La collana Piccoli naturalisti osservatori, detta PiNO, è nata quattro anni fa con l'idea di creare una nuova veste editoriale per racconti di scienza e natura. Ma prima ancora questa collana nasce dalla curiosità e dall'interesse degli editori per le piante, gli animali, il mondo e i fenomeni naturali, e per i modi spesso meravigliosi in cui i libri li hanno descritti attraverso parole e immagini. Questa curiosità ha fatto sì che quella con Marina Marinelli su Facebook non rimanesse una semplice amicizia virtuale, ma si trasformasse in un vero e proprio incontro. Marina sul suo profilo postava le cronache avvincenti dei suoi salvataggi in campo ornitologico. Bellissime storie di relazione che andavano creandosi fra lei e gli uccelli bisognosi di cure in cui spesso, Marina, abitando nella campagna umbra, si imbatteva. Queste cronache, nel tempo, ci hanno sorpreso e avvinto e, così, ci siamo chiesti se non avrebbero potuto essere raccolte, ordinate, riscritte per diventare un libro. Ecco, Prendere il volo è la forma che hanno preso. Una forma bellissima grazie alla pazienza e all'impegno della sua autrice, al contributo fondamentale di Silvia Molinari che le ha illustrate con perizia e di Anna Martinucci che ha dato loro una veste grafica impeccabile. In questo post Marina racconta come è andata.
[di Marina Marinelli]
«Li trattiamo con condiscendenza per la loro incompiutezza, per il tragico destino di aver preso forma tanto al di sotto di noi. E in questo sbagliamo e sbagliamo di grosso. Perché l’animale non ha la sua misura nell’uomo. In un mondo più antico e completo del nostro, essi si muovono -completi e compiuti. Dotati di un’estensione dei sensi che noi abbiamo perso, o che non abbiamo mai raggiunto, ispirati da voci che noi non udiremo mai. Non sono nostri fratelli, non sono nostri sottoposti; sono altre nazioni, catturati insieme a noi nella rete della vita e del tempo, prigionieri con noi dello splendore e del travaglio della terra.»
Henry Beston, La casa estrema, 1928
Cinciallegra, Parus major, 2013.
«Va detto, tuttavia, che le fiabe andrebbero proposte ai bambini in tutti i modi, persino, mi azzardo a dire, in brutti libri e brutte riduzioni: meglio che niente, e questo lo sostengo anche sulla base della constatazione che i bambini sono esperti e raffinatissimi cavatori di sangue dalle rape.»
Giovanna Zoboli, Fuori da noi (Nuova Editrice Berti, 2019)
ORIGINE
«Uccellin dal petto rosso, quand’è notte fammi motto, quand’è ora di cantar, uccellin vienmi a chiamar.»
(Ninna nanna di zia Mariapia)
La mia famiglia ricevette in dono Jenny, una ghiandaia trovata a terra da mio zio materno. Mia madre l’allevò e, nonostante la mia tenera età, ricordo ancora bene l’aleggiare di quell’insolito guardiano che, per qualche tempo, custodì le nostre giornate.
Durante l’infanzia, la bambina che ero si divideva fra due case: quella in paese, d’inverno; e quella in campagna, d’estate. La casa in campagna era situata ai piedi del Monte Tezio, fra ulivi, vigneti e alberi da frutto, appena più in alto di quella dei nonni materni. Dal frutteto, immersa nella vastità dei canti di varie specie alate, scrutavo in cerca della loro casa che immaginavo essere le radici della nostra. La casa dei nonni era un pullulare di bestiole e la convivenza con gli uccelli era cosa naturale. C’era sempre qualche volatile, trovato o capitato, ospite della vita domestica. I miei genitori erano contrari all’adozione di animali in tenera età, così, in attesa del momento giusto, mi accontentavo di quelli ospitati dai nonni e quelli che potevo immaginare. Fu nella casa in campagna che feci la conoscenza di Moschi, una mosca nera, che a fine estate decisi di invitare nell’appartamento in paese, per passar l’inverno insieme.
