito su queste fondamenta nuove possibilità di cooperazione e interdipendenza fra individui e società. I pionieri dell’alfabetizzazione, coloro che promuovevano l’istruzione popolare o almeno ne predicavano la necessità, non potevano prevederlo con certezza ma, alla fine, il corso della storia ha dato loro ragione e ha portato tutti, o quasi, sui banchi di scuola. Le società caoticamente intessute di informazione in cui oggi viviamo sono la conseguenza di questo immane sforzo organizzativo. Gli individui e le collettività umane hanno pagato prezzi alti per adeguare le proprie condotte alla nuova fede nel potere dell’alfabeto e nella scolarizzazione. Il successo di questa impressionante prova di immaginazione collettiva non è stato indolore ma relativamente rapido.
Con tempi leggermente diversi nei differenti ambienti geografici e sociali, il processo di scolarizzazione prosegue: mentre da sempre ci si duole che il prestigio dell’insegnamento declina, le istituzioni scolastiche continuano a coinvolgere sempre più alunni e sempre più a lungo, ricevono un mandato sempre più ricco di compiti sociali, danno forma a processi organizzativi e culturali che si svolgono dentro e fuori dalle aule. Gli insegnanti sono più numerosi e quanti, fra loro, si occupano dei bambini e delle bambine sono obbligati a percorsi di formazione più lunghi, le aspettative nei loro confronti crescono. Questa straordinaria trasformazione delle società umane ha nell’insegnante elementare il suo “anello forte”. È il titolo che nel 1985 Nuto Revelli diede a una raccolta di storie di vita femminili che raccontavano il tramonto della civiltà contadina: erano voci di donne in grado di tenere in piedi tutto un mondo con la propria fatica, poco o per nulla riconosciuta.
Ci sono però due differenze importanti. In primo luogo qui si tratta di un processo inverso, non di un tramonto ma dell’alba di una società scolarizzata. In secondo luogo, la nascita di un esercito di maestre elementari non è un’epopea contadina, semmai è riconducibile all’ascesa di una piccola borghesia che ha preso forma attorno alla scuola così come ad altre occupazioni impiegatizie, commerciali, artigianali; con il mondo contadino, che fino a metà Novecento è stato parte cospicua della società e campo di lavoro molto rilevante per gli insegnanti elementari, c’è stato un rapporto fitto di conflitti culturali e accomodamenti, afflati missionari e ostilità, storie di redenzione dalla miseria e di tradimento delle proprie origini. È di questo processo ascendente che i maestri e, soprattutto, le maestre sono l’anello forte. Della loro fatica sono quasi sempre gli altri a scrivere e parlare. Gli insegnanti che hanno accompagnato le classi popolari sulle soglie della civiltà alfabetica, soprattutto loro, erano fra due fuochi: sopportavano le resistenze di mondi prescolari che non volevano soccombere all’imposizione di una cultura e di una disciplina; dovevano inoltre fare i conti con un’opinione pedagogica che si fregiava della loro missione fra le popolazioni incolte e si proiettava sul loro operato. Con qualunque tipo di gruppi sociali avessero a che fare, queste figure sono state soggetto attivo e passivo della rivoluzione scolastica, determinante per il suo innesco e la sua alimentazione continua, mentre, a loro volta, ne sono state plasmate.
1.3 Che cosa ci vuole per insegnare ai bambini
[...] Spesso la svalutazione del profilo professionale degli insegnanti si è espressa attraverso metafore rassicuranti legate al femminile: la dedizione missionaria e le qualità materne delle maestre sono evocate per suscitare la nostra ammirazione o la nostra fiducia in loro ma non dicono molto sulle loro scelte, non descrivono le forme di convivenza fra i più piccoli cui le loro vocazioni hanno dato forma. Come se tutto dipendesse da virtù e doni naturali o di genere e non da conoscenze che si possono formalizzare, apprendere e trasmettere. Il materno emerge spesso dalle fonti in combinazione con visioni dell’educazione conservatrici o comunque attente a contenere lo scarto fra vecchi e nuovi costumi educativi e l’urto con le resistenze dei diversi ambienti sociali: una persona semplice e assennata può risultare più affidabile di una maestra “troppo” istruita e distante dai modelli cui i genitori e il contesto sociale della scuola erano abituati. È vero anche, però, che nel tempo l’appello al materno è stato anche un codice con cui si sono fatti capire autori e autrici che hanno inteso difendere i bambini da abusi di rigore disciplinare o di precocismo pedante o hanno voluto difendere gli insegnanti stessi da improvvisate pretese di controllo e burocratizzazione del loro lavoro. Non è facile. Questo ragionare per termini opposti (vocazione o mestiere, istinto o preparazione) porta alla luce dicotomie radicate nella nostra rappresentazione della scuola. Mentre è utile, fra persone che lavorano nell’educazione, riflettere insieme sull’uso delle parole per coglierne gli impliciti, nello spazio pubblico è facile che le antitesi siano fatte risuonare in modo strumentale, alimentando un’attenzione retorica tanto preoccupata delle sorti della scuola da soffocarla e da alienare dal proprio stesso vissuto il senso comune di chi ci lavora.
Sono questioni che tornano nel tempo: su ogni tema “attuale” di scontro, dalla didattica per competenze al rapporto fra scuola e lavoro, lo storico potrà risalire all’infinito in cerca di precedenti; al tempo stesso non sono questioni eterne e astratte, sono anzi così legate a circostanze storiche e variabili sociali da non potere essere interpretate con uno sguardo del tutto interno o del tutto esterno a un sapere pedagogico. Cosa deve studiare, quindi, un bravo insegnante elementare? Alla fine questa domanda è come se le raccogliesse tutte. Le risposte possibili chiamano in causa diversi modi di concepire il dosaggio fra un compito istruttivo e uno educativo e di cura dei bisogni specifici dei bambini rispetto ai ragazzi più grandi. Non si può ignorare, però, che le differenze fra maestri e professori in termini di reputazione e aspettative di ruolo non sono tutte semplicemente riconducibili a ragioni interne al lavoro da fare in classe ma sono anche legate alla composizione di classe e di genere del corpo insegnante, a una gerarchia di stili e di modi con cui ci si aspetta che l’adulto entri in relazione con i ragazzi – con le loro menti, con i loro corpi – e all’evoluzione della sensibilità rispetto alle attenzioni e alla cura che è per loro necessaria, anche nell’istruzione secondaria. Sulla diffidenza che la pedagogia incontra fra i professori fanno un po’ leva oggi le necessità legate all’inclusione e al trattamento delle varie forme di disagio scolastico. Anche fra fonti interne alla cultura magistrale, però, affiora talvolta l’idea che molta della pedagogia che si mastica nelle aule dei futuri insegnanti serva soprattutto ai suoi cultori e poco ai bambini con i quali, per l’appunto, basta poco: un po’ di preparazione, di cultura generale ma poi soprattutto talento, vocazione, istinto. Empatia, si dice oggi, come se la si potesse prescrivere.”
Schirripa V., Insegnare ai Bambini. Una storia della formazione di maestre e maestri in Italia Carocci 2023.