[di Michele Longo]
Poiché il tempo è per i bambini un mistero insensato e per gli adulti un mistero doloroso, ho sempre immaginato e fatto immaginare ai miei alunni il trascorrere dell’anno scolastico come un viaggio. Di solito un viaggio per mare, in omaggio alla tradizione dei libri d’avventura. Del nostro naviglio i bambini hanno idee sontuose: galeoni, caravelle e grandi navi da crociera, mentre io vedo sempre un rimorchiatore senza traino, rugginoso e scomodo ma robusto, o una zattera, più o meno à la Delacroix.
È finita la scuola, davvero. La scuola finisce tutti gli anni entro la prima decade di giugno. A guardar bene è impossibile che la scuola non finisca, o continui oltre la data stabilita. Inoltre, la fine della scuola è una notizia anche per chi non ci va: ne parlano i giornali, figuratevi noi, maestre* e bambini. Facciamo il countdown o cerchiamo di non farlo, ci sbracciamo alla manovra o continuiamo a scrivere nel rigo piccolo come niente fosse, ma a un certo punto il calendario getta l’ancora, i galleggianti sbattono contro il molo e mettiamo piede a terra, frastornati.
Prima di continuare mi occorre dare una spiegazione e fare, contestualmente, un piccolo coming out: sono un maestro con l’ambigua funzione “ciclo precedente”. Per chi non è del mestiere, significa che ho già seguito una classe dalla prima alla quinta nella scuola dove lavoro. Il ciclo precedente conferisce un quantum di prestigio-anzianità, e ha un uso esclusivamente retorico: nel ciclo precedente, a quest’epoca avevamo già fatto gli Ittiti, me lo ricordo benissimo, mammamia come siamo indietro, eccetera. Nel ciclo precedente proponevo ogni anno un’attività artistico-rituale per aiutarci a realizzare che la scuola stava finendo davvero, che eravamo al termine del viaggio. Portavo moltissime scatole da imballaggio di diverse dimensioni e i bambini le trasformavano in bauli, valigie, scrigni e stive che riempivano di fogli scritti e disegnati (spesso anche arrotolati e sigillati) che rappresentavano luoghi, creature, oggetti, ricordi. Mi divertivo molto, anche a battere i negozi di quartiere chiedendo scatole di cartone da portar via. Credo che sia importante e bello, nella vita di un gruppo, accorgersi di quello che succede mentre succede, e celebrarlo.
Quest’anno mi sono trovato ben oltre i primi segni dell’arrivo - rametti galleggianti, uccelli di terra, pesci d’acque salmastre, sbadigli, sbatter di finestre dell’attenzione, smottamenti del cognitivo – senza l’ispirazione per le scatole, e senza un’idea alternativa. Mi dispiaceva, ma tant’è. Un po’ di ispirazione ci vuole proprio, almeno per le cose gratuite. Stavo già per mettere l’attività rituale di fine anno nell’elenco degli ammanchi, dei peccati per omissione, dei rammarichi, delle rampogne tutte per sé che noi maestre redigiamo con cura alla fine di ogni anno scolastico e cestiniamo a un certo punto delle vacanze, dopo averne ricavato una lista di buoni propositi per l’anno a venire. Poi ho deciso di giocare un Jolly. La carta “Vediamo cosa fanno i bambini”. I bambini a scuola fanno sempre qualcosa spontaneamente, ognuno per suo conto, in piccoli gruppi, ma a volte tutti insieme, connessi in modo invisibile come gli alberi delle foreste con la loro rete sotterranea di radici e colonie di funghi. Il Jolly “Vediamo cosa fanno i bambini” è una carta rara, e va usata con discernimento. Spesso i bambini fanno casino, o litigano, come attività spontanea. Non si gioca il Jolly per disperazione, senza avere in mente un piano B, anche minimo, anche solo una trista scheda didattica: colora e ritaglia l’allegoria dell’anno scolastico, poi scrivi cinque parole capricciose in corsivo. Prima di giocare il Jolly, soprattutto, occorre capire che aria tira.
