Il valore simbolico dell'oro nella letteratura per l'infanzia

Dal 2019, La Bologna Children's Book Fair assegna il Premio Carla Poesio, dedicato alla ricerca universitaria, volto a premiare la più innovativa e originale tesi di laurea italiana in Letteratura per l’infanzia. Il lavoro vincitore, decretato da una commissione composta da docenti universitari, ottiene come riconoscimento la pubblicazione presso l’editore Edizioni ETS grazie al sostegno di BolognaFiere. nel 2021 il Premio è andato ad Alice Galletti per lo studio Tracce di materia e luce nella letteratura per l’infanzia: la preziosità dell’oro tra il qui e l’altrove, Università di Bologna. Questa la motivazione della giuria:

“Una ricerca originale dal taglio innovativo che indaga il valore simbolico dell’oro nella letteratura per l’infanzia attraverso una pluralità di fonti (romanzi, fiabe, miti, albi illustrati, film e opere d’arte) che sorprendono per la varietà di rappresentazioni e di significati racchiusi in questa costante dell’immaginario. Riti iniziatici, passaggi nell’aldilà, tesori, valori materiali, ricchezza interiore, consapevolezze acquisite si intrecciano alle immagini metaforiche dell’oro decifrate con strumenti interpretativi nuovi per cogliere le ragioni profonde della suggestione che questo simbolo ha esercitato sull’immaginazione di tutti i tempi”.

Abbiamo letto e apprezzato questo saggio di cui vi proponiamo i due paragrafi del primo capitolo.

[di Alice Galletti]

1.1 Luccicanti bagliori dalla notte dei tempi

«L’oro in realtà è esso stesso un mistero, un grande mistero. Bellezza. Divinità. Valore. Ricchezza. Risparmio. Scambio.»
 [Salvatore Rossi]


Settantanovesimo elemento della tavola periodica degli elementi di Mendeleev, l’oro ha da sempre esercitato sull'essere umano un fascino indiscusso: estratto con fatiche immani dalle viscere della terra, è un metallo raro e quindi prezioso; è incorruttibile nel tempo, non arrugginisce e quindi è eterno. Sin dalla sua scoperta, l’oro ha avuto una notevole importanza, nel bene e nel male, nella storia, nella società, nell’immaginario.

Il suo simbolo chimico (Au) deriva da aurora, che significa “alba luminosa” e infatti il suo colore è l’icona della ricchezza, della perfezione, rappresenta il lusso per eccellenza; la sua brillante luce ha ornato e decorato ogni forma di bellezza nella storia della creatività umana, è stato il primo metallo mai usato dalla specie umana, prima ancora del rame, per la manifattura di ornamenti, gioielli e oggetti rituali.

«L’oro è anche colore, peso, densità; partecipa della simbologia dei metalli, porta un nome magico e, nella scala medievale dei materiali, solo le pietre preziose gli sono superiori.»

Nel nostro immaginario l'oro coincide con la sacralità, la sostanza stessa degli dei e delle virtù soprannaturali grazie alla sua immutabilità in colore, lucentezza e resistenza.
Nelle religioni storiche era il colore degli dei e per secoli ha mantenuto questo aspetto di sacralità: gli egiziani lo associavano al dio del sole Ra, nell'antica Grecia discendeva direttamente da Zeus, nella Bibbia troviamo che il Tempio del Signore a Gerusalemme era rivestito in oro purissimo e nell'arte bizantina i soggetti venivano immersi in un fondo d'oro per conferire loro una consistenza ultraterrena. La maggior parte delle statue nell’antichità erano in bronzo, legno o pietra, materiali poveri e terreni che venendo poi rivestiti interamente o parzialmente in lamine d'oro acquisivano automaticamente prestigio e suggestione.

In Mesopotamia gli edifici sacri venivano decorati con oro e pietre preziose, mentre gli Ebrei, che non potevano raffigurare in alcun modo le divinità, utilizzavano l'oro nei particolari costruttivi.

«Secondo una tradizione che inizia nel XII secolo, il giallo è sinonimo di falsità, di inganno e di menzogna, poiché è sentito come una degenerazione delle qualità luminose e morali dell’oro.»

