[di Federica Iacobelli]
Ronja, the Robber's Daughter (The Astrid Lindgren Company, illustrazione di Ilon Wikland).
C’era anche una pagina dal romanzo Ronja Rövardotter nel catalogo di brani che qualche mese fa ho proposto per gioco ai partecipanti di un incontro dedicato alla cosiddetta letteratura per ragazzi. Erano passi brevi tratti da racconti o romanzi appartenenti a scrittori, epoche, geografie e stili i più disparati, non tutti composti o pubblicati pensando a un pubblico di giovani o bambini, e l’idea è stata quella di condividerli uno per uno leggendoli ad alta voce per poi commentarli collettivamente, senza aver dato però indicazione alcuna né sul titolo dell’opera né sul suo autore.
«Chi l’ha scritto secondo voi?». Ecco la domanda che ponevo per gioco alla fine della lettura: per chi? Quando? Dove? E ne ottenevo risposte mai scontate, spesso persino disturbanti rispetto agli ordini costituiti dell’editoria e dei canoni letterari. «Sembra un’Astrid Lindgren dei nostri giorni…», ha detto di quella pagina rubata a Ronja Rövardotter una signora attenta e curiosa, bibliotecaria in pensione: «...la scrittura è rapida, divertente, decisamente contemporanea… ha un bellissimo ritmo, mescola il fantastico e il quotidiano, insomma ha proprio l’aria di un legittimo erede della grande letteratura nordica novecentesca per l’infanzia…».
Invece non era un erede. Era proprio Astrid Anna Emilia Lindgren. Erano poche righe dall’ultimo romanzo importante che scrisse e pubblicò, per me di gran lunga il più amato tra i suoi, uscito in Svezia nel 1981, quarant’anni fa, quando la scrittrice e attivista svedese di cui il 28 gennaio 2022 ricorrerà il ventennale della morte, autrice nella sua luminosa carriera di decine e decine tra romanzi e storie piccole poi tradotti in più di cento lingue, aveva già superato in abbondanza la settantesima primavera della sua vita.
Astrid Lindgren.
L’osservazione della signora bibliotecaria, seppure presto e per forza disattesa, rivelava tuttavia che il sentimento di un ‘fuori dal tempo’ da me vissuto e rivissuto nel corso di tante letture di Ronja, ciascuna un po’ distante dalla precedente, aveva a che fare anche con la modernità tematica, linguistica, strutturale di quel romanzo incredibile, e poteva riferirsi tanto al tempo della storia raccontata quanto al tempo di noi lettori che immergendoci in quella storia il tempo lo sentivamo dilatarsi, espandersi, sprofondare, sospendersi, riuscendo comunque a trovare con la nostra realtà costanti e precise coincidenze.
Per l’esperimento giocoso dei brani celati avevo usato la prima traduzione italiana del romanzo lindgreniano. Quella ‘nuova’, opera di Laura Cangemi, l’avevo cercata invano nella mia libreria: dovevo averla prestata o regalata a qualcuno. Così, tenendo tra le mani il mio vecchio volume Mondadori, un’edizione annotata com’erano e sono i libri di narrativa per la scuola, ripercorrevo anche il mio primo approccio con pagine fitte di dialoghi e descrizioni, dense di personaggi vividi, di emozioni profonde e di azioni incalzanti ma mai giustapposte; pagine in cui negli anni ottanta della mia infanzia avevo scoperto l’esistenza di certe creature chiamate ‘strigi’ che avrei ritrovato omonime eppure diverse leggendo anni dopo la letteratura latina; pagine in cui il nome del padre di Ronja così come l’aveva tradotto Mona Attmark Fantoni, Matteo, mi pareva esotico al pari di un italiano cresciuto in città che sia a suo agio in una foresta selvaggia o di un apostolo evangelista reincarnato nel corpo di un capo-brigante. Allora, quando in un giorno solo avevo divorato un romanzo che mi era parso diverso da tutti quelli letti in precedenza, e divorandolo avevo riso e pianto e riso e ancora pianto, ma di commozione, non mi ero posta il problema del passaggio da una lingua all’altra. E la sua prosa ricchissima, coraggiosa, melodiosa, a tratti lirica a tratti ironica, ora carnale ora metafisica, piena di slanci ma anche di un tenero, allegro pudore, con la sua capacità di trasportarmi in un altrove a me prossimo, curioso ossimoro, mi aveva catturato perché costruiva un mondo diverso, distante dalla mia esistenza per i suoi scenari di spazio e di tempo e per la libertà di una Ronja e di un Birk che mi erano quasi coetanei, ma anche molto vicino, stranamente, come se da qualche parte l’avessi già conosciuto, ciò che era per via del cuore pulsante del suo racconto: un amore tra padre e figlia più forte che mai, viscerale e dolcissimo.