Arrivo l’ultimo giorno all’inizio dell’intervallo lungo, quello tra la mensa e le lezioni del pomeriggio. Aria giusta. Trovo i bambini in pieno fermento organizzativo. «Possiamo uscire in corridoio?» «Sì. Cosa state facendo?» «Il mercatino!» «Ah, ben». È un mercatino dell’artigianato. Si vendono ventagli, portafogli, borsette realizzati in carta da riciclo, fogli stampati da un solo lato che i genitori con uffici non ancora dematerializzati ci regalano. Tutto costa cinquanta centesimi. Disegno una moneta con la stilografica maestro e compro un ventaglio. Li guardo. A me piace guardare i miei alunni quando giocano, ma lo faccio anche con intenzione per così dire professionale. Si capisce molto, guardando un gruppo di bambini che giocano. Ci sono quattro banchetti di vendita lungo il muro del corridoio, mentre in classe si trovano le manifatture. Gli artigiani vendono i prodotti ai mercanti, che li vendono al pubblico. Le banconote se le fa ognuno per sé. A parte una certa approssimazione sul diritto di battere moneta, questo mercatino mi sembra molto avanzato, considerando poi che in seconda, nella materia Storia, si studiano i mesi, le stagioni, i minuti eccetera: cose dell’opaco mistero del tempo che impara solo chi le sa già. Tira l’aria di indaffarato fervore dei giochi belli. Partecipano tutti, tranne un gruppetto che costruisce un garage modernista di cui ammiro la tenuta statica del solaio prima di scoprire che si appoggia sul grosso volume Taschen Fiabe d’inverno.
È molto raro che una classe intera organizzi spontaneamente un gioco a cui partecipano tutti o quasi. Per un gruppo numeroso inventare un gioco, organizzarlo e portarlo avanti senza un capo e senza regole definite è un’impresa difficilissima, se ci pensiamo. Ogni volta che succede ho la sensazione di essere testimone di un momento magico. So che i momenti magici finiscono e che devono finire, altrimenti ci sarebbe quasi da aver paura, ma ogni volta vengo preso da una punta di dispiacere preventivo. Intanto contribuisco al gioco nel ruolo del furiere lassista e svogliato. «Maestro possiamo prendere un po’ di scotch di carta?» «Sì» «Possiamo prenderne un altro pezzo?» «Sì» «Possiamo ancora?» «Prendete tutto il rotolo, e sia» «Le forbici dei grandi, possiamo?» «Sì» «Possiamo la pinzatrice?» «La pinzatrice non funziona» «Oh..» «Però potete andare dalla maestra della II A e chiederla in prestito, buttandovi in ginocchio».
Il mercato tira, i prezzi salgono. Tutto a due euro. Tutto a cinque euro. Tutto a duemila euro. Cominciano a mostrarsi i primi segni di uno scontro di classe, in senso marxista, oserei dire. I produttori lamentano che i mercanti pagano troppo poco. I mercanti dicono facciamo come ci pare. Suggerisco ai produttori lo sciopero, ma una volta spiegato cos’è non pare divertente. Intanto mi sono accorto che un capo del gioco c’è, ed è L., nuovo inserito quest’anno, autentico bambino combinaguai ottocentesco alla Huckelberry Finn, di vario ingegno ma - a ogni apparenza - privo di qualsiasi skill da leader. Ora è preso da un tale fervore per il gioco e ci butta dentro una tale abbondanza di idee che gli altri, con un pragmatismo bambino a presa rapida, accettano che comandi – per questa volta. È una piccola magia nella magia, ma non deve saperla nessuno.
Sono le tre passate. Giocando d’anticipo sulla fine dell’incantesimo dichiaro chiuse le transazioni, impongo lo sgombero del mercato, ufficializzo il termine dell’intervallo, finito peraltro da oltre mezz’ora. Mi tocca cacciare un paio di urli, ma li avevo messi in conto.
Tornando a casa penso con concentrazione fluttuante e alterata dall’euforia delle Vacanze che la carta Jolly ha funzionato. Ci hanno pensato i bambini al rituale di fine scuola, e invece di celebrare quello che io pensavo indispensabile - i cavallier, l’arme, gli amori, gl’albi illustrati, i mostri, gli errori, le sillabe, le matite di grafite – hanno celebrato quel che interessava loro davvero per salutarsi: giocare, insieme, bene.
Tutte le fotografie di questo post sono di Robert Doisneau (1912-1994) che sul mondo infantile ha posato uno sguardo acuto, attento, generoso.
*Sì, lo so, qualcosa non torna nel genere di questo noi. È che non posso, e poi non voglio, cedere al maschilismo della morfologia italiana e via a scrivere “noi maestri”, manco la scuola fosse una spelonca maschile e sudorosa, tipo la palestra di Fight Club. Sia il numero a fare il genere, ancora una volta, e viva le maestre, noi, che ce l’abbiamo fatta anche quest’anno.