[di Ilaria Tagliaferri]
L’estate scorsa, nella biblioteca dove lavoro, si è rotto un tubo dell’acqua. Sgomenti, io e i colleghi abbiamo imprecato, sbuffato, e poi abbiamo chiuso al pubblico la sala dove sono raccolti i libri che vanno in prestito. Faceva caldo, c’era polvere ovunque, il pavimento bucato ghignava e pareva voler inghiottire tutta la sezione di poesia, già di per sé destinata a sentirsi sempre in sofferenza. Abbiamo pensato approfittiamone, facciamo pulizia, spolveriamo bene volumi e scaffali. Un po’ come si fa a casa, quando si ristruttura o quando si fa il cambio di stagione in ritardo, solo che nel frattempo bisognava confrontarsi con i lettori, spaesati e quasi increduli di fronte alla chiusura di uno spazio che sono abituati a vedere sempre aperto.
L'entrata della biblioteca Tiziano Terzani di Campi Bisenzio, Firenze.
L’apertura, silenziosa, costante, libera, gratuita, tutti i giorni e per tutto il giorno, è una delle prime cose a fare della sala dei libri un posto speciale. Magari è un posto deserto di presenze umane ̶ perché a certe ore, e in certe stagioni, la biblioteca guarda se stessa e si sente un po’ sola ̶ ma lo spazio degli scaffali tra i quali potersi aggirare è comunque il cuore sacro della biblioteca, e deve stare aperto. Io lo osservo continuamente, mi viene facile, la mia scrivania è sistemata quasi sulla soglia della sala. E poi mi alzo spesso, la percorro su e giù, con il carrello per la ricollocazione, da sola, oppure insieme ai lettori. A volte stare tra gli scaffali mi fa ridere, altre volte mi calma il nervoso, mi mette malinconia, o anche un po’ di ansia, come quando sono arrivati i muratori per l’emergenza del tubo e ci siamo ritrovati a coprire i volumi alla bell’e meglio, ad appoggiarli su ogni superficie possibile, compresi i divani e il pavimento. Osservo la sala, lo spazio dei libri, la loro casa, perché sono convinta che anche quando se ne sta apparentemente ferma e sembra fissare se stessa, in realtà brulica di una vita che va imparata, toccata, esplorata con mano leggera, non necessariamente esperta, ma sempre attenta.
Gli scaffali nello Spazio Ragazzi.
A volte va solo ascoltata, la biblioteca, e il compito di noi che ci lavoriamo credo sia quello di raccontarla, spiegarla, perché diventi parte delle giornate di tutti, e perché si capisca come viverla e come rispettarla. Altrimenti, i segnali di vita che dà, non si riescono a cogliere. Per questo, quando mesi fa il tubo a iniziato a perdere acqua e abbiamo spostato grandi quantità di volumi sul tavolo dove di solito teniamo i quotidiani ̶ era una delle superfici più ampie che avevamo a disposizione ̶ ho sentito le narrative scricchiolare, i saggi sbadigliare, le loro giunture di carta sciogliersi pian piano. Faceva un effetto strano vedere autori che non si erano mai nemmeno sfiorati, come Honoré de Balzac e Peter Cameron (per dirne due a caso) che si son ritrovati improvvisamente vicini, quasi sovrapposti in una specie di abbraccio rubato, velocissimo, giusto il tempo di una spolverata. C’era confusione, un’atmosfera elettrica intorno ai libri, un senso di precarietà, di movimento straordinario rispetto al solito, insolito e divertente, ma anche destabilizzante. Una fase nuova, che ha scombussolato le nostre abitudini lavorative e quelle dei lettori. Ne abbiamo trovati alcuni che ignoravano la chiusura della sala incriminata, incuranti degli attrezzi dei muratori sparsi qua e là, delle scale appoggiate agli scaffali, ostinati a cercarsi il giallo preferito o anche a rimirare semplicemente quella nuova sistemazione dei libri, non rendendosi conto che era provvisoria, a cercare di capire se ci fosse un criterio nell’ordinamento, che già il codice Dewey per il lettore medio non è una cosa semplice da assimilare, da digerire.
La Sala Studio.
Lo Spazio Bambini.
I lettori diventano curiosi, con il tempo, se imparano a conoscere gli angoli della biblioteca. Arrivano da me spesso tenendo in mano un biglietto con la collocazione del libro che vogliono, scritto dai colleghi che li accolgono all’entrata. Ma accompagnarli tra gli scaffali, sostare insieme a loro lì in mezzo, invitarli alla calma, e sopratutto, a un certo punto, lasciarli soli e liberi di sfogliare (e spulciare) i volumi, è secondo me l’invito alla scoperta di un luogo che, lo noto spesso, ancora mette soggezione. La biblioteca non si conosce ancora abbastanza, non la si frequenta tutti i giorni, pare un’oasi incantata, ha un che di austero, di solenne, a volte penso ingenuamente che sia un luogo così bello da apparire poco reale, poco pragmatico. La nostra biblioteca si trova in periferia, accanto a grandi zone industriali, è ospitata all’interno di un’antica villa che in origine era una fattoria, ed è immersa in un parco: abita in un ritaglio verde, appiccicato tra l’autostrada e i capannoni, sembra avere una storia tutta sua, staccata dal resto del mondo. Invece la biblioteca sta nel mondo con tutta se stessa, con tutto ciò che le manca e tutto ciò che può dare, e ci dialoga continuamente. Rispetto a tanti dei luoghi che frequentiamo ogni giorno, però, la biblioteca ha bisogno di tempo per essere compresa davvero, anche nei suoi aspetti più concreti, che davvero la rendono simile a una casa, da frequentare, dove si bussa e si entra, ma facendo piano.