Mantignana, 1980.
Avevo circa cinque anni, stavo disegnando nella stanza adibita a studio per noi sorelle, mentre Moschi, vispa, si posava di qua e di là, quando accadde un imprevisto: un pettirosso, sbattendo contro il vetro della finestra, attirò la mia attenzione. Chiamai mia madre, implorando il suo aiuto. Lo raccogliemmo: era caldo e il suo cuore, nonostante l’immobilità, batteva furioso. La mamma prese una gabbia e io ce lo misi dentro. Rimasi lì a parlar con lui, ammaliata dal brillante bavero rosso, mentre lei tornò alle sue faccende. Iniziai a cantargli la ninna nanna che cantavano a me e, piano piano, lo vidi destarsi. Quando fu ben sveglio, chiamai di nuovo mia madre; l’uccellino aveva iniziato ad agitarsi, avevo il terrore che soffrisse, che si ferisse, dovevo liberarlo. Portammo la gabbia davanti alla finestra, l’aprimmo e aprimmo la gabbia. L’uccello saggiò l’aria e, pieno di gioia ritrovata, volò fuori, nell’inverno. Sentii, nel vederlo allontanarsi, una parte di me andare con lui là fuori, e continuai a sentirlo anche quando non lo vidi più. Nella perdita, fu un senso di ritrovamento.
L’intensità di quell’incontro è ancora viva, incapace di sbiadire: ogni volta che lo evoco, avverto in esso un eterno presente, come se il senso della vita fosse riassunto in quell’unico giorno. Poco tempo dopo, quando insieme a mia madre accompagnai le sorelle più grandi in gita scolastica, in una piazza di cui non ricordo il nome, riuscii a prendere al volo, con un colpo solo, un piccione. Lo strinsi forte, era tranquillo, io una miscela di gioia e orgoglio, poi lo liberai: mi sentivo un eroe.
In occasione di una vacanza a Bergamo, invece, fui capace di allertare l’intera famiglia: nel vedere un cigno galleggiare elegantemente sull’acqua, lasciai la presa materna e corsi da lui per accarezzarlo. Con grande stupore, vidi la mia piccola mano sparire dentro il grande becco arancio: mi aveva morso!
E, sempre riguardo alle origini di questo mio interesse per i volatili, ricordo che con la mamma andavo a fare spesa in un caseificio, avevano un pappagallo, un ara che tenevano in negozio sul trespolo. Io non sapevo cosa fosse un ara, né un pappagallo, ero davvero piccola. Lui diceva buongiorno, buonasera e come stai, e altre cose che non capivo, poi faceva silenzio e ti guardava. Era inquietante ed affascinante. Mi ricordo che andavo via col latte, la ricotta, le mozzarelle e un groppo in gola per quell'essere.
Quando incontravo i volatili, a prescindere dalla specie di appartenenza, avvertivo l’urgenza di farne esperienza, come se la loro fosse una condizione a me familiare, ma di cui non ricordavo bene la mappatura. Per me il fuori era la possibilità infinita di osservarli, ascoltarli, pregarli. Se oggi potessi parlare alla forma esatta della bambina che ero e le dicessi quanti uccelli ha incontrati nel futuro, lei esulterebbe: era un suo immenso desiderio.
Columba livia, Pistoia 1979.
Ara lacépède, Tenerife, Isole Canarie 1984.
Io, Leo e Lino.
RITROVAMENTO
Il primo mattone della struttura portante di Prendere il volo fu posto nel febbraio 2017, quando, in occasione di una cena coi miei familiari, accadde una cosa insolita. In quell’altrove di nome Facebook, un video da me caricato molti anni prima, diventò improvvisamente oggetto di spropositata attenzione: nel giro di neanche due ore aveva raggiunto le 60.000 visualizzazioni e circa le 400 condivisioni. Mentre io affondavo il cucchiaino nel dolce, lui tagliava il traguardo delle 70.000 visualizzazioni.