In mancanza dell’Oro si ricorreva al Giallo, che ovviamente non dava lo stesso effetto: secondo Michel Pastoureau, storico, antropologo, saggista francese e tra i maggiori esperti al mondo di storia dei colori, l’oro ha vinto la battaglia contro il Giallo, gli ha sfilato via il valore figurato e reale e gli ha lasciato in pegno l'autunno, il declino, la malattia, il sangue di Capitan Uncino.

Il Giallo è così finito a rappresentare tutti i tradimenti, a partire da quello per antonomasia: nelle immagini medievali Giuda ha sempre una veste gialla, e altri inequivocabili tratti sataneschi, come i capelli rossi e l'essere mancino.

«L’oro permette alla Chiesa di affermare e di mettere in scena la sua auctoritas; è segno di potere e, come tale, tesaurizzato sotto diverse forme all’interno o vicino al santuario (lingotti, polveri, monete, gioielli, vasellame, armi, reliquiari, tessuti, abiti, libri e oggetti di culto). […] 
L’oro pone un problema etico. In quanto luce, partecipa allo scambio con il divino: è il buon oro. In quanto materia, esprime la ricchezza terrestre, il lusso, la cupidigia: è vanitas.»

L’oro nei secoli ha avuto più significati simbolici: ha permesso di rappresentare una presenza divina, si è caricato di senso spirituale, ma ha anche assunto aspetti profani e miseri dell’umanità e ha da sempre accompagnato il concetto di regalità. Probabilmente proprio perché è stato il primo metallo ad essere impiegato in così grande misura per la produzione di oggetti destinati ai sovrani, e può rappresentare al meglio la loro potenza e ricchezza: riservato ai regnanti, attestava con la sua presenza la filiazione divina dei monarchi e il potere religioso, politico, economico e sociale.

L’oro è insieme materia e luce: associato alla luce solare, una luce radiante e capace di trasmettere calore, movimento, forza, è un colore pulsante di energia. E’ l'immagine stessa del sole, il simbolo dei principi divini e l’emblema di questa esibizione del potere, di culto della personalità e fastosità, lo troviamo nella Francia del XVII secolo: come il Sole dà luce e moto a tutti i pianeti, così il Re Sole doveva essere la fonte prima e unica del potere, dettando la sua volontà ai ministri e ai loro satelliti, assimilabili ai pianeti che vi ruotavano intorno:

«Scelsi di assumere la forma del sole, il più nobile di tutti gli astri, a causa della qualità unica del bagliore che lo circonda; per la luce che comunica agli altri astri che gli impongono attorno una specie di corte; per la giusta e uguale spartizione di quella luce che distribuisce a tutti i vari climi del mondo; per il bene che fa in ogni luogo producendo incessantemente gioia e attività da ogni parte; per il moto instancabile che realizza pur sembrando tranquillo; e per quel costante invariabile corso dal quale mai devia o diverge. È certo la più vivida e bella immagine di un grande monarca.»

Il colore classifica, crea associazioni, codici, sistemi di segni, rappresentazioni: l’oro in particolare ha lasciato delle tracce nel tempo, è l’elemento concreto che troviamo e che impreziosisce le storie, le eleva e le rende magiche.

Nella mitologia e nel folklore, il colore dorato è il colore della saggezza e delle abilità magiche e come riporta Propp:

«… figura così spesso, così spiccatamente e in tante forme svariate. È una caratteristica così tipica e stabile che la proposizione: «tutto ciò che è connesso col regno lontano può avere il colore dell’oro» è esatta anche invertendone l’ordine: tutto ciò che ha il colore dell’oro tradisce la sua appartenenza all’altro regno.»

 

Kay Nielsen. A est del sole a ovest della luna, 1914.

Antonio Saliola, I giardinieri della luna, 2000.

Tra fiaba e oro ci sono forti, rilevanti connessioni inevitabili, perché la fiaba non riesce a sottrarsi a tesori, scintillio, calore e luccicanza. Le fiabe trasmesse per via orale, raccontate intorno al fuoco e che affondano le loro radici in epoche lontane, sono da considerare come oggetto di indagine attraverso il quale studiare aspetti della società attinenti a saperi, valori, credenze e tendenze. Sono strumento di comunicazione, momento di incontro con l’altro, spazio di condivisione e costruzione di significati.