Ronja: tre edizioni italiane (Mondadori).
Allora non mi rendevo conto di tante cose. E non avevo letto quasi nient’altro di Astrid Lindgren, se non una storia intitolata Pippi Långstrump che avevo percepito più lontana e che in effetti, pubblicata per la prima volta nel 1945, compiva già in quell’epoca i suoi primi quarant’anni. Poi le vicende del lavoro e dell’esistenza mi avevano portato a scoprirla e riscoprirla, la scrittrice svedese, sia in occasione del centenario della sua nascita, nel 2007, sia per nutrire alcune mie scritture. E visto che, come giustamente succede, con il trascorrere dei decenni era sorta la necessità di ri-traghettare l’originale svedese in italiano, mi ero presto imbattuta nella Ronja tradotta da Laura Cangemi.
Il sentimento di quel ‘fuori dal tempo’ restava, nonostante l’ambientazione medievale nella nuova traduzione avesse a sua volta acquisito forza e pregnanza alle mie orecchie in ascolto, davanti agli occhi della mia immaginazione. Però Matteo si chiamava Mattis, nella Ronja di Cangemi. E la musica della lingua lindgreniana, pur conservando una melodia riconoscibile, mi pareva mutata non soltanto perché era mutata la mia età di lettrice. Com’è possibile tanta differenza, mi sono subito chiesta? Quali condizionamenti o distanze guidano e hanno guidato certe scelte letterarie e editoriali? Quanto c’entrano il tempo in cui si traduce, la sensibilità letteraria, la conoscenza dell’opera dello scrittore che si traduce e del suo paese?
«Fra due traduzioni dello stesso libro esistono sempre grandi differenze», mi ha risposto Laura Cangemi, alla quale ho posto le mie domande direttamente, «perché ciascun traduttore fa le sue scelte e ‘sente’ in modo diverso quella che io chiamo la voce dell’autore o dell’autrice. Quando però fra una traduzione e l’altra passano molti anni è naturale che a influenzare la resa in italiano intervenga anche una diversa cultura della traduzione. Se fino a qualche decennio fa era comune pensare che i libri (in particolare quelli per ragazzi) andassero ‘adattati’, più che tradotti, e a volte anche emendati, oggi si è molto più rigorosi nel rispetto del testo originale e delle intenzioni dell’autore. Bisogna anche ricordare che in passato i traduttori avevano accesso a pochi strumenti (e questo vale in particolare per le lingue meno diffuse, come lo svedese), quindi nel valutare le traduzioni più datate va tenuto presente che certi errori che oggi possono essere facilmente evitati con una rapida ricerca su internet allora si commettevano in perfetta buona fede. Inoltre non va sottovalutato il ruolo giocato dal revisore e dalla redazione: alcune scelte vanno fatte di comune accordo e in passato non era scontato che si potessero rivedere le bozze e far valere le proprie posizioni. Fortunatamente oggi, nella maggior parte dei casi, il traduttore ha maggiore voce in capitolo.»
