Qualche tempo fa, sulla pagina Facebook di Carmen Covito, scrittrice, traduttrice ed esperta di cultura giapponese, ho scoperto questo libro, dedicato a un oggetto noto nella tradizione dell’artigianato giapponese: le bambole kokeshi.
Le impressioni che riceviamo da bambini rimangono indelebilmente nella memoria, e io ho incontrato due kokeshi durante la mia infanzia. Abitavano su uno scaffale alto di una libreria di una casa da me molto frequentata, quella delle mie cugine. Erano di legno chiaro, uno con decorazioni nere; l’altro, rosse. Mi parevano bellissimi e mi colpivano soprattutto per una ragione: li annettevo al grande regno del gioco, ma all’interno di questo le avevo assegnate a quella regione misteriosa e aristocratica a cui talvolta i giocattoli assurgono per nobiltà e preziosità. Ovvero, giochi che riproducono le cose del mondo in miniatura, ma il cui possesso spetta agli adulti. Infatti, le due ‘bambole’ non erano alla nostra portata, ma ci fissavano ieratiche da uno scaffale che non potevamo raggiungere né mai, che io ricordi, qualcuno ce le mise fra le mani. Probabilmente anche per questo, oltre a un interesse nei confronti dell’immaginario giapponese soprattutto legato all’infanzia, il libro ha attirato la mia attenzione e mi è sembrato interessante parlarne sulle pagine di questo blog.
Quando ho ricevuto e mi sono messa a leggere Kokeshi. Il Tōhoku fra tradizione e design, a cura di Virginia Sica, Rossella Menegazzo, Carmen Covito, edito da Scalpendi nel 2020, mi sono resa conto che in qualche modo la mia percezione infantile non era poi così lontana dalla verità. In quarta di copertina, infatti, i kokeshi sono, a scanso di equivoci, definiti come “piccole sculture in legno dipinte dall’aspetto di bambola che sono considerate l’emblema culturale della regione del Tōhoku, nel nord-est del Giappone” oppure, in modo ancora più neutro, da Rossella Menegazzo: “un oggetto in legno dalla forma cilindrica, semplificata, tradizionalmente lavorato a mano e dipinto in policromia con sembianze femminili”. Insomma: bambole, ma non proprio.
La loro origine, infatti, rimane tutt’ora avvolta nel mistero e diverse ipotesi sono state fatte in proposito. Forse nascono come giocattoli, ma forse come amuleti, forse come souvenir, ma forse come oggetti legati a riti domestici e non. E, appunto, Cose a forma di bambola si intitola il contributo di Carmen Covito al volume e tratta della variegata e fascinosa tradizione giapponese delle ‘bambole’ non bambole (spesso legate a riti di purificazione o a feste e cerimonie che hanno a che vedere con i bambini) di cui i kokeshi fanno parte.
L’impressione, osservandone le qualità estetiche (cosa che è possibile fare grazie al nutrito apparato fotografico del volume), anche molto diverse fra loro a seconda dei periodi e dei diversi artigianati a cui appartengono, è che in essi si fondano diverse nature e che a questa ricca e ibrida fisionomia si debba il successo che hanno conosciuto in tutto il Giappone, oltrepassando i confini della area geografica d’origine, e arrivando a incarnare valori e tradizioni di tutto il Paese, pervadendone la cultura. Kokeshi, infatti, sono entrati in fiction di clamoroso successo, musica pop, speciali televisivi, poesie, e naturalmente nel flusso di social e blog, e in un merchandising che le propone riprodotte sugli oggetti più disparati, come spiega bene Andrea Maurizi nel capitolo La forza evocativa della tradizione folclorica del Tōhoku.
Gruppo di kokeshi da una collezione privata (foto di Karin Vettorel, Milano).
