La cultura dei bambini. Per un uso ludico della pedagogia

Il post che oggi vi proponiamo è la sintesi di un'articolo scritto da Claudia Souza nel 2006 per il sito brasiliano Psicopedagogia Online. L'articolo è scritto per un gruppo di educatori che iniziavano la loro formazione in Sociologia dell'Infanzia presso un centro di cultura per bambini fondato da Claudia Souza e da lei diretto in Brasile per 10 anni: CLIC, Centro Ludico di Interazione e Cultura.. Nel 2007 l'articolo è stato tradotto e pubblicato sul sito dell'Associazione ProgettoQualeGioco. Lo pubblichiamo perché ci è parso interessante e perché, come dice Claudia, c'è ancora molto da fare per cambiare i paradigmi dell'educazione. Le immagini che corredano il post sono della ricercatrice in psicopedaogia e fotografa brasiliana Selma Maria, e sono state esposte nel corso della mostra Meninos Quietos.

[di Claudia Souza, scrittrice e sociologa con specializzazione in psicopedagogia, art, educazione e linguistica]

Il pensiero complesso è caratteristico del bambino, e plasma fortemente la sua cultura, e solo una educazione pragmatica, utilitarista e specializzante può spiegare la sua perdita e un avvicinamento alla logica e al modo di ragionare della maggioranza degli adulti.
Una delle grandi novità portate all'educazione dalla ricerca dell'epistemologo svizzero Jean Piaget è l'assunto, dopo di lui incontestabile, che il pensiero infantile è qualitativamente differente da quello dell'adulto. Questa differenza emerge principalmente nella predominanza di una concezione ludica della realtà.
Il mondo esiste per i bambini nella misura in cui è possibile giocarci, traendo dagli oggetti piacere e armonia. Il gioco sarà, allora, la forma d'interazione per eccellenza del bambino con ciò che lo circonda; senza il gioco non esistono le condizioni affinché questa interazione avvenga.
Questa premessa è oggi accettata dalla maggior parte degli educatori. Tuttavia, l'uso che ne fa la pedagogia è, a mio avviso, a senso unico. La pedagogia moderna pretende di stabilire un "uso pedagogico" del gioco, del divertimento, del ludico.

Ormai è diventato un cliché della pubblicità educazionale lo slogan “imparare, giocando”. Le scuole sono sempre piene di giochi e giocattoli che hanno la finalità di far acquisire abilità e, nella migliore delle ipotesi, aiutare nella costruzione di concetti (quelli chiamati giocattoli pedagogici). L’uso pedagogico del gioco può essere visto come un’evoluzione dentro un contesto educazionale che non lasciava neanche entrare il ludico a scuola, ma il fine della pratica pedagogica sembra ancora, nonostante questa evoluzione, la cultura dell’adulto che deve per forza essere insegnata, trasmessa.
Quasi mai ci si affaccia verso la conoscenza e la cultura del bambino stesso, sul vero fiume di conoscenze che ogni bambino sa tessere nel mondo, qua e là e che, rispetto alla tela culturale dell’adulto, fa più fatica a essere riconosciuta e identificata come cultura.

I moderni educatori conoscono e si interessano alle differenti aree di conoscenza (diventano più generalisti, difendono e divulgano l’interdisciplinarità), cercano di informarsi su tecniche e strutture riguardanti differenti contenuti nell’intenzione lodabile di trasmettere ai bambini una didattica più ludica e piacevole, ma sono davvero pochi quelli che si interessano alle singolarità delle esperienze dei bambini.
Io ritengo che l’educazione debba riscattare la cultura del bambino, senza inglobarla nella pedagogia e senza trasformarla in metodo pedagogico: ascoltare i bambini, andare verso un’altra prospettiva, educare secondo due vie intercorrelate, realizzare l'incontro di due mondi in cui né uno né l'altro deve prevalere.
Se per il bambino è fondamentale acquisire la cultura dell'adulto, per l'adulto è ugualmente importante non lasciare spegnere il bambino possibile dentro di sé.