In questo dialogo a distanza ho scoperto che anche Laura Cangemi considera il romanzo della figlia del brigante un libro di particolare valore, un’alchimia rara e riuscita di generi, di toni, di sentimenti, di incursioni nelle stagioni del mondo e dell’esistenza. «In un certo senso, Ronja rappresenta la summa dell’opera di questa straordinaria scrittrice. È un romanzo molto stratificato, che può essere letto a età diverse scoprendo aspetti sempre nuovi. Tra l’altro lo trovo un libro perfetto per i papà, in particolare di figlie femmine: il conflitto che si crea tra Ronja e il padre illustra magnificamente un passaggio preadolescenziale che spesso gli uomini faticano ad accettare, sentendosi respinti dalle figlie. Quanto alla lingua, Astrid Lindgren l’aveva curata in maniera ancora più precisa e attenta del solito, e questo emerge chiaramente dalle lettere ad alcune sue traduttrici (in particolare quella tedesca e quella danese). L’ambientazione in un periodo che potremmo definire medievale richiedeva un linguaggio adeguato, e Astrid aveva evitato di proposito di usare vocaboli entrati in uso in Svezia (attraverso il francese) dopo il Seicento. Il rimprovero che muoveva alle due traduttrici era proprio di non aver avuto la stessa accortezza, utilizzando termini troppo moderni. Nella mia traduzione ho quindi prestato molta attenzione alle scelte lessicali, verificando sempre l’entrata in uso delle parole in italiano. Tra l’altro ho fatto qualche scoperta divertente e inaspettata (tanto per fare un esempio: ‘disarcionare’ è attestato solo dal 1952, mentre ‘scompisciarsi’ è un verbo in uso dal tredicesimo secolo…). Naturalmente ho dato grande importanza anche all’aspetto del ritmo della narrazione, fondamentale in tutti i libri di Astrid Lindgren. Per fortuna anche per Ronja, come per la maggior parte degli altri titoli, esiste un audiolibro dell’autrice stessa, e a me serve moltissimo ascoltare la sua voce, rileggendo le mie traduzioni, proprio per capire se in qualche punto mi sono scostata dal ritmo dell’originale. È uno strumento davvero prezioso.»
Un audiolibro con la voce di Astrid: che meraviglia, mi sono detta, e insieme che circostanza giustissima. Talmente forte è la voce della scrittrice svedese - e in questo romanzo anche più che negli altri -, talmente capace di perdersi e insieme di emergere dai rami, dai fiumi, dai tronchi, dai fossi, dalle grotte, dalla pelle e dalle risate dei briganti, dalle stranezze e invenzioni e posture e abitudini degli esseri soprannaturali e delle bestie del bosco Mattis, che il fatto che il libro esista anche letteralmente e sostanzialmente nella sua voce mi è parso naturale e necessario. Una voce nutrita e forgiata anche più fortemente di altre dalla sua lingua madre e dal modo in cui questa dà forma ai pensieri, alle espressioni, ai punti di vista sulle realtà di dentro e di fuori: dovevano allora esserci stati dei nodi, delle stimolanti difficoltà, nel ri-tradurre in italiano Ronja.
«Una delle sfide principali era rappresentata dai nomi degli esseri sovrannaturali che popolano il libro e per i quali Astrid si era ispirata solo in parte alle tradizioni e alla mitologia nordica. Si può dire che, prendendo spunto da quel mondo, lei ne avesse creato uno appositamente per Ronja, e questa scelta andava secondo me rispettata. Di qui, per esempio, la decisione di rendere con ‘strigagne’ le ‘vildvittror’, da non confondere con le vittror della mitologia scandinava, che nella vecchia traduzione erano le ‘strigi’, figure della tradizione latina. Tenendo presenti le loro caratteristiche ho creato un nome che mi sembrava rendesse bene l’idea di queste creature grifagne, anche a livello di suono. Un altro problema era l’espressione inventata di sana pianta da Astrid ‘åt pipsvängen’, il cui significato corrisponde a ‘alla malora’, che infatti era la traduzione per cui aveva optato Mona Attmark Fantoni. Astrid però non aveva scelto di usare un’espressione esistente. Se ne aveva coniata una nuova (così orecchiabile e famosa, oggi, da aver dato nome a un parco divertimenti ed essere entrata in uso, a posteriori, nella lingua comune), era giusto coniarne una nuova anche in italiano. Dopo vari tentativi e sondaggi tra amici, familiari e bambini di varie età, ho optato per ‘affampippolo’, che aveva una certa assonanza con l’originale e poteva essere usato sia con ‘andare’ che con ‘mandare’».
