Una notte scura come la bocca di un lupo

Nuovo martedì per festeggiare i dieci anni degli Anni in tasca. Lo facciamo insieme a María José Ferrada, celebrata scrittrice cilena, autrice di Un albero una gatta e un fratello, di cui abbiamo scelto questo bellissimo capitolo che in una seria Fenomenologia dell'infanzia di certo occuperebbe un posto di primo piano.

Il mio fidanzato si chiama Alberto e abita a una via da casa mia.

Tutti i pomeriggi, quando usciamo da scuola, facciamo quello che fanno i fidanzati: cacciamo insetti e ci arrampichiamo sugli alberi.

Prima di abitare a una via da casa mia, Alberto abitava nel nord del Cile.

– Non c’erano alberi?

– No.

– Non c’erano insetti?

– No.

– E cosa c’era?

– Sabbia.

– Nient’altro?

– Solo sabbia, pampa e fantasmi.

Le storie sulla sabbia e sulla pampa non sono interessanti, quindi Alberto le salta e passa direttamente a quelle sui fantasmi. Ne conosce un sacco. La mia preferita è quella dell’“insabbiato”. Quindi ci arrampichiamo sul gelso e gli chiedo di raccontarmela di nuovo:

C’era una volta un uomo che salì su un treno che attraversava il deserto. Stava andando alla festa di compleanno di uno dei suoi nipoti. Aveva con sé una valigia e, dentro la valigia, dei regali. La metà della sua famiglia andò ad accompagnarlo in stazione. L’altra metà l’avrebbe aspettato alla sua destinazione, che si trovava a due ore di viaggio.

Dopo alcuni giorni, le due metà della famiglia si ritrovarono in una stazione di polizia. Erano state chiamate a testimoniare.

La prima metà disse: “L’abbiamo visto salire sul treno”.

E la seconda metà disse: “Non è mai arrivato”.

E le persone che erano sul treno (anche loro erano state chiamate a testimoniare) dissero che, così come l’avevano visto, d’un tratto avevano smesso di vederlo.

– Era un fantasma?

– No. Non era un fantasma, ma lo sarebbe diventato, – diceva Alberto con la voce più seria che si può avere a dieci anni.

(Mentre racconta la storia, i vicini cominciano a inerpicarsi sui rami del gelso. I più piccoli guardano Alberto con espressione impaurita e vorrebbero scendere, ma i fratelli maggiori non li ascoltano. Non siamo bambini, siamo passerotti, affascinati dalle storie che ci racconta il passerotto che è volato a nord ed è tornato per portarci notizie di quelle terre).

Per molto, molto tempo non si seppe più nulla di quell’uomo.

Finché, trent’anni dopo, un gruppo di archeologi che stava cercando dei resti dei Diaghiti nel deserto, invece di trovare una brocca a forma di anatra o dei vasi di creta, trovò una valigia. Una valigia che dentro aveva dei regali. E, qualche metrò più in là, il corpo di un uomo coperto di sabbia.

– Era luuuuuui?! – gridiamo ognuno dal nostro ramo.

Era successo che l’“insabbiato”, d’ora in poi lo chiameremo così, forse per sgranchirsi le gambe o per chissà quale altro motivo, a una delle fermate era sceso dal treno e aveva fatto qualche passo in avanti.

Il problema fu che:

Non c’era la luna.

Solo sabbia.

Solo pampa.

Nient’altro.

E di sicuro il vento soffiava forte. Così, quando l’insabbiato si guardò alle spalle, il treno non c’era più. Camminò e camminò, ma la sabbia gli appiccicava gli occhi e lui non si accorgeva che in realtà stava soltanto girando in tondo.

Finché non si stancò, cadde a terra e la sabbia fece il suo lavoro: trent’anni più tardi il corpo era ancora lì, sotterrato, intatto.

Alberto pronuncia l’ultima parola della sua storia e scende dal gelso con un balzo.

Noi altri rimaniamo per qualche minuto sull’albero, zitti zitti, immaginando una notte scura come la bocca di un lupo. E l’insabbiato che gira e rigira dentro di lei.

Quando finalmente riusciamo a scrollarci da quella fantasia, Alberto è già quasi sparito in fondo alla via. Ha degli amici laggiù. In quelle vie, che sono solo un po’ più in là e in cui noi non possiamo andare.

Alberto è il mio fidanzato. Lui non lo sa, ma io sì.