L’edizione integrale dell’intera raccolta di Fiabe o Märchen dei Fratelli Grimm si apre con Il principe ranocchio o Enrico di ferro:

«Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana. Nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente. E quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito. Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: “Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.” Lei si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme. “Ah, sei tu, vecchio sciaguattone!” disse, “piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte.”»

Parole sfarzose aprono una delle fiabe più famose e stravolte dai posteri, con protagonista un repellente, viscido e perturbante anfibio che vuole essere il compagno di una creatura umana. Ma non di un’umana qualsiasi. Della principessa la cui luce del volto sorprende persino il sole, esperto conoscitore di ogni meraviglia terrestre.

Ci troviamo ad oscillare tra mondi contrapposti e apparentemente inconciliabili: la bella e la bestia, la noia e la palla d’oro, il sole e il bosco nero, la luce e il buio, la superficie e l’abisso, il desiderio e il ribrezzo. L’immaginario fiabesco è imbevuto di ironia e crea un sistema che ordina per opposizione tutto ciò che entra nel racconto: bellezza e bruttezza vanno in coppia.
La principessa è attratta dal perturbante, è solita frequentare d’abitudine uno dei meandri più tenebrosi del regno, il gran bosco tenebroso, che come la selva dantesca, è l’immagine dello smarrimento dell’anima umana, rappresenta la prova in agguato; "il volto che quando brilla stupisce il sole", l’anima che è messa in pericolo dall'esistenza del "bosco tenebroso", tenebre che possono farle smarrire il coraggio e la virtù.

Il terrifico tende a coincidere con tutto ciò che ci disgusta, ci offende, ci spaventa, è un’esperienza emotiva che ci fa traballare, che genera inquietudine, che porta all'Unheimliches. Lo Unheimliches è un sentimento che nasce in ciò che è familiare, ordinario, conosciuto dentro noi, ma allo stesso tempo tenuto nascosto, che ci disturba, ci fa venire i brividi, provoca Unbehagen, disagio, per usare un'altra parola freudiana; letteralmente significa «non-di-casa». Ma non è veramente fuori dalla casa, giace sotto la casa, sepolto dalla pesante architettura di nostre abitudini e credenze.

La principessa si annoia, gioca, solitaria, con una palla d’oro, preziosa e perfetta. 
Possiamo immaginare che la troppa importanza data ad un giocattolo del colore che scalda il cuore, conforta e rassicura, possa essere un rifiuto di crescere, un accenno di immaturità, una sorta di nostalgia della fanciullezza. La palla sfugge dalle piccole mani della principessa e scompare giù nelle profondità della fonte, l’acqua è profonda e profonda come le pulsioni; la palla dorata risucchiata dal fondo dello stagno sembra essere il senso d’interezza che viene perso con il passaggio alla pubertà.

Non si può più tornare ad essere quello che persino il sole ammirava.

Il legame con il passato, con quello che si è stati per tanto tempo, con quello che ha dato forza e sicurezza è sempre forte e presente.

«Santo Cielo, quante cose strane succedono oggi! Che sia stata scambiata,  stanotte? Vediamo un po’: era la solita Alice quella che c’è alzata stamattina? Quasi quasi mi sembra di ricordare che mi sentivo un pochino differente. Ma se non sono la stessa, allora il problema è: chi diavolo sono? 
Ah, questo è il grande indovinello!»

La stessa Alice nel libro di Lewis Carroll, prova un senso di inadeguatezza ed è travolta dall’angoscia che le deriva dal non-riconoscimento di sé: ingrandisce e rimpicciolisce di continuo, si fa piccolina, quasi minuscola, ricresce e ridiventa “normale”.

Mentre per gli adulti il processo di costruzione dell’identità, seppur nel dominio dell’incertezza, è per lo più compiuto, per quanto riguarda i giovani, perdere il senso della propria identità destabilizza: non sapere più chi siamo, non riuscire a riconoscerci, mentre ieri, invece, andava tutto liscio, porta sempre più giù, nella tana del coniglio, profonda quanto la fonte dove è caduta la palla dorata della principessa. Nel pieno del lamento, del rimpianto e della disperazione, Alice riconosce però che tutto quello che le sta accadendo è curioso, è coinvolgente, bizzarro, quasi meraviglioso.

Analogamente alla fiaba di Tremotino, nel momento del bisogno e dello scoraggiamento della figlia del mugnaio, compare il personaggio misterioso che affronta e supera la prova al posto suo: il ranocchio si presenta e viene in aiuto della principessa.