Ricordo che, mentre pasteggiavo, una parte di me era ospite rigida e confusa dell’oscura dimora virtuale. Per sdrammatizzare le conflittuali emozioni, coniai ironicamente una frase: «Giusto il tempo di una cena per essere divulgati».
Il video, di natura amatoriale, narrava un’azione di ordinaria quotidianità, fatto per gioco, per prova, per ricordo (erano i primi tempi che possedevo un tablet). Gli ingredienti della proiezione erano: un passero, una canzone, una matita, un foglio e dulcis in fundo, io. Nient’altro. Reputavo giustificati i sentimenti contrastanti che provavo; non riuscivo a capire, a decodificare (o forse non avevo a disposizione gli strumenti necessari per farlo) tutta quell’attenzione. Così, poco tempo dopo, senza pensarci due volte, cancellai il video dalla pagina Facebook.
Il tentativo di dare un nome a quello che in quell’occasione avevo saggiato, mi fece approdare alla conclusione che quello share compulsivo nel giro di pochissimo tempo da parte di estranei, per quanto bello e sorprendente, aveva fatto nascere in me la sensazione di perdita di controllo, di mancanza di tutela per quel ricordo, quel corpicino traboccante di beata intelligenza.
Mi sentii un’irresponsabile e nel rimuoverlo vidi la soluzione adatta per ritrovare pace, equilibrio.
SALVATAGGIO
Ma il ricordo di quel video non fu cancellato: il passero e la sua canzone, forti dei poteri di cui Ermes li ha investiti, continuarono indisturbati il loro volo invisibile e silente, scortando me ignara a quel dì dell’aprile, in occasione della Bologna Children’s Bookfair.
«(…) Messaggero per eccellenza, Ermes è il simbolo dell’industriosa intelligenza realizzatrice e dello scambio fra il cielo e la terra, principio di collegamento, di scambio, di movimento, di adattamento. Egli garantisce il viaggio, il passaggio fra il mondo infernale, terreno e celeste (…) Se a tutto ciò si aggiunge che il suo attributo è il Caduceo, si vede nel simbolo una natura duplice in cui sono presenti principi contrari e complementari.»
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli (Bur, 1986)
Passavo davanti allo stand dei Topipittori, armata di sguardo affilato e ben concentrata sull’obiettivo: come souvenir di viaggio acquistare per mio figlio alcuni titoli fra i molti colorati e ordinatamente esposti. Quand’ecco che Giovanna e Paolo, nel vedermi, uscirono dallo stand e mi vennero incontro. Eleganti e composti principiarono con parole capaci di tatuare l’anima: «Tu sei la domatrice di uccelli?».
Paolo e Giovanna mi conoscevano, avevano visto le foto di uccelli e altre bestiole che avevo condiviso su Facebook, e da intenditori quali sono, ovviamente, avevano fiutato la mia peculiare passione. Tale miscela di circostanze (loro, la loro azione, il luogo, le parole scelte, l’intonazione) ebbe il potere di svuotarmi, lasciandomi con poche sillabe a disposizione e un tatuaggio invisibile. Non ricordo cosa risposi, ma oggi penso che le forti emozioni provate siano state responsabili nel portare fino a me Sette (Corvus monedula) dando la possibilità a questo libro di nascere. Con l’arrivo di Sette nella mia vita, l’interesse di Giovanna per le mie piccole storie crebbe, fino a farci avvicinare: infatti, oltre a essere tutto quel che è, è anche gran paladina delle creature alate.
La frase che mi rivolsero in quell’occasione (io ero davvero una domatrice di uccelli?), limpida, inaspettata e diretta è uno fra i complimenti più originali e belli che mi siano stati fatti.
Sette, Corvus monedula, 2017.
