Ritratto dell'artista da cucciolo

Ed eccoci alla nostra prima novità di primavera: Marcel di Daniela Iride Murgia, ritratto dell'artista Marcel Duchamp da cucciolo, condotto fra verità biografica e immaginazione, elaborazione simbolica e letteraria. In questo post, Daniela spiega ai lettori come è nata questa idea e come è stata da lei realizzata. Daniela Iride Murgia, sarà alla Fiera di Bologna, presso il nostro stand 22 B 48, martedì 27 marzo, ore 16.45, a firmare e a dedicare le copie del suo nuovissimo Marcel.

[di Daniela Iride Murgia]

Da dove nasce l'idea di Marcel bambino?

Probabilmente non c'è un'idea senza un ricordo che la muove. A proposito di memoria, c'è un'immagine che mi accompagna sempre; Vigotskij paragona il nostro cervello a un foglio di carta che viene ripiegato; nel punto della piegatura rimarrà un segno, che costituisce insieme “il risultato della modificazione prodottasi e la predisposizione a ripetersi della stessa in avvenire”.

Mi domando quante pieghe di memoria in comune abbia avuto la mia infanzia con quella di Marcel Duchamp. Forse nessuna. È possibile che il mio foglio di memoria spiegazzato volesse poggiarsi su quello di Marcel bambino e illudersi di combaciare.

È un desiderio, è una passione che da passiva diventa attiva: portare a termine un progetto che abbia come protagonista l'infanzia di un artista.

Mi interessa in profondità la vita degli artisti. Mi capita di passare giornate intere a immaginare la genesi dell'opera di un'artista che risiede verosimilmente in un seme gettato in una lontana infanzia. Mi interessa tracciare la traiettoria che quel seme percorre fino a raggiungere il presente. Quanti semi ha gettato la memoria di quel genio di Marcel Duchamp? Talmente tanti che ancora ne stiamo raccogliendo i germogli, talmente tanti che la sua arte è madre di quella contemporanea. Credo che leggere l'arte di un artista attraverso lo studio e la proiezione della sua infanzia ce lo avvicini, lo renda a noi simpatico, nel senso greco del termine - σύν «insieme» e πάϑος «affezione, sentimento» = «sentire insieme».

Tra l'idea di un albo-progetto e la sua realizzazione passa letteralmente un fiume. Il letto del fiume entro il quale costruire la storia visivamente e testualmente si riempie e svuota, ci sono le piene e le secche di intuizioni frustrate e di quelle realizzate, di informazioni, di suggestioni, di segni e momenti da scegliere. Cosa far emergere di tutti quei sedimenti, di quel materiale che porta a riva il fiume della vita di un artista, cosa tacere, a cosa rinunciare? Ogni volta che un illustratore disegna/costruisce una tavola, lascia fuori altre possibilità di racconto, innumerevoli altre combinazioni di immagini e di senso.

Noi illustratori passiamo probabilmente il tempo a fare quello che gli inglesi chiamano “to kill your darling” ovvero eliminare ciò che ci è caro.

In questo progetto quello che ha aiutato ad affrontare la difficoltà del vuoto iniziale, di segno e testuale della pagina, è il colore; la memoria non è fatta di solo pieghe, ma anche di colore. Marcel Duchamp è stato un personaggio complesso eppure delineato da caratteri precisi, i colori che potevano rappresentarlo in questo albo sono quindi pochi e decisi e ritornano proprio come ritornano i ricordi, i colori sono prove del passato. Nell'albo il blu intenso degli occhi di Duchamp, descritto da molte testimonianze, non è mai un colore a piena campitura, rimane invece un colore che traccia linee, piccoli cerchi, biglie, curve, binari, linee geometriche moderniste, spirali e rimane fedele solo all'iride luminosa degli occhi dell'artista. Nelle numerose descrizioni dell'aspetto somatico di Duchamp ritorna l'attenzione per i suoi occhi, la figura sottile, l'eleganza che poi l'artista riporterà in ogni suo gesto artistico.

Beatrice Wood ce lo descrive con un «[...] viso delicato e finemente scolpito e quei penetranti occhi blu che vedevano tutto.»

Nell'albo ci sono le biglie perché ricordano la trasparenza e limpidezza di un occhio, l'occhio come giocattolo, come meccanismo per registrare il mondo e Duchamp era molto affascinato dal gioco.

Tutte le sue opere hanno una componente ludica spiccata.

E poi in Duchamp, incorporata a Duchamp, c'è la pipa, la sua pipa, che quasi diventa oggetto animato e non si sa più se sia Duchamp a non lasciarla mai o la pipa a non lasciare mai Duchamp; Marcel con la pipa sin da bambino.

C'è una bellissima descrizione di Duchamp fatta da Anaïs Nin nel suo Diario (Bompiani, Milano, 1977) dove tornano protagonisti i suoi occhi in contrasto con la quasi ieraticità del resto del corpo:

«Marcel Duchamp restava in piedi, tranquillo a fumare la pipa e a parlare poco. Ha occhi molto lucenti, ma tutto il resto del suo corpo sembra intagliato nel legno, come quelle pedine di scacchi con cui ama tanto giocare. Fa collezione di pipe. Era in piedi, si sedeva, fumava, ci accoglieva e ci lasciava con un distacco altamente stilizzato, come fossimo anche noi dei pedoni e lui stesse riflettendo sul modo in cui ci avrebbe spostati.»