Il ranocchio è portatore di un binomio occulto e misterioso: è sia un principe trasformato, stregato, la cui animalità d’aspetto non spegne del tutto la nobiltà originaria, ma simboleggia anche il sesso maschile e col suo essere stato precedentemente girino, allude ai mutamenti fisici dell’adolescenza ed è vissuto da una vergine come viscido, repellente e animalesco.


Bettelheim commenta: «La fiaba ammettendo che la rana (o quale che sia l’animale in questione) è ripugnante, ottiene la fiducia del bambino, e quindi può ingenerare in lui la ferma certezza che, come essa racconta, a tempo debito questa repellente rana si rivelerà come il più affascinate compagno per la vita.»

Ci è sempre stato raccontato che la principessa deve baciare il ranocchio affinché lui possa diventare principe. Perché bisogna saper andare oltre alle apparenze, le promesse vanno mantenute, non va disprezzato chi ha aiutato nel momento del bisogno ed è importante amare a prescindere, senza egoismi ma con abnegazione e sacrificio. Ma nella versione originale lei non lo bacia, anzi in un momento di collera e disgusto “lo gettò con tutte le sue forze contro la parete.”

La protagonista perde il controllo: pur di riavere la palla dorata smarrita è disposta a cedere i suoi vestiti, le sue perle e i suoi gioielli, anche la sua preziosa corona. Ma non il suo piattino d’oro, il suo bicchierino e il suo lettino di seta a quel ranocchio caparbio, determinato a ottenere quanto gli spetta: «Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete:  “Adesso starai zitto, brutto ranocchio!” Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti.»

Rassegnazione e rancore opprimono la principessa e dopo aver accettato con malcelato disgusto ogni richiesta, il cuore le scoppia di rabbia e infuriata rompe il maleficio con un gesto di inaudita violenza, ma forse, anche più coraggioso di un bacio. La giusta maturazione, la metamorfosi da bambina a donna, avviene parallelamente con la trasformazione del disgusto iniziale in desiderio.

Abbiamo un’evoluzione della principessa, una metamorfosi del ranocchio e una rinascita di entrambi sacrificale.

Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, 1963.

Carll Cneut, La voliera d'oro, 2015.

1.2 Chiome dorate

«C’era una volta la figlia di un Re,


la quale era tanto bella, 


che in tutto il mondo non si dava l’eguale;


e per cagione di questa sua grande bellezza,


la chiamavano la Bella dai capelli d’oro,


perché i suoi capelli erano più fini dell’oro,


e biondi e pettinati a meraviglia


le scendevano giù fino ai piedi.»

È così che inizia la fiaba La Bella dai Capelli D'Oro di Madame d'Aulnoy, tradotta dal francese da Collodi, che trasporta il lettore in un mondo fatato dove un ambasciatore per convincere una principessa a sposare il proprio re, deve superare delle difficilissime prove.
La principessa in questione è oricrinita, radiosa e avvenente, presenta a pennello l’archetipo di bellezza femminile derivante dalla stratificazione di significati, simboli, tradizioni e culture susseguitosi nelle diverse epoche. L’esaltazione della luminosità diventa il principale attributo della bellezza della principessa nelle fiabe.

«Talvolta un eroe fiabesco presenta qualità solari, che possono essere indicate anche soltanto da un piccolo dettaglio, come i capelli d’oro, pur non facendosi cenno ad alcuna protezione da parte di un dio solare determinato.»

Chrysokàrenos “testa bionda”, o chrysokóme “chioma d’oro”, sono frequenti epiteti riferiti ai capelli di umani o Dei che troviamo in tutta l’epoca classica. Platone stesso nella Repubblica ci parla della biondezza come qualcosa di non particolarmente raro nella società dell’antica Grecia e nei tragici d’età classica troviamo una quantità d’eroi e d’eroine dalle chiome dorate: Omero ci racconta le gesta di Achille, biondo come Sigfrido, che da piccolo viene nascosto dalla madre per proteggerlo, viene battezzato col nome di Pirra (da pyrrhòs, cioè color fiamma) a causa dei suoi riccioli dorati.
 Menelao è xanthokómes, mégas en glaukómmatos (biondo, alto e con gli occhi azzurri), Briseide, la sacerdotessa di Apollo, Ermione e Meleagro hanno i capelli del colore dell’oro.
 Elena, la donna più bella del mondo antico per cui si combatte a Troia, è bionda e bionda è Penelope, la moglie di Ulisse nell’Odissea.

