[di Maria José Ferrada]
La copertina di Case, di Maria José Ferrada e Pep Carrió (Topipittori, 2022).
Dev’essere stato verso la fine di marzo del 2020, quando un giorno ho visto le case che pubblicava quotidianamente sui suoi social il mio amico, l’illustratore spagnolo Pep Carrió. Case che coprivano teste, case che navigavano sul mare, case con le radici e, qua e là, qualche condominio.
Gli ho chiesto se gli andava che scrivessi dei testi per quelle case. Non ricordo se nella mail fossi scesa nei dettagli, ma scrivere mi ha sempre rasserenata e la comparsa giornaliera di quelle case, sempre se Pep avesse accettato, mi avrebbe obbligata a pensare e a scrivere un testo con la stessa regolarità. Perché? Per il puro gusto di farlo. Scrittura senza ambizioni: il tipo di scrittura in grado di calmare i nervi. E io ne avevo bisogno, chi non ne aveva? Ripeto il periodo: marzo del 2020.
Pep, gentile com’è, ha accettato e mi ha mandato la prima serie di immagini. Dieci o dodici case che potevo collocare dove più mi piaceva. Ed ero anche completamente libera di scegliere i loro abitanti. Ho stampato quelle illustrazioni e le ho disposte sul mio tavolo. Forse perché è un piccolo tavolo rotondo, ho avuto l’impressione di averle posizionate su un planisfero. Come se fossi un incrocio tra un dio della cucina, un bambino e un urbanista, ho cominciato a organizzare il mio territorio. La prima casa è andata a finire in quello che pareva essere il Portogallo, la seconda in Russia, la successiva in Messico. E così via, fino a popolare il mondo intero.
Felice com’ero della mia carta geografica, ho bussato alla porta della prima casa. Ne è uscito un tale Luis Pereira. Dopo averlo salutato, rimettendomi nei panni della scrittrice (un aspetto importante e un po’ dimenticato del mestiere consiste nell’ascoltare) gli ho chiesto se potesse per favore raccontarmi la sua storia, che si è rivelata piuttosto eccentrica: Luis Pereira voleva ingaggiare un architetto per costruire una casa in un punto specifico del suo cervello che, secondo uno studio, era legato alla memoria. Ho preso appunti. E ho mandato il primo racconto a Pep.
Ho bussato alla seconda porta e ne è uscita una donna chiamata Tatiana Koslov – ogni territorio imponeva un nome, e quel nome, una storia – che viveva, secondo la carta geografica del mio tavolo, nella penisola del Kamchatka. Ho ripetuto il procedimento e questa volta mi sono ritrovata tra le mani la biografia della prima aspirante astronauta. Pep, nel frattempo, continuava a disegnare: case montate su ruote, case dentro cappelli, case che germogliavano da spugne di mare. Altri condomini. Una volta alla settimana, ricevevo le immagini e creavo una nuova carta geografica.
Siamo andati avanti così per tre mesi: Pep disegnava, io scrivevo, e pubblicavamo sui social questo libro aperto. Ripeto il periodo: marzo, aprile, maggio del 2020. Perché l’abbiamo fatto? Perché sì. Anche se, a pensarci bene, c’era un buon motivo di cui ci siamo accorti quando abbiamo cominciato a ricevere i commenti: sia noi che chi si trovava dall’altro lato dello schermo del proprio cellulare o computer avevamo bisogno di un respiro. Di guardare un’immagine. Di leggere un breve testo. Di dimenticarci delle notizie e sorridere per un po’. Perché le storie, le immagini – gli accademici delle facoltà di arte e letteratura mi perdoneranno – devono anche svolgere questo umile e antico compito.
Devo ammettere poi che i personaggi, indipendenti come sono, hanno fatto la loro parte. Ce ne sono stati alcuni che, senza permesso – e senza premeditazione – sono passati da una pagina all’altra. E altri che si sono rifiutati di abitare territori conosciuti e hanno deciso di andare a vivere in un fiore, o in una clessidra. C’è stata persino una folletta – l’aiutante di un sarto, con la passione per il realismo – che si è ostinata a dire che lei abitava su un tavolo, e che per favore non arrivassi io a cambiare la sua storia.
Se sono riuscita a recuperare la calma grazie alla scrittura periodica? La verità è che non me lo ricordo più. Ma in una cosa Pep e io continuiamo a essere d’accordo: è stato un lavoro divertente che, per tre mesi, ci ha fatto aprire, trepidanti, le nostre rispettive caselle di posta elettronica. Immaginare case e abitanti tanto impossibili da sembrare reali. Ricordare che i tavoli sono carte geografiche – il pane è in Canada e la bottiglia d’acqua in India, all’altezza del Kerala – e che proprio come dicevano gli antichi poeti giapponesi – quelli che secoli fa abitavano lì, sotto la saliera – la cosa più importante continua a essere l’atto dello scrivere o del disegnare. Per il solo gusto – o bisogno irreprimibile – di farlo.
Questa volta l’esercizio si è trasformato in un libro. Pep e io siamo convinti che sia stato grazie all’aiuto dei folletti (casa 32 e 33).
Un libro che in ogni pagina sostiene una casa e i suoi abitanti. Un mondo a volte costruito sulla terraferma e altre – ripeto, questa volta a bassa voce e per me stessa: marzo, aprile, maggio del 2020 – su una lumaca, o in una goccia d’acqua.
[Traduzione di Marta Rota Núñez]