La pelle giusta. bell, Sara e Raymond

[di Davide Schirò]

«Le nostre vite dipendono dalla nostra capacità di concettualizzare alternative, spesso improvvisando. È compito di una pratica culturale radicale teorizzare su questa esperienza in una prospettiva estetica e critica. Per me questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo sicuro. Si è costantemente in pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di fare resistenza. […] Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alterative e nuovi mondi.»

(bell hooks in Elogio del margine, trad. Maria Nadotti, Tamu Edizioni,2020)

Il noi a cui si riferisce la studiosa femminista, nera e anticapitalista ha un riferimento specifico, ma io credo (e mi auguro) che il suo pensiero politico e pedagogico possa sollecitare tutte le persone che con onestà e umiltà cercano lo sviluppo della democrazia e della libertà.

A Palermo, un pomeriggio della scorsa primavera, in una classe con sei e settenni, le poete Silvia Vecchini e bell hooks, a loro insaputa, hanno potuto dialogare:

Non il diario, non la foto di classe

neppure i centimetri o il peso,

di me ne sa più la pelle

di quanto son cresciuto e con che gusto

è tutto scritto qui, è tutto giusto:

la macchiolina chiara sulla spalla,

l’impronta della varicella,

tutte le cadute dalla bici

una dopo l’altra, cicatrici

il graffio del mio cane era un gioco,

il segno del fiammifero

quando ho scoperto il fuoco,

il taglio che mi ha fatto la conchiglia,

nessuno è uguale a me o mi somiglia.

Su gomiti e ginocchi c’è una storia,

se chiedo alla mia pelle

lei la sa a memoria.”

(Silvia Vecchini in Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, illustrato da Marina Marcolin, Topipittori, 2014)

La pelle in cui sono è solo uno strato.

Non può raccontare la mia storia.

La pelle in cui sono è solo uno strato.

Se vuoi sapere chi sono devi entrare dentro e spalancare il tuo cuore.

La pelle che ho mi sembra buona.

Ti farà conoscere una piccola strada per tracciare la mia identità.

Ma poi, ancora, la pelle in cui sono sarà sempre e soltanto uno strato.

Non può raccontare la mia storia. Se vuoi sapere chi sono devi entrare dentro.

Stai con me dentro il me di me, tutto fatto di storie presenti, passate, future, alcune autentiche e altre tutto divertimento e fantasia, tutti i modi in cui io immagino me.

Puoi scoprire tutto su di me avvicinandoti e lasciando andare chi potresti pensare che io sia, prima di entrare dentro e lasciarmi essere reale e tu diventare reale per me. Finalmente tutto reale.

In quel posto in cui, ancora, la pelle è una piccola strada per vedere me ma non abbastanza reale da essere tutto il me di me o il te di te.

Perché siamo tutti di dentro fatti di vera storia, veri sogni e di tutta quella roba che noi speriamo quando possiamo essere tutti reali insieme nel di dentro.”

(bell hooks in Skin Again, illustrato da Chris Raschka,  Little, Brown and Company, 2004)

Negli appuntamenti precedenti del percorso, avevamo navigato tra albi illustrati e cartotecnica intorno ai luoghi che viviamo e immaginiamo, costruito città, definito case. Prima di soffermarci sui corpi e addentrarci nel “dentro di me” avevo deciso di soffermarmi sulla soglia… sul primo e intimo margine che abitiamo. Ipotizzando fosse un’esigenza delle bambine e bambini e avendo io scelto di partecipare per questo motivo.

Ricordo perfettamente la mia frustrazione, da piccolo, nel non riuscire a rendere con la matita “rosa pelle” il colore del mio incarnato. Non capivo ancora quanto fosse sbagliata e offensiva quella definizione ma ne percepivo la falsità. Tra i banchi si è molto attenti alle definizioni esatte; ho sempre avuto difficoltà a usare all’infanzia o nelle prime classi della primaria i termini nero o bianco per riferirmi ai differenti toni della pelle. Credo sia presto per spiegare le convenzioni del parlato adulto, la storia dei termini Nero o Bianco e necessariamente soffermarsi sul black pride e il privilegio bianco.