Wilhelm Sieglin, storico tedesco, ha ricercato all’interno delle fonti greche in cui si parli del colore degli occhi e dei capelli e dai suoi risultati risulta che 60 divinità hanno capelli biondi, e solo 35 capelli corvini; 140 eroi delle saghe sono biondi e 18 han capelli neri; 41 personaggi poetici sono biondi e 8 sono mori.

È incredibile la quantità di personaggi che troviamo con questi tratti, nonostante le vicende si svolgano in un'area che comunemente viene associata al fenotipo mediterraneo: perché le chiome d’oro, di quel biondo platino quasi bianco di cui sono spesso i capelli dei bambini di pura razza nordica, le bianche braccia, i piedi d’argento, le dita rosate, l’alta statura, sono sempre state in così schiacciante maggioranza nell’immaginario dell’epoca classica?
 I Greci raffiguravano i loro Dei ed eroi come nordici perché la maggior parte di loro era nordica. 
Nel II millennio a.C. le popolazioni di origine indoeuropea penetrarono da nord attraverso i Balcani e si insediarono nell'attuale Grecia, diventando l'élite dominante sulle popolazioni autoctone e portando con loro specifici canoni estetici ideali. Tratti fini e regolari, impronta fiera, modellato energico del naso e del mento che fanno la fisionomia classica, sono così da ricondursi alla razza nordica.

David Sala, La furia di Banshee, 2010.

Gusatv Klimt, Danae, 1908.

I continui riferimenti alla nordicità come ideale di bellezza massimo affondano quindi le radici in tempi molto antichi e giungono fino ai giorni nostri praticamente inalterati.

«E c’erano stirpi bionde, venute dalle regioni del nord, le orde doriche e in particolare gli Spartiati, rigorosamente separati dal popolo, che dovettero serbare a lungo caratteri nordici. […] E anche la grande Athena Parthenos che sorgeva accanto al Partenone era bionda. “Oh, mia dea bionda, capelli d’oro e occhi d’arcobaleno, tu che sei fuoco, sole e colore del grano”»

Come la dea glaucopide Athena viene immaginata dai tratti nordici, Afrodite viene ritratta pura e perfetta come una perla anche da Sandro Botticelli, più tardi nel Quattrocento: La nascita di Venere è il manifesto dell’arte rinascimentale italiana, considerata il canone della bellezza femminile nell’arte. Nata dalla spuma del mare, la dea copre la sua nudità con i lunghi capelli biondi, i cui riflessi di luce sono ottenuti tramite l’applicazione di oro.

«O Musa, dimmi le opere di Afrodite d'oro,


dea di Cipro, che infonde il dolce desiderio negli dei


e domina le stirpi degli uomini mortali,


e gli uccelli che volano nel cielo, e tutti gli animali,


quanti, innumerevoli, nutre la terra, e quanti il mare»

E Apollo, dio della bellezza, è phoibos, “luminoso, raggiante”, immaginato con riccioluti capelli biondi contornati talvolta da raggi dorati, poiché è rappresentante del sole stesso.
 Nella storia ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio, Daphne (nome greco della pianta d’alloro), sfugge dal focoso Apollo, che corre nel bosco per ghermirla; nel momento in cui il dio la raggiunge e sta per abbracciarla prega il padre, Peneo, e inizia a trasformarsi in un albero di alloro, che da quel momento diverrà albero sacro del dio.

La pianta sempreverde dalle foglie lanceolate presenta tratti fortemente simbolici: è prodigiosa perché non si piega ai cicli delle stagioni, alla morte apparente dell’autunno-inverno, è simbolo di immortalità, gloria immortale, non caducità.

Aulo Gellio testimonia che prima del passaggio all’uso di manufatti d’oro, il comandante dell’esercito dopo la vittoria, oppure l’imperatore, veniva incoronato con le corone di alloro.
 La chioma dorata era quindi considerato un simbolo di divinità ultraterrena, infatti molti imperatori romani usavano anche tingere o cospargere i propri capelli d'oro: il biondo era uno stato artificiale, da raggiungere con sforzo e pazienza, qualcosa di astratto e sublime, un’idea più che una chioma.