I colori scelti nell'albo per raccontare l'infanzia di Marcel sono quelli primari - giallo, rosso, blu - e il verde; sono i colori del modernismo, delle avanguardie e del suprematismo, colori di “sintesi”, espressione, nella loro fermezza, di una rivoluzione e si prestano a rappresentare la vita e il gesto artistico, sovvertitore e innovatore di Duchamp calati in un'infanzia fatta soprattutto di giallo. Il verde è usato invece per richiamare gli ambienti di natura rigogliosa e verdeggiante della Normandia, in quel nord francese dove si trovava  la casa d'infanzia di Duchamp, una costruzione rettangolare in pietra e mattoni con la vista sull'abside della chiesa del XV secolo,  immersa nel verde di un parco circondato dal fiume Crevon.

Il carattere di Duchamp, punteggiato di aspetti infantili e disimpegnati, ha permesso di attribuire a Marcel bambino dei tratti coerenti che lo rispecchiano e rimangono in linea con il personaggio adulto. Impossibile non sottolineare la sua famigerata pigrizia.

Il titolo della rinomata conversazione tra Pierre Cabanne e Marcel Duchamp, Ingénier du temps perdu (Ingegnere del tempo perduto), è una summa perfetta del personaggio Duchamp e della sua “filosofia”. Duchamp ribadisce e quasi teorizza il fatto che sia utile e necessario non lavorare.

La sua intera vita è caratterizzata dalla pigrizia, quasi che questa fosse un valore da rivendicare, reclamare e addirittura onorare.

Duchamp vedeva l'infanzia come un momento nel quale la libertà e l'anarchia potevano trovare la loro perfetta realizzazione nella famiglia, famiglia-anarchia come possibile modello di vita: «[…] io conosco un gruppo in cui questo funziona benissimo: la famiglia... Non è vero? I bambini prendono da tavola o in cucina quel che serve loro. Non ci sono acquisti né transazioni legali. Avviene tutto liberamente, tra padre e figlio, ci si aggiusta, ce n'è per tutti... La famiglia è il modello di una società interamente anarchica.»

È sempre Duchamp adulto e infantile a suggerire con immediatezza i tratti attraverso i quali descrivere Marcel bambino, è tutto vero quando nell'albo Marcel preferisce la cioccolata e i cracker a qualsiasi altro cibo; i biscotti e la cioccolata sono ripresi da descrizioni accertate della sua biografia. Pare che il suo studio fosse caotico, disordinato, pieno di vestiti, oggetti, appendiabiti per terra (che in seguito, inchiodati al pavimento, diventeranno opere d'arte), pacchetti di cracker e tavolette di cioccolato svizzero dappertutto: il suo pasto abituale.

Duchamp dice di non aver mai raggiunto l'età adulta e da molti amici/amiche è descritto come un eterno bambino, compresa la sua figura gracile, elegante, a tratti “angelica”.

Ma è anche vero che Duchamp, ritenuto da Breton l'uomo più intelligente del XX secolo, non smetterà mai di far lavorare la sua intelligenza. La sua arte trabocca di seria, divertita intelligenza esattamente come quella dei bambini, un'intelligenza libera di esprimersi attraverso le parole, i segni, i gesti, il gioco. Di se stesso diceva «io sono il mio readymade vivente».

Era di poche parole e aveva, come i dadaisti e i surrealisti, un particolare affetto per le parole. Lui le parole le dissodava come fossero zolle, le masticava, ridistribuendo un senso all'apparenza caotico come in queste sue frasi:

«Pigrizia incurabile di strade ferrate ai passaggi del treno.»

«Parete parata di pigrizia da parrocchia.»

«Il bambino che poppa è un soffiatore di carne calda e non ama il cavolfiore di serra calda!»

Chi è che parla qui? Duchamp adulto o Marcel bambino?

Come si fa a descrivere con le parole l'intelligenza di un bambino? Un bambino non si preoccupa della propria intelligenza, piuttosto la vive e il primo modo di farlo è quello di tracciare segni visivi, attraverso ricostruzioni o rettificazioni della realtà.

Chi di noi, da bambino, non ha mai, almeno una volta, disegnato i baffi a qualche personaggio di una rivista, un gesto talmente comune da diventare conformista e quindi rassicurante, ma rivoluzionario quando a farlo è un adulto. In Marcel/Duchamp ci sono l'ordinario e lo straordinario insieme.

Prima di ritornare a New York, nel 1919 Duchamp acquista in rue de Rivoli una cromolitografia a buon mercato della Gioconda, tornato nello studio dell'amico Picabia, corregge la Gioconda con un pizzetto e un paio di baffi e aggiunge le iniziali L.H.O.O.Q..

«Pensavo che un dipinto non potesse, non dovesse essere guardato troppo. Il fatto di guardarlo troppo lo privava della sua sacralità» dice Duchamp, riferendosi alla Monnalisa.

È stato divertente rappresentare Marcel bambino che disegna una Monnalisa tutta sua, come se non l'avesse mai vista, la disegna sul muro della cucina, in piedi, mentre calpesta ironicamente la tela (tovaglia) di un altro monumento dell'arte moderna e “contemporanea” come Mondrian.

Fra le infinite suggestioni derivate dalla descrizione degli interni della casa di famiglia a Blainville, mi è rimasta impressa l'immagine dell'ingresso caratterizzato da un pavimento a scacchi bianchi e neri e, tra le tante stanze, quella che veniva chiamata “la stanza verde”. Chissà che questi non possano essere più o meno espliciti richiami, echi che ritornano nelle sue opere; gli scacchi, “la stanza verde”, la più importante della casa e che ricorda così bene la sua scatola verde. Come se questi spazi di infanzia se li sia sempre portati appresso, li abbia sublimati,  organizzati, concentrati in una scatola/valigia che poteva contenere letteralmente tutto. Solo un genio poteva rivoluzionare il mondo con uno scolabottiglie, una ruota di bicicletta e un gomitolo di spago in un’eterna partita a scacchi mai conclusa.