In questa fase, trovo più adeguato e interessante con loro, sporcarsi le mani ed esplorare insieme i comuni pigmenti.

Prima di offrire loro colori primari e pennelli, le straordinarie fotografie di Angelica Dass hanno iniziato a scalfire quelle false conoscenze sui colori della pelle che troppo spesso sono alla base, anche, di discorsi banalmente antirazzisti. L’incipit del suo libro The colors we share (Aperture, 2021) è chiarissimo:

«Potresti aver sentito descritto il colore della pelle come "nero", "bianco", "rosso" o "giallo". Ma hai mai incontrato una persona che in realtà è di uno di questi colori? […]

Anche se sembra che stiamo parlando di colore, in realtà stiamo parlando di come ci vediamo e cosa crediamo degli altri in base al colore della loro pelle.»

Il laboratorio prevedeva di riprodurre il colore della propria pelle partendo dal bianco, nero, rosso, blu e giallo; dopo aver steso il colore nell’intero foglio era possibile tracciare il proprio autoritratto. 

A settembre ho potuto assistere a un altro intreccio fecondo insieme a giovani adulti ospiti dell’istituto penale per i minorenni “Malaspina” di Palermo. Per avviare e nutrire un percorso di riflessione sull’abitare i quartieri, all’interno del Festival IT.A.CÀ. - Migranti e viaggiatori, le parole della Vecchini hanno incontrato i versi di Cristina Bellemo custoditi dentro la sua Casa Toracica (Anima mundi, 2020). Insieme abbiamo rievocato luoghi lontani e registrato come può essere contraddittorio e paradossale il rapporto con i luoghi che ci ospitano. Da quel momento le mie riflessioni su questo primo, sottile margine tra il dentro e il fuori hanno acquisito nuovi significati e le suggestioni della hooks acquisito corpi e voci.  

  

Non casualmente, poche settimane dopo ho potuto riproporre il laboratorio durante la terza edizione dello Zen book festival, iniziativa sviluppata intorno alla ostinata e ambiziosa biblioteca di quartiere “Giufà”. l Prima di leggere Pelle, abbiamo improvvisato, con decine di bambini e adolescenti, una piccola mostra campionaria di cicatrici, occhi sgranati, scandalo ostentato e curiosità malcelata per le immagini esplicite di La nudità che male fa (Settenove, 2021).

Più recentemente, future maestre si sono lasciate coinvolgere con grande disponibilità e sincero interesse in occasione del convegno “Raccontare le migrazioni”.  Dopo un excursus intorno al tema della rappresentazione e delle migrazioni nei picture books ho condotto l’ormai rodato laboratorio. 

In tutte queste esperienze, osservando e ascoltando le riflessioni (a volte appena sussurrate tra sé), credo emerga la necessità e l’urgenza della ricerca “Humanae” e del libro, ogni foto e ogni parola, della Dass.

Mi hanno mostrato e argomentato come le difficoltà che tutti incontriamo nel trovare il nostro colore non riguardano certo la maestria pittorica, ma la percezione distorta di molti di noi. Autodefinirsi bianchi o “rosa carne” fa desistere dall’usare gli altri colori, ma la melanina in tutti gli esseri umani è marrone e chi (se) lo nega, inevitabilmente, nega l’umanità, nega sé a sé stesso. Alcune laureande in scienze della formazione hanno condiviso, con onestà e pensieroso stupore, come la percezione del proprio colore fosse sbagliata e iniziato a comprendere quanto sottili e infinite fossero le diverse sfumature anche tra persone considerate “uguali”. C’è stata anche chi, convinta da sempre di avere la pelle “gialla”,  si è resa conto, almeno per qualche minuto, di essere arrivata a ritrarsi arancione, ma di non esserlo.

Credo che abituarsi a vedere davvero il proprio e altrui colore non faccia diventare antirazzisti ma possa basare una ricerca autentica. Più precocemente si comincia, meglio è.