Successivamente, nel gran guazzabuglio di feudatari, castelli, congiure, guerre e matrimoni, monaci e santi, il dolce stilnovo (e ancor prima la poesia trobadorica), continua a celebrare le chiome dorate come modello univoco di bellezza femminile: il topos della virtù della donna bionda diventerà una costante nella letteratura, non solo come sinonimo di bellezza, ma anche di qualità come nobiltà d’animo, rettitudine, santità.

I capelli d’oro sono il simbolo della donna angelo, l’icona della donna idealizzata nel dolce stilnovo, costituisce una sorta di bazar delle meraviglie, il luogo ideale di fascinazione per i poeti. I capelli dorati per eccellenza sono quelli di Laura, la donna ideale elogiata da Petrarca: mossi dal vento che li avvolge in mille nodi, sono prolungamento e manifestazione esteriore della loro natura divina.

«Erano i capei d’oro a l’aura sparsi


che ’n mille dolci nodi gli avolgea,


e ’l vago lume oltra misura ardea


di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi.»

L’aura e la donna sono la stessa cosa.

Non abbiamo indicazioni precise sull’aspetto degli angeli, ma le raffigurazioni dell’epoca ce li mostrano prevalentemente biondi e tutte le immagini luministiche utilizzate per descrivere l’aspetto della donna amata, esaltano l’inatteso dell’apparizione e la elevano a figura trascendentale, oltreumana, angelicata.

Durante l’indimenticabile sequenza del capolavoro di Tim Burton, Edward mani di forbice, vediamo la metamorfosi di Kim, cheerleader superficiale, bionda, bellissima e velenosa come una vipera, trasformata in angelo. Kim danza tra i fiocchi di ghiaccio come un angelo caduto dal cielo, la gran massa di morbidi capelli dorati le incorniciano il volto dall’espressione estasiata e la sequenza è estraniante tanto quanto la neve nel bel mezzo della Florida.

«Kim, vestita con un abito bianco, danza sotto la neve mentre Edward scolpisce nel ghiaccio la rilucente effige di un angelo. La ragazza volteggia sulle note di un crescendo musicale sempre più incisivo, mentre candidi frammenti di ghiaccio le si posano leggeri sul volto e sulle mani. La cinepresa le gira intorno, mantenendo un’angolazione bassa in modo che la sua figura si stagli sullo scenario che scorre dietro di lei: prima una siepe a forma di tirannosauro, che rappresenta l’ingenuo mondo di Edward, poi l’angelo di ghiaccio. Al termine del travelling l’angelo occupa la parte superiore dello schermo, come una proiezione della ragazza. L’identificazione è compiuta, Kim è divenuta il ritratto della donna angelicata e sublime, oggetto dell’amore innocente di Edward. Un amore puro, dunque.»

Da fanciulla bella, perfetta, popolare, dall’aria severa, la vediamo ribellarsi alle etichette imposte da quella società fatta di sola apparenza e facciata; comprende il diverso e tratta Edward da essere umano e non da androide. La fiaba di Tim Burton ci mostra una fanciulla angelica che riesce ad andare oltre le lame di Edward, il cupo e l’amore diventano due facce della stessa medaglia.

Il topos della donna bionda e virtuosa diventa una costante dell’immaginario e nel corso del tempo vengono concepite nuove concettualizzazioni dei personaggi femminili orocriniti: la Sinforosa di Calvino è capricciosa e deliziosamente prepotente, raffinata e inquieta, bella e brillante: «Il cavallo aveva in sella un cavaliere, nerovestito, con un mantello, no: una gonna; non era un cavaliere, era un’amazzone, correva a briglia sciolta ed era bionda.»

