La prima volta che ho sentito parlare Antonella Agnoli a proposito di biblioteche è stato durante un Festival Minimondi, a Parma, parecchi anni fa. Rimasi colpita dalla sua chiarezza di idee, dall'originalità del suo pensiero e dalla forza con cui lo esprimeva. La stessa impressione l'ho avuta quando sono andata ad ascoltarla, lo scorso novembre, alla Biblioteca Pertini, a Cinisello Balsamo. O meglio alla Piazza del Sapere Pertini, come è definita: nome mutuato da Le piazze del sapere, celebre saggio di Antonella Agnoli, uscito nel 2009 per Laterza, che riconfigura l'importanza e il ruolo centrale delle biblioteche nel nostro tempo, progettate come imprescindibili luoghi di scambio sociale e culturale.
L'incontro a cui ho assistito si intitolava La biblioteca che vorrei, che poi è anche il titolo del libro che Agnoli ha pubblicato nel 2014, sempre a tema biblioteche. Era la prima volta che mettevo piede al Pertini e sono rimasta stupefatta. Un luogo bellissimo, dentro e fuori, fatto di spazi grandi e accoglienti. Inaugurato il 21 settembre 2012, il Pertini si estende su 5.000 mq e su quattro piani, conta 520 sedute, una sala studio, tre aule per laboratori e corsi, un auditorium di 176 posti e una sala incontri.
Antonella Agnoli, che di questo progetto è stata consulente, di questo luogo nel suo libro, scrive: Tra le molte eccezioni [nel contesto italiano ndr], merita di essere citato il processo sociale, politico e tecnico che ha portato l’amministrazione di Cinisello Balsamo, ancora 14 anni fa, a investire una somma enorme per un comune di 75.000 abitanti, 12 milioni di euro per una nuova biblioteca. È una città che ha avuto il coraggio di avere una visione di lungo periodo, un progetto che si è inserito nella trasformazione di un’agglomerazione a forte vocazione operaia e ora, dopo la chiusura delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, in cerca di una nuova vocazione anche rispetto alla vasta area metropolitana. Cosa portare in dote, su cosa puntare per creare coesione sociale, per dare dignità ad un territorio cresciuto sull’immigrazione, all’ombra delle grandi fabbriche? Un museo, una villa con grande parco e una biblioteca di 6.622 metri quadri complessivi, di cui 5.027 al pubblico, una delle più grandi d’Italia in rapporto alla popolazione residente. Quello che appunto manca al nostro paese è la capacità di avere visioni lunghe, di progettare guardando al futuro della città.
Mi sono fatta l'idea che Antonella Agnoli sia una persona con poca pazienza e facile ad annoiarsi. E desiderosa, pertanto, di evitare al suo prossimo noia e perdite di tempo. La sintesi, l'incisività, la precisione che connotano il suo modo di scrivere e di parlare rappresentano una formula poco praticata, ma benedetta, di altruismo. Durante l'incontro al Pertini, mentre la ascoltavo, pensavo che le caratteristiche che enumerava come fondamentali per le biblioteche di oggi, valgono per ogni entità, istituzionale e imprenditoriale, che si prefigga di fare cultura. Per esempio, nel caso della filiera del libro, oltre che le biblioteche, le librerie e gli editori. Perché, a ben vedere, oggi il compito di chi fa cultura, che si sia bibliotecari, librai, editori, non è più e solo, e semplicemente, vendere, prestare o fare libri, ma organizzarsi, trasformarsi, riconfigurarsi e agire per diventare centri aggregatori e catalizzatori di idee, interessi, attività, scambi umani (e le nuove tecnologie offrono un supporto e un terreno ideali, in questo senso, come indica, e auspica, Marino Sinibaldi in Un millimetro in là. Intervista sulla cultura).
Perché come non si stanca di sottolineare Antonella Agnoli nei suoi libri, il compito di chi oggi fa cultura è mettere al servizio della comunità e del territorio le proprie competenze intellettuali e culturali; realizzare una informazione accessibile, puntuale e diffusa che permetta di accedere ai saperi e alle conoscenze; selezionare e diffondere informazioni che consentano alle persone più diverse per età, censo, esperienza, provenienza, di orientarsi nel presente, in ambito culturale, sociale, lavorativo, familiare; progettare e creare occasioni di scambio di esperienze e conoscenze che favoriscano la formazione e la crescita; monitorare costantemente, con apertura, sensibilità, curiosità, il contesto umano in cui si è calati per intuirne e coglierne le potenzialità, le esigenze, allo scopo di metterle in moto e valorizzarle.
Questo lavoro prezioso, costante e approfondito di mediazione, selezione, comunicazione, aggregazione, condivisione, informazione, ricerca e canalizzazione di energie, conoscenze ed esperienze, è l'azione fondamentale che caratterizza imprese e istituzioni che operano nel campo della cultura, e oggi determina la loro vitalità e il loro stato di salute. Chi non affronta questo cambiamento, e pensa di rimanere legato ai ruoli e alla fisionomie del passato, oggi non ha futuro.