L'ambiente post moderno non favorisce la ludicità, l'infanzia. Le persone più giovani sono ormai precocemente portate all'universo adulto: i bambini sono sempre meno bambini. Il risultato di tutto ciò è un aumento dell'aggressività, dei comportamenti tirannici e soprattutto angosciati.
In relazione agli adulti, il quadro è simile. Pochi di noi affrontano la vita in modo leggero, ludico. Qualche artista forse. La maggioranza è in preda allo stress e alla continua ricerca di informazioni, come se fossimo fatti di notizie e di conoscenze. Dietro tutto questo c'è una competizione senza freni per acquisire posizioni di potere e maggiori occasioni di consumo; forse siamo consapevoli di questo, però non riusciamo a essere in altro modo.

Interessarsi alla cultura dei bambini potrebbe contribuire molto a cambiare i nostri obiettivi.
Parlare di gioco, di creazione, di una cultura dei bambini suona stonato alle nostre orecchie: “Ma come? - argomentano alcuni- in un mondo competitivo come il nostro i bambini hanno bisogno di essere guidati, informati, allenati, non c'è tempo per  giocare liberamente”.
Certo, l’informazione serve, ma solo con un aiuto a elaborarla i piccoli imparano come selezionare dati e interpretarli efficacemente. Compito relativamente semplice per un operatore ben formato.
Invece, la priorità è il gioco: “in un mondo competitivo come il nostro” le persone hanno molto più bisogno di formazione che di informazione, persino per gestire in modo sereno la competitività senza diventare il tipo comune di adulto a cui siamo abituati.

Il bambino si forma come essere umano completo solo se vive a contatto con proposte ludiche.
Lo scrittore brasiliano Daniel Munduruku (Cose da Indio, Callis), scrive, a proposito dell’educazione dei popoli indigeni, che: “L’educazione per noi accadeva nel silenzio. I nostri genitori ci insegnavano a sognare con quello che desideravamo. Ho capito allora che educare è far sognare. Ho percepito che nella società indiana educare è strappare da dentro a fuori, far sbocciare i sogni e qualche volte ridere del mistero della vita”.
Nei bambini occidentali post moderni i sogni rimangono intrappolati senza trovare il tempo per uscire; i bambini occidentali non hanno tempo per sognare.

In termini propriamente educazionali, che cosa significa adottare la cultura dei bambini come prospettiva maestra di azione?
In primo luogo, accettare serenamente l'idea che la scuola non è il posto per eccellenza dell'apprendimento. Molti degli apprendimenti significativi avvengono fuori dalla scuola, e molti bambini imparano malgrado la scuola. La maggioranza degli educatori che condividono l'idea dell'esistenza di una cultura dei bambini non stanno dentro le aule, ma nelle strade, sui palchi, nei libri, nelle biblioteche, nei musei... Da qui l'importanza, per chi ha voglia di iniziarsi a questa “arte di far sognare”, di cercare queste persone per imparare con loro nuove strategie, nuovi atteggiamenti, nuove posture.
In secondo luogo, tanto importante come la prima idea, sarebbe avere una predisposizione all'osservazione costante, non soltanto dei bambini, ma di tutto e di tutti. Osservando in modo attivo, partecipato e interessato riusciamo a costruire le nostre più forti astrazioni. E che cos'è l'interazione se non la possibilità di comprendersi l'uno con l'altro?

Osservando i bambini, si percepisce lo spirito ludico e da qui si arriva al terzo punto: avere la possibilità di immergersi completamente nel gioco, e nella poesia e l'armonia da esso generate. Non parlo di spontaneismo e/o permissività: lo sforzo e la sfida sono condizioni fondamentali del gioco, insieme alla ricerca di piacere che lo caratterizza. Il gioco non si esaurisce in un piacere immediato, ma è un piacere prolungato, in funzione del coinvolgimento genuino nell'attività ludica, di quella sensazione di completezza che accompagna solo le cose significative e autentiche dell'esistenza.
Convivere con lo spirito ludico è giocare con la vita, creare catene di relazioni tra i diversi eventi, tessere in continuazione una tela immaginaria, collegando e scollegando i fatti come in una narrazione. È anche diventare “ contrabbandiere di saperi” (Gilles Deleuze).

Alcuni titoli per apprfondire l'argomento:
Edgar Morin, Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Armando editore, 2004;
Jean Piaget, La formazione del simbolo nel bambino, La nuova italia, 1979;
Marcello Bernardi, Ascoltare i bambini, Fabbri editore, 2003; Educazione e libertà, Fabbri editore, 2002;
Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, Ed. Tea;
Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, 2002.