La bellezza di questi oggetti, intorno a cui nel tempo si sono sviluppate dodici scuole di fabbricazione e famiglie di artigiani tutt’ora attive, è stata traghettata, come è accaduto a diverse altre cose giapponesi, dalla tradizione alla contemporaneità dal lavoro di reinterpretazione di artisti, illustratori e designer non solo a livello nazionale, operazione che ha trasformato il significato, l’uso e la destinazione dei kokeshi, da manufatti folkloristici a creazioni concettuali, veri e propri simboli culturali, protagonisti di eventi, mostre, performance. Di questo aspetto si occupa in particolare il capitolo di Rossella Menegazzo, Riconsiderazioni contemporanee sui kokeshi tra arte popolare, artigianato e design.
Per quanto mi riguarda, leggendo di questi oggetti, della storia e della cultura della regione da dove provengono, il Tōhoku, descritto accuratamente da Virginia Sica in Il Tōhoku e la tradizione rurale. Eredità storiche, artigianali e rituali, mi è parso di ritrovare i lineamenti di una fisionomia conosciuta attraverso altri saggi, romanzi, articoli sul Giappone: una identità da una parte fortemente connotata (che sugli occidentali non manca di esercitare il proprio fascino esotico); dall’altra, una qualità sfuggente, ambigua, contraddittoria, stratificata, che non si lascia facilmente definire e comprendere, se non a costo di semplificazioni. Mi sarebbe molto piaciuto visitare la mostra realizzata sui kokeshi nell’aprile del 2019 al MUDEC-Museo delle Culture di Milano, di cui questo volume è il seguito, realizzato in collaborazione da The Japan Fundation e Università degli Studi di Milano. Ma purtroppo l’ho persa. Suggerisco agli amanti, come me, di cose attinenti all’immaginario infantile, al gioco, alle tradizioni e ai simboli che toccano i bambini e i loro mondi – ancora più lontani del Giappone -, di non perdere questo bellissimo volume.
Ringrazio l'editore e le autrici del libro di averci permesso la pubblicazione del seguente brano, tratto dal capitolo Viaggio tra i kokeshi del Tōhoku di Maria Teresa Orsi.
«[…] A partire all’incirca dal 2011-2012 si è profilato in Giappone un nuovo fenomeno: il boom delle cosiddette kokejo, una parola coniata, come spesso succede in Giappone, comprimendo due termini per ricavarne uno solo, più breve, immediato, fruibile: in questo caso, kokeshi joshi (kokeshi, le “bambole” di legno, minimaliste, colorate a mano in una codificata ma pressoché infinita variazione di rappresentazioni formali, e joshi, ragazza, donna). Possiamo così tradurre kokejo come “ragazza kokeshi”, ragazze o giovani donne (pare che la media sia sui trent’anni di età) appassionate di questi oggetti, un hobby che invece almeno fino a una trentina di anni fa sembrava attirare di più il pubblico maschile: le kokejo collezionano i kokeshi, partecipano a tutti i possibile eventi dove essi compaiono, vanno nei principali luoghi di produzione per conoscere negozi e artigiani e per sperimentare un rapido workshop, ma soprattutto creano e partecipano attivamente, tramite i vari social, blog, instagram, twitter, alla diffusione di una serie infinita di gadget ad essi ispirati, da quelli più collaudati (ventagli, piccoli asciugamani, ombrelli, apribottiglia, grandi lampadari di carta, portachiavi), fino ad accessori per i telefonini, guanti, fermagli per i capelli, borse e borsette. Le kokejo hanno quindi contribuito e stanno contribuendo in modo consistente a quello che è stato definito il “terzo boom” dei kokeshi, risalendo il primo agli anni Quaranta e il secondo agli anni Sessanta-Settanta del Novecento.