«Il colore della pelle è una testimonianza durevole della nostra storia evolutiva. È un tratto biologico - un adattamento all'ambiente - che ha assunto molti strati di significati sociali. Ha continuato a essere importante nelle vicende umane nonostante le leggi che in molti paesi proibiscono ufficialmente discriminazioni di colore o basate sulla razza. Il già robusto legame tra colore della pelle e valore umano è stato ulteriormente rinforzato dalla commercializzazione globale da parte di multinazionali dei cosmetici di agenti sbiancanti e dalla vasta diffusione di immagini che raffigurano le persone con la pelle più chiara come più felici e realizzate rispetto a quelle con la pelle scura.»

 (Nina G.Jablonski, Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle, Bollati Boringheri, 2020)

 «Perché hai portato la candeggina in bagno?

Non facevo niente di male.

Lo so, volevo solo sapere le tue intenzioni.

Si mette in bocca un pezzo di pesca gigante e io guardo l'orologio alle sue spalle.

I miei piedi penzolano dall'alto della sedia di legno. Con la bocca piena aspetta una mia risposta ma io non so cosa dirgli.

Ho preso la candeggina perché una signora con i capelli uguali a quelli di nonna Gemma in televisione ha detto che toglie tutte le macchie, anche le più difficili. Ho chiesto conferma a Denise Mobili della prima fila e mi ha detto Certo: fa diventare le cose bianche. Anche me? ho insistito, lei ha riso, ha detto Magari sí, prova!»

Tutta intera (Einaudi,2023) è il romanzo d’esordio di Espérance Hakuzwimana. Quando ho letto il suo primo libro E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (People, 2019), immaginavo sempre che lei lo stesse declamando in qualche prestigioso speakers corner, alternandolo con momenti di poesia beat. Questa seconda opera, certamente più letteraria e matura, è ancora più tagliente, necessaria e difficile da attraversare. Le sue parole raccontano con estrema vividezza e vitalità la vita (da molti) non vista di migliaia di afroitaliani. Il mondo è qui da parecchi decenni ma siamo ancora, colpevolmente, impreparati quando non goffamente arroccati.

Quest’anno ho la fortuna, fortemente cercata, di insegnare a Ballarò, quartiere storicamente complesso e oggi multiculturale di Palermo. Nelle prime settimane di scuola dell’infanzia, al momento di ritrarre sé stessi, quasi tutti cercavano il “rosa pelle”, accontentandosi anche del fucsia, per raffigurare il proprio corpo, a volte appena abbozzato.

Nella mia sezione di 16 bambine e bambini solo 6 non sono “marroncini”. Di questi, due hanno genitori marocchini, una ha genitori rom, una bengalesi e, infine, sono due quelli con origini palermitane da più di una generazione. La prima volta che ho visto Raymond disegnarsi rosa, mi sono limitato a offrirgli varie tonalità di "brown" tra cui scegliere. In pochi secondi ha ricoperto la sua sagoma con un nuovo strato di pelle e da quel giorno non è più tornato indietro. Non intervengo mai in caso di un viso azzurro, o erba viola ma intuivo che nella sua ricerca di realismo qualcosa si era messa in mezzo.

Purtroppo, negli anni, mi è capitato spesso di osservare situazioni simili anche in scuole in cui si sviluppano progetti interculturali e antirazzisti. Non ho la pretesa e i sufficienti studi per soffermarmi sul razzismo storico e strutturale e individuarne tutte le cause, ma sono certo che immagini che rappresentano solo bambini rosa e libri con schede da colorare dentro i margini non aiutino a relazionarsi serenamente con il colore della propria pelle.

Da anni persone afrodiscendenti, denunciano come siano urgenti la riflessione, lo studio e il confronto sul colonialismo italiano come sulla decolonizzazione. Eppure anche tra chi si impegna contro discriminazioni e violenza razzista si incontrano ancora enormi resistenze e ingenuità. Ancora tante persone, fuori e dentro la scuola, sono certi che i più piccoli “non vedono il colore” e spesso aggiungono con orgoglio di fare lo stesso.