Ronja, the Robber's Daughter (The Astrid Lindgren Company, illustrazioni di Ilon Wikland).
A quasi vent’anni dalla morte di Astrid Lindgren, e a più distanza ancora dalle sue ultime opere letterarie, il mio pensiero è tornato agli eredi evocati a torto ma saggiamente dalla signora bibliotecaria del mio incontro. In questi anni Laura Cangemi ha continuato a tradurre letteratura svedese, spesso destinata ai lettori ragazzi. Chissà allora se per lei, mi sono chiesta, esistono oggi eredi legittimi della scrittura e degli immaginari lindgreniani.
«Io sono una grande fan di Ulf Stark», mi ha risposto Laura, «che purtroppo ci ha lasciato nel 2017. Anche se completamente diverso nello stile e nell’approccio alla narrazione (o forse proprio per questo), credo che abbia davvero saputo trovare la strada per arrivare dritto al cuore dei lettori grazie alla sua capacità di guardare al mondo con gli occhi di un bambino e di unire poesia e ironia in una combinazione perfetta. Un altro grande della letteratura contemporanea, anche per la sua abilità di illustratore oltre che di narratore, è Jakob Wegelius, autore della ‘Scimmia dell’assassino’, uno dei libri di avventura più belli che abbia mai letto. Credo comunque che molti scrittori svedesi abbiano saputo raccogliere l’eredità di Astrid, non scimmiottandola (anche perché lei rimane inimitabile) ma traendo ispirazione da lei, soprattutto nel grande rispetto per il bambino come persona. Penso per esempio a Maria Gripe, ma anche a Åsa Lind, Annika Thor, Moni Nilsson, Jenny Jägerfeld: tutte autrici che hanno contribuito a rinnovare e arricchire la letteratura svedese per ragazzi e che hanno ancora molto da dare.».
Gli eredi di Astrid Lindgren secondo la sua traduttrice italiana, questi scrittori e scrittrici svedesi di poco o di molto più giovani rispetto alla nostra autrice, possiamo conoscerli come abbiamo conosciuto lei: attraverso i loro mondi, i loro personaggi sempre vivi. Personaggi che in letteratura, come diceva e scriveva l’inglese Edward Morgan Forster quasi cento anni fa nelle sue magnifiche conferenze sul romanzo, sono definibili innanzitutto come ‘gruppi di parole’, considerata la natura scritta del testo che dà loro vita. Eppure sono vivi, appunto, reali, e ci sorprendono, e ci restano dentro, non perché ci assomiglino, sostiene ancora Forster, ma perché sono convincenti.
Ronja, e con lei Birk, e Mattis, e la madre Lovis che canta alla figlia Ronja la sua canzone fin dalla notte in cui è nata, e i briganti di Mattis, e Borka il rivale di Mattis con i suoi uomini, sono convincenti a tal punto che appena tre anni dopo la prima edizione del romanzo, nel 1984, era pronto e usciva nelle sale un film omonimo che ne era l’adattamento. Sarebbe stata l’ultima pellicola firmata dal regista attore e poeta Tage Danielsson, supportato dal lavoro di sceneggiatura della stessa Astrid Lindgren: un’opera in cui ancora oggi non appaiono stonate nemmeno le animazioni e gli effetti speciali pure evidentemente datati, perché la fotografia del film è precisa e insieme ardita nel raccontare magnificamente il trascorrere delle stagioni e la comunanza del paesaggio con l’umanità che lo abita, e poi perché la tenerezza ne è una componente onnipervasiva come del resto uno humour sempre buffo, sempre gentile, a dispetto della grettezza dei modi e dei pensieri dei personaggi briganti; insomma un insieme compatto, riuscito, anche se non corrispondente all’immaginazione che il libro doveva già avere messo in moto in ciascuno dei suoi lettori; un mondo visivo coerente, originale, sovrastato dalla possanza della natura di un bosco-foresta che ci si chiede dove mai fosse, dove mai sia, e dalla inventiva e giustezza drammaturgica della colonna sonora e musicale.
