I ragazzi non sono un mondo a parte

Fra le tante cose che abbiamo letto su Facebook questa, scritta da Isabella Mattazzi, ci è parsa particolarmente interessante perché, oltre a mettere a fuoco con chiarezza le responsabilità del fatto, si pone una domanda cruciale relativa alla relazione adulti/ragazzi, alle responsabilità a cui gli adulti abdicano rifiutando il ruolo che dovrebbero avere nel crescere, educare e istruire i più piccoli, lasciandoli in balia di quella che Mattazzi definisce magistralmente una dose di orrido a cui pare che i più giovani siano condannati per legge di mercato e sacrificio al conformismo mainstream (su cui prospera da sempre un lucrosissimo giro di affari). Un orrido che sembra un destino inevitabile, una condanna e invece è una scelta precisa di noi tutti: abbandonarli in una stanza dei giochi sempre più miserabile, straripante, minacciosa. Isabella Mattazzi è apprezzabile perché scrive senza moralismi, con limpidezza, assumendosi la scomoda parte di chi osa un giudizio severo (che oggi, fra tutti i possibili peccati, è considerato il più inaccettabile e intollerabile: giudicare, o più probabilmente essere giudicati) e assume una posizione drastica.

[di Isabella Mattazzi*]

La tragedia di sabato sera - perché di questo si tratta, e se mai bisogna dare la colpa a qualcuno non è certo dei ragazzi che erano lì o del cantante che manco c’era – sta facendo svegliare un sacco di persone di soprassalto riguardo alla vita dei propri figli. Il fatto in sé è terribile e ha una causa precisa, pura, nuda nella sua ovvietà. La colpa non è dei testi di un cantante, non è neanche della Lega che anni fa distribuiva spray al peperoncino, e no, non è neppure del ragazzino – se così è andata – che ha spruzzato lo spray. La colpa, tecnica, secca, crudele è stata dell’organizzazione del locale che probabilmente da sempre si è bellamente fregata delle norme di sicurezza da rispettare.

Detto questo, un discorso a parte - che ripeto, nulla c’entra con le morti dell’altra sera - è da farsi su questo mondo che fino a ieri sembrava sconosciuto a molti di noi. Ci siamo svegliati e abbiamo visto che i nostri figli ascoltano musica orrenda, brutta nei testi e brutta musicalmente, anzi, peggio che brutta, misera, povera come un guscio riempito di nulla. Subito allora è partita una difesa d’ufficio: “Ah, ma perché noi alla loro età non trasgredivamo?”, “Che cosa vuoi che sia, sono solo canzonette per ragazzi”, “Gli adolescenti ascoltano tutti brutta musica, è strutturale”.

Io mi sono sempre chiesta, perlomeno da quando ho un figlio, perché il mondo ritiene che per i bambini e i ragazzi non valga la nostra idea di bellezza. Non ho mai capito perché bisogna ingozzare bambini con canzoncine idiote, organizzare per loro feste con Ronald McDonald il clown, o portarli in catene di ristoranti a mangiare sempre e solo polpettine e cotolette in mezzo a oceani di palline di plastica colorata e ippopotami gonfiabili. Non li portiamo in giro con noi – nei nostri musei, nei nostri ristoranti, nei nostri viaggi, ai nostri concerti - perché pensiamo che siano cose per adulti, cioè che non contengano una dose sufficiente di orrido per piacere a loro. Ancora peggio con gli adolescenti. Io sinceramente se avessi un figlio che parla solo di vestiti, che ha come punto di riferimento la coppia Fedez-Ferragni, che ascolta Sfera Ebbasta, il Pagante o Dark Polo Gang, che pensa sia figo passare tutti i sabati sera in discoteca e tutte le giornate attaccato alla playstation, due conti su di me li farei, ma non solo su di me come genitore, su di me come persona. Sarò démodé, bacchettona, tutto quello che volete, ma alla sospensione della figura genitoriale come esempio valoriale, alla “riserva indiana” dei ragazzi non ci credo neanche un po’. I ragazzi non sono un mondo a parte, sono un mondo che vive e respira insieme al nostro. I miei amici parlano con mio figlio e i suoi amici parlano con me, quello che è mio spesso e volentieri passa a lui e viceversa. Come possiamo pensare di voler cambiare le cose intorno a noi, di rendere le nostre città un posto più confortevole, se trattiamo i cittadini di domani come qualcosa che non ci riguarda?

*Isabella Mattazzi insegna Letteratura francese presso l’Università di Ferrara ed è ricercatrice associata presso il CNRS. È traduttrice editoriale dal francese e scrive per il supplemento culturale del Manifesto, per L’Indice dei Libri e per numerose riviste di settore.

The Pied Piper of Hamelin, di Robert Browning, illustrazione di  Kate Greenaway, 1888.