PRIMO SOCCORSO
A settembre, qualche mese dopo l’arrivo di Sette, Giovanna mi propose di costruire insieme un libro a partire dalle storie degli uccelli che nel corso del tempo avevo allevato. Nuovo colpo di scena: mi ritrovai investita del titolo nobiliare di autrice. Fu subito panico, panico che mi indirizzò alla ricerca di risposte e soluzioni idonee. Svolgendo la professione di illustratrice, il mio rapporto con i testi e il loro autore è sempre stato di ausilio all’immagine: l’altrove paterno nel quale le immagini si originano. Nell’illustrazione vedevo più un qui e ora, materno, che si adatta, cura, nutre. Avendo ora la necessità di accedere a quell’altrove, volevo comprendere in modo più esaustivo cosa significasse soggiornarvi.
Definiti i primi dubbi, mentalmente entrai in azione con l’intenzione di superarli cercando risorse utili; feci appello anche al significato simbolico proprio degli uccelli: ciò che, oltre la fisiologia e le abitudini, son capaci trasmettere: la dualità, la comunione degli opposti, l’essere distanti e vicini, alti e bassi, incredibilmente adattabili nel rapportarsi all’ambiente, i cambiamenti, le circostanze, ma anche fermi e irremovibili nei loro princìpi. Mi ispirai a questo esempio, facendo spazio alla mente elastica che dimorava in me: lasciare il conosciuto a beneficio dello sconosciuto.
«Gli uccelli rappresentano gli stati spirituali, gli angeli, gli stati superiori dell’essere. I numerosi uccelli azzurri della letteratura cinese di epoca Han sono delle fate, degli immortali, dei messaggeri celesti. In Occidente come in India gli uccelli si posano gerarchicamente sui rami dell’albero del mondo. Nella Upanishad, essi sono due “l’uno mangia il frutto dell’albero, l’altro guarda senza mangiare”: sono simboli dell’anima individuale attiva e dello spirito universale, che è conoscenza pura. In realtà essi non sono distanti e perciò li si rappresenta talvolta sotto forma di un solo uccello a due teste.»
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli (Bur, 1986)
IDENTIFICAZIONE
L’esercizio che feci nel mettere in rapporto la professione d’illustratore con quella d’autore ebbe la capacità di evocare una curiosa immagine: un uccellino posato su di un ramo. Vedevo in quell’uccellino le gesta dell’illustratore, vispo, consapevole delle sue ali, in cerca di buon cibo e di un luogo idoneo alla nidificazione. Nel ramo riconoscevo l’autore, che si fa albero e più giù radici, terra, oscurità e semi, un sotterraneo eremita con il suo umile lume in cerca di bulbi e germogli a cui dar custodia. Meditando su queste immagini avvertii l’ansia assalirmi: scrivere è difficilissimo, conferisce all’anima solida coscienza.
L’unica cosa che dovevo fare, era iniziare il prima possibile, altrimenti il troppo pensare mi avrebbe congelata, consumata.
DOCUMENTAZIONE
Iniziò così la fase dello studio. Avevo sempre letto abbastanza, prediligendo fiabe, saggi e romanzi biografici con protagonisti animali, ma non era sufficiente, dovevo chinarmi, cercare testi scientifici di professionisti nel settore dell’etologia, della zoologia e dell’ornitologia, con l’obbiettivo di acquisire una geografia linguistica adatta al senso dell’opera. Trovai quel che andavo cercando in autori come Carl Safina, Konrad Lorenz e Giorgio Celli. Inoltre, non essendo né un veterinario né un ornitologo né un etologo né un’autrice (o quanto meno i miei studi effettivi non erano in linea con tali titoli) fu spontaneo chiedermi «Chi sono?». Così alle letture naturalistiche abbinai quelle di carattere psicologico, prediligendo l’approccio Junghiano che rinvigorì il mio spirito.
L’imprevista condizione di autrice mi portò a scoprire nuove forze, nuove fragilità e tante mancanze: i libri e i loro autori detengono poteri illimitati, introspettivi, intramontabili e, per così dire, curativi. Maestri abili, capaci di far risvegliare ciò che in noi giace sopito, sfiorando le corde umane con meticolosa esattezza.