Negli anni Quaranta, i coniugi psicologi afroamericani Kenneth e Mamie Clark attraverso il doll test registrarono come la maggior parte dei bambini Neri preferivano giocare con bambole bianche e che gli stessi legavano caratteristiche negative alle bambole Nere, con le quali, a disagio, si identificavano. Successivamente, in America come in Italia, ricerche simili e più articolate hanno, purtroppo, portato ad analoghe conclusioni. Anche le persone più piccole respirano, introiettano e riproducono il razzismo strutturalmente presente nelle società. I bambini ci vedono benissimo, ma a volte fingono il contrario. Per non deluderci.

L’antropologa Paola Tabet, nel libro La pelle giusta (Einaudi, 1997), illustra la sua ricerca qualitativa durata anni raccogliendo oltre settemila temi dalle scuole elementari di tutta la penisola. “Se i miei genitori fossero neri…” diventa, tra altre, la principale traccia proposta per far emergere le reali percezioni e idee di bambine e bambini e del “sistema di lunga costruzione” a cui rimandano.

«Se i miei genitori fossero neri io mi sentirei molto scontenta e dentro amara nel senso che dentro il mio cuore non batterebbe più; i miei occhi sarebbero pieni di lacrime. Mi sentirai come in Africa e starei tutto il giorno con i miei compagni a giocare perché non vorrei uscire con loro. La mia bocca diventerebbe imbronciata mi sembrerebbe di impazzire perché non vorrei di diventare di colore come loro perché sono di diversa razza e non mi andrebbe di stare con loro.» [Fiumicino, Roma, III elementare]

La studiosa, femminista materialista, dopo aver analizzato temi emersi e strategie delle piccole mani scriventi, ci aiuta a comprendere:

«I temi costituiscono una specie di lente di ingrandimento di atteggiamenti, rappresentazioni e idee presenti nella società. Una lente che a tratti rivela dei non detti, rende espliciti processi di pensiero e contraddizioni impliciti nei comportamenti e nel linguaggio comune degli adulti. Così le antenne sempre all'erta dei bambini colgono l'idea di alterità o “diversità” e i suoi corollari, il disagio, sospetto o disgusto diffusi, e li colgono anche quando sono dissimulati, consapevolmente o meno, da dichiarazioni di principio di tolleranza o di fratellanza e uguaglianza. […] I temi offrono uno spaccato del discorso che circola nella società, con l'immediatezza e la chiarezza dello sguardo infantile, ma anche con le perplessità, le incoerenze, gli arzigogoli e i tentativi di capire propri di quest'età.»

Trascegliendo tra le parecchie decine riportate nel libro:

«Se mia mamma fosse nera la mia vita non esisterebbe perché mi farebbe paura essere nera. Perché essere tutta nera fosse veramente molto terribile. Se anche mio padre fosse nero come gli africani la casa crollerebbe. Vorrei che i miei genitori fossero di nuovo bianchi.» [Torino, III elementare]

«Se i miei genitori fossero neri piangerei tanto, perché dovrei insegnare loro tutto.» [Ferrara, II elementare]

«lo figlio di negri non ci vorrei essere mai perché i negri non li accetta nessuno e sono inferiori. La vita dei negri è bruttissima perché già a vederli sono poveri. Io un negro non saprei definirlo ma la pelle negra non mi è piaciuta mai e non mi piacerà mai. I negri nascono in Sud America, Irak, Marocche, Albania ecc.. I negri a scuola non li accettano e li buttano via e io non vorrei restare fuori da solo. Io conosco un bambino negro al mare ed è entrato insieme a me nel bar e delle persone l'hanno buttato via a calci. […] I negri nascono di tre razze di pelle nera, gialla e bianca.» [Catanzaro, IV elementare]

«Io non avrei paura se i miei genitori fossero neri. È una razza come tutte le altre, e poi li accoglierei con amore e continuerei a fare una vita normale. Se i bambini mi dicessero che ho i genitori che sono neri non gli darei retta e continuerei a camminare. Quando la sera, e il tempo libero che passerei con loro ogni cosa che mi dicessero la farei e non mi lamenterei. Io a loro vorrei molto bene come se fossero con la pelle giusta.» [Caltanisetta, IV elementare]

Nelle conclusioni, la scomoda ricercatrice, si rivolge con un affettuoso rimprovero al lettore sgomento:

