Diquesto libro ho parlato alcuni post fa. La ragioneper cui lo propongo di nuovo, è una riflessione di GianniCelati sul vedere cheriprende alcune illuminanti affermazioni di AlbertoGiacometti.
È interessante, a mioavviso, in queste parole, notare come Celati faccia coincidere capacitàdi vedere con capacità visionaria, mettendo la visione al centrodell'esperienza di incontro con la realtà, con il non conosciuto,come pratica nuda e diretta che espone a una conoscenza che implicaprecarietà, casualità, alterità, spiazzamento.
Leggere quel che Giacometti spiega del suo rapporto con ildisegno, mi ha immediatamente riportato a una frase di Saul Steinberg:“Disegnare è un modo di ragionare”.
Il brano riportato di seguito ètratto dall'intervista di Sarah Hill a Gianni Celati che dà il titoloal volume di cui fa parte, Documentari imprevedibili come isogni. Il cinema di Gianni Celati, allegato ai tre dvd di Cinemaall'aperto.
S. H. Cosavuoi dire quando dici “capacità visionaria”?
G. C. Nelle vecchie comunità c'era spesso qualcuno dicui si diceva che “avesse visto”, ossia che avesse avuto dellevisioni. Sono percezioni che si caricano di forti intensità affettiveo perturbanti, e diventano stati cosiddetti allucinatori. Ma non sonofenomeni molto rari, piuttosto sono continuamente rimossi, perchédipendono da stati troppo intensi della sensibilità. Leopardi dicevache agli occhi di un sensitivo dietro ogni paesaggio c'è un altropaesaggio, che si percepisce con la vaghezza o la indefinitezza deifatti immaginativi. Comunque è la capacità visionaria che caratterizzala ricerca cinematografica e documentaristica, da Rossellini finoa Herzog. Io direi che si tratta di riuscire a servirsi delleimmagini filmate come se fossero visioni di qualcun altro, comese venissero da un fondo di visioni anonimo e collettivo in cui siinnesta.
Foto di SabineWeiss |
S. H. Èquesto il tuo modo di lavorare?
G. C. Mah,non so. La mia idea è che bisogna fare dei documentari imprevedibili comei sogni. Imprevedibili non solo per gli spettatori, ma anche e soprattuttoper chi li fa. Bisogna restare del tutto spiazzati, e dopo, nel tormentovisivo del montaggio viene fuori qualcosa di impensato.
S. H. Qual è il risultato di questimodo di vedere il documentario? A cosa ti portano?
G. C. Nel documentario c'è la possibilità di usare leimmagini per compiere una ricerca su quello che vediamo, sulle coseche paralizzano o che trascinano lo sguardo. Un grande artista delXX secolo, Alberto Giacometti, aveva questa idea: “io disegno percapire cosa vedo”.
Se copioun bicchiere su un tavolo – diceva – non disegno che una visione,cioè qualcosa che scomparirà fra un attimo, sostituita da una visionediversa di quel bicchiere. Dunque quello che si disegna (o si filma)è solo la traccia di un'immagine che arriva alla coscienza, ma appenac'è un po' più di luce, o un colore diverso, potrebbe risultare unacosa del tutto diversa. Tutto quel che riguarda il vedere è sempre sulpunto di trasformarsi in qualcos'altro. Giacometti diceva: “L'artenon è che un mezzo per vedere. Qualunque cosa guardo mi sbalordisce,e io non so esattamente cosa vedo. Allora bisogna cercar di copiaresemplicemente, per rendersi un po' conto di quel che vediamo”. Eun'altra cosa che diceva, in un'intervista: “C'è molta genteche trova la realtà banale e pensa che le opere d'arte siano piùbelle. Una volta io andavo al Louvre e i quadri mi davano semprel'impressione del sublime. Adesso vado al Louvre, e non posso fare ameno di guardare la gente che guarda le opere d'arte. Il sublime perme adesso sta nelle facce di quelli che guardano”.