OSSERVAZIONI
Ero consapevole del fatto che le esperienze con gli animali per me non erano state propriamente di carattere scientifico, naturalistico, ma più affini a uno stato d’animo, un luogo domestico, interiore, che di volta in volta mi impegnava in cure e ospitalità. Tutte le volte che ho a che fare con loro, leggo e indago per aiutarli, cercando di fare del mio meglio con le risorse di cui dispongo, immedesimandomi nei vari soggetti al fine di renderli liberi.
Secondo la mia ottica quel che faccio, e in passato ho fatto, con gli uccelli è tanto naturale quanto ovvio, non immagino che quei miei semplici gesti di cura possano avere valore scientifico: per me sono un fatto naturale, in dote a tutti noi. Occorrono solo pazienza e volontà. I volatili di cui narro, nei fatti, avevano condiviso con me fantasie, vita quotidiana, relazioni che in un certo modo custodivo con intima gelosia, così come lo si farebbe con un componente del nucleo familiare. Per me erano spiriti affini, e le loro vite mi vedevano profondamente coinvolta.
Capii che per scrivere bene dovevo distanziarmi da questa posizione, trovare un luogo equo, imparziale e a tratti, perché no, selvaggio. La distanza riuscì a farmi districare dal caos di ricordi e attaccamenti, reperire ordine e coraggio, ascoltare la volontà delle parole, i concetti fluire, liberi e desiderosi di essere fissati.
INSERIMENTO
Determinante nella stesura dei testi è stata l’individuazione delle fasi principali dei miei incontri con gli animali. Ciò che accomunava ognuna di queste storie, nonostante i soggetti appartenessero a specie diverse, era il ripetersi delle tappe: il ritrovamento, il salvataggio, il primo soccorso, l’identificazione, la documentazione, le osservazioni, la riabilitazione, l’inserimento e, infine, quando possibile, la liberazione. Dopo aver definito questa sequenza, iniziai a seguirla e intuii che ero sulla strada giusta: lo scrivere divenne piacevole, sicuro, sciolto, riuscendo a farmi procedere fino al compimento della stesura dei testi.
LIBERAZIONE
Sono immensamente grata a quello che la sorte, il fato, il caso, il destino, o come lo si voglia chiamare, ha saputo riservarmi a questo giro di ruota; a Paolo e Giovanna, che mi hanno dato la possibilità di fare questo viaggio in loro compagnia, e hanno creduto in me e nei miei amici uccelli, nel loro corpo, nel loro essere (questo libro è dedicato anche a loro, i miei editori e al nobile lavoro che da anni svolgono con palpabile amore a beneficio di tutta la collettività); a Silvia, che con le sue sapienti e leggiadre pennellate ha saputo interpretare e cogliere l’essenza di queste creature con magistrale trasporto e competenza; ad Alfiero Pepponi, presidente di Lipu (Lega Italiana Protezione Uccelli) Umbria, che mi ha aiutato a mettere a punto i contenuti scientifici di questi testi.
Esco da queste relazioni arricchita, cosciente del fatto che c’è ancora tanto da fare e con stima mille volte più grande per autori, illustratori ed editori che da tempo svolgono questo prezioso quanto difficile mestiere. Spero, con vivida immaginazione, che Prendere il volo sia veicolo di buone pratiche, di virtù: capace di far volare quanti lo leggeranno, di essere un utile strumento di conoscenza per bambini e ragazzi, di aiutare gli uccelli a essere compresi, sostenuti, amati quali creature meritevoli, nobili e sapienti, che insieme a noi condividono la vita su questo meraviglioso pianeta.
Sette di cuori.
Oggi, più consapevole e distante, condivido il video di Razzo (passero, Passer domesticus) con gratitudine e piacere, probabilmente era proprio questo il luogo per cui era “nato” tanto tempo fa. E aggiungo un video su Sette (taccola, Corvus monedula) e uno su Cinci (cinciallegra, Parus maior).