Insomma, sono entrata al Pertini convinta che avrei sentito parlare di biblioteche e sono uscita con una idea molto più chiara e precisa su un sacco di altre cose, compreso il mio lavoro di editore. Di questo sono grata alla relatrice che ha reso espliciti concetti e idee impliciti nel nostro modo di operare e sviluppare la casa editrice (un grazie per questo anche all'amico che mi ha coinvolto in questa serata, Maurizio Di Girolamo, direttore della Biblioteca di Ateneo dell'Università degli Studi Milano Bicocca).
Nel libro di Antonella Agnoli La biblioteca che vorrei, agile, rapido, incisivo e denso, tutti questi temi sono trattati con dovizia di informazioni e dati (Agnoli unisce allo slancio ideale un provvidenziale amore di concretezza). Vi proponiamo un capitolo del libro: La biblioteca nell’economia della cultura, ringraziando Antonella Agnoli per averci permesso la sua pubblicazione.
Biblioteche, musei, scuola e università: manifestando un’incompetenza difficile da credere, i politici che ci hanno governato negli ultimi 20 anni hanno dimostrato una decisa ostilità, o al più una marcata indifferenza, verso la cultura, la formazione, la ricerca. Tutto ciò che contribuisce a fare dell’Italia un paese moderno (e non ancora ridotto come la Grecia) è stato considerato un costo, penalizzato, avvilito [Arpaia, Greco 2013]. “Sembra che i politici siano impermeabili al messaggio (…) che il Paese può ricominciare a crescere solo se saprà mettere in atto una complessiva «ricostruzione mentale» che ponga al centro degli assetti decisionali i saperi, le competenze e le eccellenze di cui non siamo carenti” [Massarenti 2014].
La verità è che, nel mondo in cui viviamo, l’economia della cultura non solo conta ma è uno dei pochi settori in cui l’Italia avrebbe qualche chance di competere: già oggi dà lavoro a 1,5 milioni di persone. Il design, la moda, la gastronomia sono beni simbolici oppure no? E se sono beni simbolici, come possono essere costruiti se non attraverso processi culturali? E questi processi culturali nascono sugli alberi o sono il frutto di un ambiente che li stimola, di un ecosistema? La biblioteca è uno snodo, oggi molto sottoutilizzato, di questo ecosistema.
Molti economisti hanno lavorato sulla questione [Caliandro, Sacco 2011] ma qui mi limiterò a citare un rapporto della fondazione Symbola che mi pare particolarmente signi-ficativo. Oggi, scrivono gli autori del rapporto, “le componenti esperienziali e relazionali sono alla base dei social network, i quali a loro volta rappresentano oggi le piattaforme più efficaci e propulsive dei flussi di comunicazione tra gli individui. Una serie di flussi che potenzialmente [si possono] manifestare in forme di apprendimento collettivo” [Unioncamere, Symbola 2011, p. 25]. Qui la parola chiave è “potenzialmente”: Facebook e Twitter possono essere usati per organizzare una social street, una marcia in difesa dell’ambiente, una manifestazione politica. Oppure per cazzeggiare, naturalmente. Che si vada in una direzione oppure nell’altra dipende dal buon funzionamento del sistema-paese, e in particolare dell’ecosistema scuola-biblioteche-teatri-cinema-editoria-università.
Questo apprendimento collettivo non ha solo un valore per la qualità della vità e per la buona salute democratica del paese: da esso dipende “il sapere localizzato come fattore di competitività territoriale. Tale importanza diviene fondamentale se si accetta il fatto che determinati sistemi culturali e creativi (di scambio, produzione e consumo) hanno un ruolo territorializzante, vale a dire distinguono uno spazio geografico dall’altro, in termini anche competitivi” [ibidem].
In altre parole, l’Italia si distingue dalla Russia o dalla Cina, perché esiste una dimensione culturale dei prodotti italiani che “si riverbera per esempio sulla percezione dell’intero sistema produttivo nazionale, stimolandone la domanda sui mercati esteri, traducendosi in consistenti flussi turistici rivolti verso il nostro territorio e le nostre città d’arte” [Unioncamere, Symbola 2011, p. 40]. Essere il paese di Leonardo e Michelangelo non basta: occorre creare nel mondo la percezione che oggi siamo in grado di creare borse più belle, vini più buoni, lampade più eleganti. E questi prodotti di consumo non nascono per caso: nascono attingendo all’immenso serbatoio di bellezza che ci circonda e lavorando con le tecnologie disponibili per valorizzarlo.
Come è possibile che i musei della Ruhr tedesca abbiano il doppio dei visitatori annuali di Pompei? Ciò può accadere solo perché il sistema politico italiano ha dimostrato la propria totale incompetenza nel gestire la cultura negli ultimi 20 anni. Occorre lavorare su tutte le articolazioni del sistema scuola-cultura-formazione-ricerca e, in quest’ambito, non considerare le biblioteche rinnovate un costo ma un investimento: “Oggi tutte le maggiori economie, a livello europeo stanno elaborando e applicando strategie ambiziose e sofisticate, in termini di politiche economiche industriali, per il settore culturale e creativo” [Unioncamere, Symbola 2011, p. 27]. Anche in Italia lo Stato deve fare la sua parte investendo, invece di tagliare.