Allora il romanzo era uscito da poco, la sua bellezza si diffondeva nel mondo e il film, sostenuto dalla stessa scrittrice e campione d’incassi nel suo paese durante l’anno di uscita, vinceva l’Orso d’argento al Festival Internazionale del Cinema di Berlino del 1985.
Allora non c’era da meravigliarsi. Ma oggi, passati tre decenni abbondanti, di nuovo si torna a Ronja, e questo un poco stupisce. È accaduto nel 2017 con la serie animata in ventisei episodi prodotta da Studio Ghibli insieme a The Astrid Lindgren Company e diretta da Goro Miyazaki, figlio di Hayao: un prodotto dalla fattura sapiente, dal gusto qua e là nipponico specie nei colori, nella grafica e nel character design realizzato dal fumettista e animatore Katsuya Kondō, ma ispirato in realtà al film di Danielsson del quale riproduce quasi integralmente dialoghi, inquadrature, atmosfere, gesti, solo dilatando il tempo in alcuni passaggi del romanzo di formazione che è – o meglio, che è anche – questa storia. Emblematica è la scena in cui ciascun capobrigante si stringe con moglie e banda sul ciglio della crepa che si è aperta nella Rocca Mattis la notte in cui Ronja è nata: sono tutti lì perché Mattis ha preso in ostaggio Birk, figlio del suo rivale Borka ma ormai irrimediabilmente legato alla sua ‘gemella’ Ronja; ed è un punto di morte fondamentale nella trama, causato dal salto coraggioso della protagonista dall’altra parte della crepa - dalla compagnia della sua famiglia allargata a quella della famiglia rivale - e quindi da una rottura tra padre e figlia che sembra non debba mai più ricomporsi.
È accaduto che si tornasse a Ronja in Giappone, ma stranamente non negli anni del World Masterpiece Theater, quel teatro dei capolavori letterari del mondo - e soprattutto del mondo occidentale - che abitava gli studi di animazione nipponici proprio intorno al decennio novecentesco dell’uscita del romanzo di Astrid. E sta per accadere di nuovo oggi, di nuovo nella sua terra natia, grazie alla collaborazione tra Nordic Entertainment Group, Filmlance international e The Astrid Lindgren Company che lavorano già da qualche tempo a una serie tv live action tratta dal romanzo e strutturata in dodici episodi su due stagioni.
Ronja ci parla ancora. E non solo in quanto romanzo ormai ‘classico’ al pari della sua autrice. La signora bibliotecaria del mio incontro giocoso non aveva torto immaginando, da poche righe di una sua pagina, di trovarsi di fronte a uno scrittore dei nostri anni. Ronja ci parla ancora, ma in un altro modo, con una rilevanza forse più grande su certi temi che Astrid Lindgren ha sempre portato nella sua voce ma che allora magari non erano recepiti così tanto dalle masse dei suoi lettori: l’importanza di una conoscenza e di una vicinanza alla natura che abita il mondo insieme a noi; la libertà dei bambini come territorio non solo di esperienza, ma di conoscenza di sé e della società, per potersi e poterla cambiare in meglio; la relazione del maschile con il femminile, dentro e fuori di sé, e con la tenerezza che è propria di ogni natura umana, maschio o femmina; e infine un grido, quel grido di primavera che chiude il romanzo come anelito alla non violenza: un desiderio che nel tempo della storia del romanzo non accompagna fino in fondo il passaggio generazionale ma vi si affaccia invitandoci ad attenderlo, a illuminarlo nei pensieri a venire, a confidare che Ronja e Birk terranno con sé il segreto di Cocciapelata e andranno a cercare il giacimento di pepite d’argento che il vecchio brigante ha scovato nella foresta per vivere di quello, d’ora in poi, anziché di furti e scorribande e aggressioni come i loro padri imperterriti.