Oggi, più o meno diffusi ovunque nei negozi di souvenir, talvolta trasformati in semplici omiyage da comprare frettolosamente e da portare in ricordo ad amici e parenti, e di conseguenza erroneamente considerati, soprattutto al di fuori dai confini del Giappone, come oggetti di scarso fascino, hanno invece una valenza culturale ed estetica tutt’altro che trascurabile. Sono in genere raggruppati in tre grandi categorie: i kokeshi tradizionali (dentō kokeshi, 伝統こけし), rigorosamente prodotti nell’ampio territorio nel nord-est della principale isola del Giappone, il Tōhoku, da artigiani addestrati secondo un apprendistato riconosciuto, creati con il tornio, dipinti e completati a mano secondo forme e disegni tramandati da generazioni. Sono divisi in dodici grandi gruppi o famiglie (kei, 系), i cui nomi per lo più sono quelli dei luoghi di origine: in buona parte concentrati nelle tre grandi provincie di Fukushima, Yamagata e Miyagi, hanno come centri principali gli onsen di Tsuchiyu, Naruko e Tōgatta.
Ai kokeshi tradizionali si affiancano i “nuovi kokeshi” o “kokeshi di nuova forma” (shingata kokeshi, 新型こけし), nati nell’ultimo dopoguerra e prodotti su vasta scala. La struttura, i disegni e i colori vengono decisi su base individuale, senza un preciso rapporto con la tradizione. E infine i “kokeshi creativi” (sōsaku kokeshi, 創作こけし), anch’essi piuttosto nuovi, generalmente prodotti in un solo esemplare, con intenti artistici e originali, usando liberamente materiali e colori, anche in questo caso senza legami con la tradizione.
Kokeshi gigante e cabina telefonica sulla via dei Kokeshi a Naruko (foto Maria Teresa Orsi).
Da un certo punto di vista questi ultimi sono i più interessanti e suscettibili di essere promossi (non appena accolti nel capitale culturale e gratificati da una qualsivoglia canonizzazione) a opera d’arte. Tuttavia, i kokeshi tradizionali del Tōhoku costituiscono uno degli esempi più singolari dell’artigianato povero nato nel nord est del Giappone e restano senza dubbio i più autentici rappresentanti di un tipo di manifattura che mantiene salde le sue radici, nonostante le periodiche crisi che hanno colpito i luoghi di origine (non ultima quella che ha fatto seguito al Grande terremoto del 2011 e alle sue tragiche conseguenze, dallo tsunami al disastro di Fukushima). È un artigianato tenace, orgoglioso e consapevole che continua a difendere la propria specificità ed è divenuto in Giappone oggetto di studi, di mostre e di collezionismo e che vanta anche una consistente bibliografia specializzata.
[…] Sull’argomento dell’origine dei kokeshi e della genesi del loro nome ci sono varie ipotesi, anche discordanti. Le più accreditate suggeriscono che siano nati fin dall’inizio come semplici giocattoli, ma si parla anche di possibili derivazioni da oggetti di culto popolare come gli oshirasama della provincia di Iwate (divinità protettrici del baco da seta e della famiglia, a forma di cilindri di legno o bambù, con volto umano o simile a una testa di cavallo, e rivestiti da «abiti» di stoffa ): oppure gli amagatsu (天児), pupazzi di legno o bambù, con il corpo a forma di T e la testa rotonda, in uso già nell’XI secolo come “sostituti” per proteggere i neonati da malattie e disgrazie. Secondo un’altra ipotesi la nascita dei kokeshi del Tōhoku sarebbe connessa con la fabbricazione di giocattoli in legno, spesso usati come souvenir, sviluppatasi verso la metà dell’epoca di Edo ad opera di artigiani specializzati principalmente nella zona di Hakone e da qui poi trasmessa agli artigiani del Tōhoku. La consuetudine, affermatasi più o meno nello stesso periodo in ampi strati della popolazione, di recarsi ai numerosi villaggi termali esistenti nella zona per motivi di salute o di semplice svago, avrebbe a sua volta incoraggiato la produzione di kokeshi, intesi come oggetti da riportare a casa come ricordo dopo una permanenza negli onsen. Un ulteriore stimolo sarebbe derivato dal successo, ottenuto sempre più o meno negli stessi anni, dalla fabbricazione dei cosiddetti tsutsumi ningyō, bambole in ceramica colorate a mano, così chiamati dal nome del quartiere della città di Sendai dove sarebbero nati: quelli di piccole dimensioni, definiti keshi ningyō e colorati di rosso, potrebbero aver avuto un ruolo nel determinare la forma dei kokeshi oltre che nel definire il loro nome, o meglio uno dei possibili nomi con cui venivano chiamati questi manufatti.