«Mi dia Ricciardi per favore», mi ha detto l’altro giorno una signora che spasima per i romanzi di De Giovanni, ma non ricordava altro che il nome del suo personaggio e m’è parso che lo vedesse lì accanto a me, a chiacchierare alla scrivania. «Mi dia Romeo e Giulietta di Quasimodo», ha balbettato una mamma sventolando un biglietto ansioso che le aveva affidato la figlia liceale, alle prese con un compito in classe imminente. Non credo avesse idea del fatto che si trattava di una traduzione, alta, importante, rara: ma la naturalezza con cui lo ha chiesto mi ha fatto piacere, la biblioteca risponde anche alle domande bizzarre, indaga, prova a risolvere, anche se non sempre ci riesce.
Lo Spazio Adulti e lo scaffale del Libero Scambio.
La fretta, la quotidianità, le suggestioni, la curiosità, lo studio, gli stereotipi, le stagioni, i tic e il caso: in biblioteca ogni giorno entra un flusso vitale che l’apparente quiete degli scaffali assorbe, racchiude, conserva. E quando meno te l’aspetti, quando hai imparato ad avere con lei una piccola confidenza di gesti, sguardi e movimenti, la biblioteca, nell’accoglierti, ti racconta di sé. Per questo lascio il lettore solo nella sala, dopo una piccola chiacchierata per orientarsi, per fargli capire che scaffale aperto significa aperto per davvero, che i libri si possono toccare, spostare. Lo invito a dare un’occhiata in giro, spero sempre che si perda un po’, come dicono bisognerebbe fare a Venezia per godersela veramente. Perché la scoperta di una biblioteca, e questo è l’aspetto forse più emozionante, può durare una vita intera. È una scoperta fatta di lentezza ma anche di guizzi improvvisi, nel tempo che si decide di dedicarle. E soprattutto è un’esperienza alla portata di tutti – in biblioteca non c’è una selezione all’ingresso, la biblioteca è pubblica nel senso più puro del termine – e intreccia insieme l’intimo, il privato delle nostre storie personali con la ricerca della storia da leggere, della pagina da studiare, quando ce le troviamo di fronte, tante, che fanno impressione. Perché sono pagine in apparenza zitte, in realtà vive e, ecco la cosa straordinaria, stanno le une accanto alle altre.
Mamma e figlio in biblioteca.
Gruppo di lettura.
Incontro con gli autori nel Salotto.
Come bibliotecari abbiamo il compito di prenderci cura di questa esperienza, di accompagnare i lettori a scoprirla, anche quelli che lettori lo sono solo potenzialmente, quelli che mettono piede tra gli scaffali solo perché costretti, dalle richieste di un figlio, dal dictat di un professore, dalla semplice ricerca di un luogo dove ripararsi dalle intemperie, climatiche o esistenziali. Prendersi cura dei libri significa per me anche immaginarli vivi, sui palchetti dove sono raccolti, pronti a saltar fuori, a offrirsi. È un modo per far sì che quando i lettori ci chiedono un consiglio, il nostro sguardo che scorre sugli scaffali incontri delle presenze tangibili, quelle delle storie che amiamo, dei personaggi che prendono forma. È allora che mi viene in mente quale potrebbe essere la storia giusta per quel lettore, proprio per lui, o lei.
L’estate scorsa, quando li abbiamo squassati con la nostra mania di pulizie, tra i libri c’è stato anche qualche episodio di ribellione, qualche scontro. Cesare Pavese e Goffredo Parise, che da sempre stavano praticamente appiccicati ̶ quando tiravi fuori l'uno seguiva l'altro, cadendoti sui piedi ̶ dopo la rottura del tubo non si son più trovati sullo stesso scaffale. Li abbiamo sistemati in modo che fossero più comodi, poco distanti. Natalia Ginzburg ce l'avevano sempre di fronte, accigliata, che li osservava e covava per loro il suo solito affetto dei dettagli, in silenzio. Li guardavo e pensavo «Così separati non resisteranno a lungo, si sentono più soli che mai, quando mi ricadranno sui piedi non mi dovrò chiedere perché: sarà solo segno che devo incerottarmi l'alluce, riordinare tutto daccapo e farli tornare vicini.»
Ilaria Tagliaferri.