«L'idea che i bambini siano immersi fino a questo punto nel pensiero razzista lascia sorpresi e interdetti. Possiamo chiederci però collettivamente il perché di questa sorpresa. […] Dietro lo sgomento e la sorpresa vedrei, sì, da un lato, una rappresentazione mitica dei bambini come in- nocenti o tabula rasa. Ma dall'altro, e cosa assai più rilevante, mi sembra che nonostante tutto ci sia ancora una storica non consapevolezza o non valutazione del problema di cui parlavo all'inizio, che esistano il disagio e la difficoltà di prendere atto e fare i conti con il peso di un sistema di pensiero razzista, un pensiero della differenza che questi temi ci costringono violentemente a vedere

Vent’anni dopo, la sociologa Annalisa Frisina cura in Veneto una nuova ricerca ispirata a quella della Tabet, ampliando le tracce disponibili (inserendo altre categorie razzializzate) e utilizzando accorgimenti metodologici per non influenzare gli elaborati. Secondo i dati del MIUR, sul territorio nazionale, dal 1997 al 2017 gli alunni con “cittadinanza non italiana” sono aumentati dallo 0,7% al 9,7%. Insieme e nonostante l’aggravarsi del discorso esplicitamente razzista e discriminatorio, questa inevitabile e crescente compresenza tra piccole persone con provenienze diverse, conferma i risultati della prima indagine ma apre anche delle incoraggianti crepe. La quotidianità viva e ragionata può, forse, contrastare la propaganda.

«Se i miei genitori fossero neri, sarei nato in un paese povero, senza cibo senza acqua. Potrei essere per strada, non essere a scuola come i bambini normali. Starei sui marciapiedi a suonare, cantare per prendere un po' di soldi.» (Marco, IV)

«Se i miei genitori fossero neri, io sarei un immigrato dell'Africa, sarei povero, i miei genitori cercherebbero lavoro ed io starei morendo di fame...» (Maggie, IV)

«Se i miei genitori fossero neri dovrei fargli imparare a leggere, dovrei spiegargli tutto...» (Francesca, V)

«Da grande vorrei cambiare il mondo, perché i genitori come i miei possano stare tranquilli, senza tutti questi che ci guardano male, senza le prese in giro. Vorrei fare la politica, così finalmente gli ebrei stanno con i cristiani e con i musulmani, senza problemi.» (Sara, V)

«Non è vero quello che dice mio zio sui musulmani. Se avessi genitori musulmani sarei felice lo stesso. Perché quando vado a casa della mia amica Jasmin la sua mamma ci fa i dolci e ci divertiamo a giocare insieme.» (Alice, V. Il suo disegno è una torta a forma di cuore)

«Se i miei genitori fossero neri io sarei felice ugualmente, perché con i miei amici vado d'accordo e le loro famiglie sono straniere. Lo so che ci sono persone che parlano male di loro, ma non le conoscono e si sbagliano.» (Mary, V)

La Frisina, infine, ci incalza:

«I bambini vengono socializzati a immaginari razzisti, ma possono anche emanciparsi da processi di categorizzazione opprimenti. Un'ulteriore sfida e opportunità sarà dunque legata a riconoscere una soggettività politica nell'immaginazione dei bambini e delle bambine, che possono aspirare di più di quello che hanno e qualcosa di diverso da quello che gli è dato da vedere o da vivere

(Annalisa Frisina in “L’altro/a razzializzato/a. Un percorso esplorativo tra i bambini della scuola primaria in Veneto.” nel volume Discriminazioni tra genere e colore, FrancoAngeli, 2018)

Altrove mi soffermerò adeguatamente sui presupposti teorici delle due ricercatrici, come su altri preziosi e affini lavori pubblicati recentemente.

The skin I’m in is just a covering”. Da non traduttore, mi sono dovuto soffermare a lungo sul termine covering. Oltre a chiedermi quale fosse l’intenzione della scrittrice, mi sono chiesto cosa fosse per me la pelle. Non so ancora se sia uno strato, una custodia, una copertura, una copertina o una sovracoperta. Certamente è il più esteso organo di senso che abbiamo e, nonostante la sofferenza che ad essa può essere legata, è ancora una straordinaria, misteriosa occasione di incontro e scoperta.