Postilla dell’editore

Nei giorni scorsi, nel leggere  su Facebook le numerosissime riflessioni sulla vicenda della discoteca di Corinaldo, ci è venuta in mente, per associazione, la fiaba del
Pifferaio magico di Hamelin, come è raccontata nel poemetto di Robert Browning.

Abbiamo conosciuto questo testo attraverso un film di Atom Egoyan
Il dolce domani, a sua volta tratto dal libro omonimo di Russell Banks a sua volta ispirato a un fatto realmente accaduto: l’incidente di uno scuolabus carico di bambini in cui vi furono solo due superstiti. Il regista armeno, così come Browning, racconta di una comunità di adulti che si trova a confrontarsi con una tragedia che ha colpito i propri figli e della quale non è in grado di assumere la responsabilità.

Nella fiaba del Pifferaio, i governanti della città di Hamelin, dopo aver affidato il compito a un misterioso personaggio, il Pifferaio, di liberarli da un’invasione di topi dietro congruo compenso, una volta risolta la situazione, si rifiutano di onorare l’accordo, e cacciano in malo modo l’uomo che ha salvato la città. Il tradimento della parola data spinge il Pifferaio a vendicarsi. Suonando il proprio strumento incantato, condurrà tutti i bambini e i ragazzi della città dietro di sé facendoli scomparire nel cuore di una montagna. La perdita dei propri ragazzi precipita la cittadina nella disperazione. I ragazzi, in realtà, seguendo il Pifferaio, hanno attraversato la montagna, approdando a una nuova terra, dove hanno fondato una comunità più giusta, pacifica e libera.
La vendetta del Pifferaio, insomma, non si è ritorta contro i ragazzi, che anzi costruiscono altrove il proprio futuro. A essere punito è il mondo adulto che, incarnato nelle male parole e male azioni dei propri governanti sleali e disonesti, sacrifica la giustizia alla propria avidità.

Questa fiaba mette a fuoco un’evidenza dirompente: l’incapacità di una comunità adulta di essere all’altezza della crescita della nuova generazione. E non per ragioni astratte o vaghe o filosofiche, fumose e poco comprensibili. Il non mantenere la parola data, il tradire il principio della giustizia, la lealtà, il rispetto e la fiducia su cui si basa il patto sociale, non sono semplicemente un escamotage scusabile per tirare l’acqua al proprio mulino e rendere più floride le casse del governo (e quindi della comunità), ma qualcosa di ben più grave e dalle conseguenze più drammatiche: è minare le fondamenta stesse della comunità nella sua stessa ragione d’essere. E mette a nudo un nodo fondamentale: una comunità adulta che fa questo può essere considerata ancora adeguata a crescere i propri figli? Su che base, su che principi lo farà? Potrà essere credibile la sua parola per i più giovani?

La vicenda accaduta in questi giorni ripropone questa domanda e lo fa nei suoi termini più drammatici. Tutti coloro che hanno chiuso gli occhi sulla pericolosità di quello che accadeva nel locale o che l’hanno compreso e non hanno fatto niente per farla conoscere sono responsabili di ciò che accaduto: chi se ne è disinteressato pensando che comunque le cose vanno così, e che i ragazzi sono ragazzi, rischiano da sempre; chi sapeva e ha lasciato correre; chi avrebbe dovuto garantire controlli e non l’ha fatto; chi conosce le dinamiche della gestione di questi eventi, a cominciare da chi ne è protagonista e magari non gli va troppo bene, ma lascia correre con l’idea che questa è la realtà e non si può cambiare. Non si tratta di poche persone, si tratta di un’intera comunità, e probabilmente di un intero Paese, il nostro, che pensa di garantire la sicurezza mettendo telecamere negli asili e rifiutando l’accoglienza a rifugiati, e poi non si accorge di come l’infrazione sistematica di ogni regola di convivenza civile, di ogni rispetto per le persone, distrugge ed erode quotidianamente le fondamenta del patto sociale, delle parole e delle azioni che lo costruiscono: patto sociale che è l’unico vero garante della sicurezza vera, nostra e altrui.

Italo Calvino ha scritto che le fiabe sono vere. Lo ha scritto anche Walter Benjamin: lo sono letteralmente, vere. Noi, oggi, citiamo queste affermazioni in articoli e conversazioni dotte, ma ci comportiamo come se non conoscessimo questa elementare verità, troppo cinici e pavidi per crederlo davvero, troppo invischiati nel nostro minuscolo orizzonte per essere consapevoli di quello che accade e tornare a fare gli adulti. E dovremmo tenere bene a mente una cosa: tutto quello che oggi non insegniamo ai bambini e ai ragazzi, è una fetta del futuro che gli stiamo rubando.