[di Rita Gamberini]
Musica ma soprattutto canto mi hanno accompagnato fin dall’infanzia. Abbiamo sempre cantato tutti, solo il babbo più che altro fischiava e gli piaceva ballare. Si distingueva la nonna che cantava l’operetta della Vedova allegra e la canzone La luna nel rio. Assente la musica classica. Vorrei tanto che in questo scritto si potesse ascoltare la mia voce, ormai priva della sua antica limpidezza, che accenna alle prime due canzoncine che ho imparato e cantato più e più volte insieme a tutte le meravigliose voci delle donne della mia famiglia.
Un vecchio e malridotto quadernetto, impiastricciato di scarabocchi e disegni infantili, conservato dalla mia impagabile sorella, giunto fino a noi da tempi remoti e forse donato a mia madre nella sua giovinezza da qualche religiosa, riporta, scritti con una impeccabile e dotta calligrafia dell’epoca, molti canti quasi tutti di ispirazione patriottica, religiosa o nostalgica. Tra Inno delle giovani cattoliche, La canzone del minatore, Nostalgia, Giovinezza pura, Mistica visione, L’accattone, I quattro piemontesi e Dolce Signor spuntano inspiegabilmente Il dottore di Parigi e Pipetto Strozzolo.
Sono queste due canzoncine divertenti e spiritose che ancora oggi mi mettono allegria, le canticchio e divento subito sciocca. Il Dottore di Parigi, come si intuisce, di medicina sapeva ben poco: «Arcicisbego aveva un corno che gli cresceva di giorno in giorno, col mio rimedio efficacissimo presto prestissimo l’altro spuntò. E poi mi dicono che sono un asino, un ciarlatano, un impostore. Venite tutti belli belli venite tutti cari cari venite tutti dal gran dottor!» e via di questo passo.
Pipetto Strozzolo poi potrebbe essere una delle prime canzoni di genere “demenziale” della storia della canzone italiana. «Io son Pipetto Strozzolo del gran Pascià e sono figlio unico del mio papà, son uomo incomparabile che al mondo sta, son venditore celebre di baccalà. Via signori guardate bene a me macchè io sono la figura di un bebè macchè sul tipo mio che dir non c’è macchè macchè macchè macchè macchè!» e via di questo passo.
Questa la mia formazione musicale che si è poi arricchita di numerose esperienze. Ho cantato nel coro della chiesa, diretto da un cappellano che quando sbagliavo qualcosa o ero distratta mi dava delle schiaffetti in testa e mi faceva cadere il cappellino, mi veniva il magone e dovevo forzarmi a cantare lo stesso. È lo stesso cappellano, appassionato di canti e musiche, che volle preparare mio fratello di quattro anni perche partecipasse a un concorso canoro nel nostro paese in vista delle selezioni dello Zecchino d’Oro. Tutti i giorni andavo con lui in canonica a fare le prove, il prete suonava allegramente un vecchio armonium, Gigi cantava, ligio al compito che gli era stato assegnato e io con lui. L’ho accompagnato in questa avventura, cantando fino allo sfinimento Torero Camomillo, canzonetta dal motivo spagnoleggiante, rimasta nella storia dello Zecchino.
Abbandonati dopo qualche tempo il coro, il cappellano e il vecchio quadernetto è arrivato il Festival di Sanremo e cantavamo le canzoni dei nostri beniamini. Insieme alla mia amica del cuore ho scritto una cartolina a Little Tony nella illusoria certezza di ottenere risposta con foto e relativo autografo e volendo distinguerci per assoluta originalità, abbiamo pensato e ripensato il testo che recitava più o meno così: «caro Little Tony siamo tue grandi ammiratrici e ci piace molto la tua voce limpida e argentina». Il divo non ha apprezzato, il postino non è mai arrivato.
Poi un giorno la folgorazione. Stavo aiutando mia madre in tinello a piegare i tortellini, la radio accesa. A poco a poco mi accorgo di una musica fino ad allora sconosciuta che mi dà turbamento, uno struggimento, un sentimento, un languore, un’assenza e dalla radio l’annuncio «Avete ascoltato il notturno n. 9 di Chopin».
Come mi sono sentita? Come un uccellino dentro una pozza d’acqua che non sai se tutto quel frullare di piume è per disperazione o per gioia.