Ed era bionda, come se fosse impossibile che una chioma bionda possa generare energia, provocare sommosse, rappresentare la forza, la cocciutaggine, la ribellione.
 La letteratura per l’infanzia è piena di personaggi magnetici e rivoluzionari, che si rivoltano alla banalità e si piantano nella mente di chi sogna proprio perché inzuppate del fascino di chi si sa mettersi di traverso. Nel romanzo di Salgari Le tigri di Mompracem, troviamo la descrizione della fanciulla dai capelli dorati, intrepida, bella e coraggiosa, che aveva fatto battere il cuore della formidabile Tigre della Malesia: «Era tuttora appassionata delle armi e degli esercizi violenti, e ben spesso, indomita amazzone, percorreva i grandi boschi, inseguendo perfino le tigri, o intrepida nuotatrice, si tuffava nelle azzurre onde del Mare Malese; ma più sovente si trovava là ove la miseria o la sventura infierivano, recando soccorsi a tutti gli indigeni dei dintorni, a quegli indigeni che lord James odiava a morte, quali discendenti di antichi pirati.»

Protagoniste bionde come la Perla di Labuan, Violante d’Ondariva, la bella Vassillissa, l’eccentrica Stargirl Caraway e la scontrosa e solitaria Mary, sembrano evocare qualità tutt’altro che angeliche e idealizzate.

Non è difficile trovare paragoni e similitudini con le amazzoni greche o con le algide valchirie, donne combattenti nordiche che esistevano nel folklore e nella mitologia scandinava: la skjaldmær, un termine norreno che viene spesso tradotto con la parola inglese shieldmaiden (“vergine scudo”) ovvero una donna che aveva scelto di combattere come un guerriero affiancando gli uomini nelle guerre e nei saccheggi.

Citata spesso nelle saghe nordiche troviamo Lagertha, figura semi-leggendaria e shieldmaiden menzionata dallo storico Sassone Grammatico autore delle importanti Gesta Danorum, che sarebbe stata una famosa guerriera originaria della Norvegia. Diventata celebre ai giorni nostri grazie alla serie televisiva canadese/irlandese Vikings, è la moglie del protagonista Ragnarr Loðbrók e la vediamo spesso con i capelli acconciati in lunghe trecce intricate, che riflettono il carattere e lo status sociale della donna.

La Storia ci ha tramandato il ricordo di numerose donne guerriere, vissute realmente, e spesso anche in epoche e contesti già ampiamente cristianizzati, ma la percezione dei capelli biondi ha assunto un significato diametralmente opposto nel corso del tempo.

Secondo il critico letterario russo Michail Bachtin, c’è un meccanismo che spiega come un genere letterario viene superato non appena diventa oggetto di parodia e riso: quando una particolare visione del mondo proposta dalla letteratura viene percepita vecchia e abusata, si rovescia.
E così la donna virtuosa e angelica dalle divine trecce dorate di Petrarca diventa la parodia di sé stessa: il modello perde la sua forza, la donna angelicata è talmente immersa nel suo mondo ultraterreno da perdere contatto con la realtà e logori pregiudizi e antiche ossessioni vengono a galla dopo ottocento anni di letteratura.

Arriviamo quindi al pregiudizio molto radicato nella nostra società attuale: stupidità, frivolezza e promiscuità sessuale sono le caratteristiche della donna bionda oggi.
Il pregiudizio della donna bionda e svampita si fa risalire con l’avvento del Novecento, delle tinte ossigenate e del cinema, a Lorelei Lee, l'ironico personaggio interpretato nel 1953 da Marilyn Monroe nel film Gli uomini preferiscono le bionde.

È una delle prime icone di donna dai capelli dorati superficiale, volubile e capricciosa, facendo di Marilyn Monroe, che era in realtà castana, una fortuna e una condanna. 
Non solo Marilyn, ma anche il colore dei capelli di Jayne Mansfield, Brigitte Bardot, Pamela Anderson, Anna-Nicole Smith si trasforma in un banale appiglio per giungere a conclusioni affrettate e poco lusinghiere riguardanti la loro persona. Lo stereotipo dorato ancora oggi radicato si è sdoppiato in due facce opposte della medaglia, in santo e profano, donne angelo e svampite ossigenate della vecchia Hollywood.

Jessie Willcox Smith, Mother and Child, 1908.

Riferimenti bibliografici dei brani citati

Saggistica

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Narrativa

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  • Salgari, E. (2003). Le tigri di Mompracem. Firenze: Giunti.


Filmografia

  • Burton, T. (1990). Edward mani di forbice. USA
  • Hawks, H. (1953). Gli uomini preferiscono le bionde. USA
  • Hirst, M. (2013 – in produzione). Vikings. Canada/Irlanda

Sitografia

Doppiozero