[…] La produzione dei kokeshi tradizionali prevede l’uso di un tipo di legno a tessitura fine come corniolo, acero, magnolia o anche ciliegio, nelle varietà locali che, in alcuni casi, crescono non lontane dal laboratorio degli artigiani; gli alberi vengono tagliati in genere durante l’inverno, privati della corteccia e lasciati asciugare per un periodo che può durare fino a un intero anno, per evitare che i manufatti ottenuti si deformino durante la lavorazione. Quando il legno è pronto viene tagliato in segmenti di diversa lunghezza, sgrossati in forma cilindrica. A questo punto interviene il tornio (rokuro), strumento indispensabile e fondamentale per tutti i kokeshi tradizionali che si rispettino. Se ancora verso la seconda metà dell’Ottocento il rokuro era manovrato a mano da due artigiani - il primo lo faceva ruotare per mezzo di una corda avvolta attorno a esso e il secondo dava forma al legno attraverso la pialla – successivamente, alla fine del secolo, venne sostituito dal tornio a pedale, che poteva essere manovrato da una sola persona, e infine da quello elettrico, attualmente in uso. Una volta che la forma voluta è stata raggiunta, il legno, trasformato in kokeshi, viene accuratamente levigato con carta abrasiva. Il tronco e la testa possono essere ricavati da un unico pezzo di legno, come nel caso dei kokeshi delle scuole Tsugaru e Kijiyama, oppure da due sezioni, la testa rotonda e il corpo cilindrico variamente modellato, che vengono poi assemblati o per inserimento (come i kokeshi delle scuole Sakunami, Tōgatta, Yajirō, Zaō, Yamagata e Hijori) o per incastro (scuole Naruko, Nanbu, Tsuchiyu e Nakanosawa). A questo punto si procede alla decorazione, l’elemento che richiede il maggiore impegno da parte dell’artigiano. La fase conclusiva prevede, in alcuni casi, la lucidatura mediante cera e, in chiusura, la firma del maestro.
Laboratorio di Kokeshi a Naruko (foto Maria Teresa Orsi).
Alcuni kokeshi dei maestri Suzuki (padre e figlio), Sakurai (padre e figlio) e Hayasaka, prodotti in esclusiva per la mostra
Kokeshi. La tradizione artigianale del Tōhoku, tenutasi presso MUDEC, Milano, 2019.
È forse vero che a un primo sguardo i kokeshi possono sembrare pericolosamente uguali uno all’altro. Ma basta solo un minimo di attenzione per cogliere e apprezzarne le differenze. Si può scoprire così come, al di là un modello di partenza, essi possiedano una capacità di differenziarsi in mille modi: nella forma, nella “pettinatura”, a caschetto il più delle volte, ma anche animata da nastri e raggiere; nel taglio degli occhi e della bocca, che li fa apparire ora assorti, ora svagati, ora sorridenti, ora ammiccanti, ora stupiti del mondo che li circonda; nel loro “abbigliamento”, dove il colore del legno si accompagna a tinte luminose, al rosso soprattutto, ma anche al giallo e al viola, e a disegni che vanno da astratte linee orizzontali a motivi floreali di susini, crisantemi, peonie, iris. Una grande varietà, quindi, anche perché alle costanti imposte dalla scuola e dalla tradizione si affiancano infiniti, piccoli ritocchi lasciati alla fantasia del singolo artigiano, ai suoi gusti personali, a suggestioni che pur senza tradire il modello originale danno ad ogni oggetto una sua fisionomia irripetibile.»