[di Rita Gamberini]
Nella casa c’era una stanza magica, la camera della zia Mariola. Aprivi la porta e subito ti avvolgeva il profumo, e subito la richiudevi perché quel profumo non doveva scappare via, non doveva disperdersi, confondersi con l’odore di kerosene della stufa nel corridoio, con gli odori della cucina, delle tute blu del babbo intrise di polvere di ferro.
Il primo gesto era far suonare il carillon di un cofanetto colmo di gioie, anelli e collane, l’orologio d’oro per le grandi occasioni. Tra musica e profumo c’era di che inebriarsi, guardarsi intorno senza toccare nulla per non rompere l’incantesimo. La prima radiolina a transistor era sua, minuscola, ricoperta di pelle nera, il primo giradischi stava lì insieme ai 45 giri in voga al momento. Poi smalti per le unghie e rossetti mai entrati nella cosmesi casalinga, aveva lei l’esclusiva.
Non l’abbiamo mai chiamata zia, lei era Mario. Il suo nome Maria Olga, era diventato Mariola, poi Mario. Piccola, magra, carnagione scura, mora di capelli. Faceva la commessa nella farmacia più antica e rinomata del paese e indossava con un po’ di dispetto una divisa nera che la differenziava dai camici bianchi delle due farmaciste titolari.
Della sua vita sapevo soltanto che era sorella minore di mia madre che si era presa cura di lei condividendo una parte dell’infanzia in un istituto e che aveva accettato la proposta di matrimonio di mio padre a condizione che accogliesse in famiglia anche la sorella. A dire il vero erano sorellastre, ma mai in casa ho sentito pronunciare questa parola, avevano semplicemente lo stesso babbo e questo era tutto. Raccontare per filo e per segno tutte le vicissitudini familiari del passato non era consuetudine, i racconti, se di racconto si può parlare, erano solo accenni (eravamo sfollati in Toscana, sono stata a servizio in Svizzera, dovevamo sbucciare le patate per i tedeschi alla Torricella….), non so se per una sorta di riservatezza o di rinuncia a ricordare gli accadimenti più tristi. Peccato perché adesso vorrei tanto sapere ma allora, da bambini, non si pensava per nulla a fare certe domande. Le curiosità erano altre, tutte legate a un presente traboccante di vita.
La Mario sapeva quello che voleva, un caratterino, spirito indipendente, ribelle quanto basta per non essere considerata “strana”.
Al giovedì pomeriggio, giorno di chiusura della farmacia, ci portava al cinema Impero dove passavano cartoni animati e film per ragazzi, poi tappa obbligata all’edicola per salutare qualche amica e rifornirci di giornalini e fumetti (Soldino e la mitica Nonna Abelarda, Geppo, Cucciolo e Tiramolla i più gettonati). Il suo regalo più bello è stato un libro che non ho mai dimenticato: Il coraggio di Lassie. In copertina Lassie e la sua padroncina, immagine tratta dall’omonimo film con Liz Taylor, una valle di lacrime ma anche una fatale passione per quella creatura così consolatoria e irresistibile, il cane. Poi Sussi e Biribissi e Il Giornalino di Gian Burrasca, fonte delle mie più autentiche identificazioni.
Era appassionata di acconciature ed esercitava questa sua passione con me e mia sorella, in un infinito susseguirsi di trecce, code di cavallo, codini, chignon e improbabili frangette: un vero supplizio tra colpi di spazzola, elastici, nastri, spillette e forcine, ma così era e non erano ammesse repliche.
È rimasta in famiglia con noi fino a quando non si è sposata andando a vivere in pianura e per quanto venisse a trovarci con una certa assiduità ha sempre patito una grande nostaglia del nostro paesello montanaro. Negli ultimi anni, ogni tanto mi telefonava in ufficio. Ero il capo e spesso deviavo il telefono su quello delle mie collaboratrici che poi mi passavano la chiamata. «Dice che è tua zia» e io rispondendo dicevo «Ciao Mario!». Le prime volte le ragazze mi guardavano stranite e io spiegavo che la chiamavamo così, poi era diventato normale: «Ri, c’è tua zia Mario!».
Dimenticavo, d’inverno, quando faceva molto freddo, le capitava una cosa che mi ha sempre molto impressionato, le venivano i geloni nelle mani e lei sveniva.