[di Elena Dolcini]
Si è appena conclusa Di chi è questo mio corpo?, mostra collettiva da me curata, promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e da questa ospitata nei suoi spazi espositivi denominati “Arte al Monte”.
Moltissime scuole di diversi ordini l’hanno visitata, coinvolgendo insegnanti, bambini e ragazzi, dai 3 ai 18 anni, e realizzando così l’obiettivo di partenza del progetto, ovvero l’inclusione attiva dell’infanzia e dell’adolescenza all’interno del dibattito artistico contemporaneo.
Bambini e ragazzi hanno partecipato a visite interattive al cui centro sono state le loro verbalizzazioni, considerazioni, opinioni di persone non addette ai lavori, la cui fruizione è solitamente caratterizzata da un atteggiamento spontaneo, che sia di approvazione o avversione, non accompagnato da una consapevolezza artistica, se non nel caso di alcuni ragazzi delle medie e delle superiori.
Il tema della mostra, che ha incluso opere di Antonella Abbatiello, Cesare Biratoni, Massimo Caccia, Federica Calzi, Patrizio di Massimo, Michela Liverani, Monica Ragazzini e Sergio Ruzzier, è stato il corpo, i corpi in relazione, fermi o in movimento, non solo di esseri umani, ma anche di altri esseri viventi, organici e inorganici; la scelta dell’argomento è apparsa piuttosto ovvia pensando al corpo come primo linguaggio di un’infanzia, che, per quanto in forma di intuizione, in questo si riconosce.
Come curatrice, ho accompagnato le classi che hanno visitato la mostra, proponendo loro attività diverse a seconda dell’età dei partecipanti; soprattutto per i più piccoli – mi riferisco ai gruppi della scuola dell’infanzia e alle prime classi della scuola primaria – ho progettato una visita partendo dal pensiero della professoressa di pedagogia Laura Formenti (Università degli studi Milano-Bicocca):
Il primo gesto della formazione allo sguardo, paradossalmente, è proprio rinunciare alla vista. Chiudere gli occhi per lasciare emergere gli altri sensi, marginalizzati dal dominio del visivo. Fare altro (da Immagini come alfabeto. La dimensione pedagogica della fotografia, Silvana Editoriale).
Ho così proposto attività e giochi che coinvolgessero non solo la vista, ma anche l’udito e il tatto, invitando i bambini al movimento, a familiarizzare con l’ambiente, nella convinzione che l’esperienza artistica inizi dalla considerazione del proprio corpo nello spazio, dal come si abita il luogo della mostra.
Ad esempio, un gioco si è svolto a coppie: un bambino guidava davanti a un’opera l’amico con gli occhi chiusi a cui dava la mano; la persona con gli occhi aperti descriveva l’immagine a quella che non la vedeva; così, da un lato il bambino che parla si esercita nell’atto del guardare e dell’articolare in maniera più o meno discorsiva l’oggetto della sua visione, dall’altro il bambino con gli occhi chiusi immagina, prova a visualizzare ciò che gli viene descritto.
Un altro gioco che ha divertito molto i bambini è stato quello del riconoscimento delle loro voci: le classi sono state divise in due gruppi separati da un muro, all’interno di due stanze comunicanti: ritualmente portavo un’opera mobile, facilmente spostabile e in sicurezza, davanti agli occhi del bambino desideroso di parlare e gli chiedevo di descriverla ad alta voce, nel silenzio dell’ascolto degli altri; il gioco non finiva fino a quando il gruppo nell’altra stanza non riconosceva il parlante urlando il suo nome.
I bambini sono all’inizio del mondo, i più vicini alla vita, abitano sul bordo del cerchio della verità, sulla soglia del linguaggio. I bambini dissequestrano le parole, le scompaginano, le ricompongono, trovano nel dire l’essere che manca all’esistente. Le loro parole si confondono con il suono della voce che modulano. (da Bambini in filosofia di Giuseppe Ferraro, Castelvecchi).
Poi ci sono stati gli indovinelli: la loro soluzione era da ritrovare tra le opere, cercando nasi raffreddati, limoni, nuvole, camicie, come quella rossa della fotografia di Monica Ragazzini, tanto evocativa nella sua presenza fantasmatica da permettere a un gruppo di attente osservatrici di una scuola media di intuire il lavoro dell’artista sulla madre e i suoi abiti, pur non avendone ancora sentito parlare.
Monica Ragazzini, The Red Silk Shirt, 2023, 45 x 30 cm, stampa fotografica. Courtesy l’artista.
Tra le risposte agli indovinelli, un dito indice, quello di Susanne Martinet, fotografata da Michela Liverani durante un suo laboratorio, che tanto racconta della relazione tra creare e osservare, tra soggetto e contesto, da cui l’arte e le mostre non possono prescindere.
L’immaginazione è un’attività data per scontata quando ad utilizzarla è l’artista che crea; non sempre, d’altro canto, il visitatore di una mostra pensa di avere un ruolo attivo nella sua esperienza, limitandosi invece ad osservare il visibile e precludendosi la possibilità di immaginare fenomeni, elementi fuori dal quadro e situazioni a cui questi alludono.
Alcune delle opere presenti in mostra hanno favorito un utilizzo dell’immaginazione anche negli adulti e nei bambini visitatori: penso ad esempio a un acrilico quadrato di piccole dimensioni di Massimo Caccia, dove l’artista sceglie di dipingere solo una zampa/mano che afferra una coda, la parte terminale di qualcosa o qualcuno; o a un olio su tela di Cesare Biratoni, dove il pittore dipinge una superficie chiara, che potrebbe rappresentare un telo sotto al quale non si sa cosa ci sia. Nel primo caso i bambini immaginano ciò che accade fuori dal quadro, nel secondo ciò che può stare sotto l’oggetto rappresentato, in entrambi i casi, il non visibile.
Massimo Caccia, Senza titolo 2018, 25 x 25 cm, acrilico su carta. Courtesy l’artista.
Cesare Biratoni, Senza titolo, 2020, 50 x 40 cm, olio su tela. Courtesy l’artista e Cardelli e Fontana, Sarzana.
Mi ha colpito molto come, nel caso del 'telo', alla mia domanda “Che cosa può esserci sotto?”, quasi tutti i bambini abbiano risposto qualcosa, che fosse qualcosa di materico e concreto, come un camion dei pompieri, una sedia, o qualcosa di più astratto, come la felicità, ma che mai abbiano risposto “Niente, non c’è niente sotto il telo”.
Solo un bambino di cinque anni istintivamente ha sussurrato un “Niente”, ma deve avere cambiato immediatamente idea, nel momento in cui ha visto la mia espressione notevolmente colpita; la mia irrequietezza cognitiva deve averlo inibito e si è messo a ridere, senza proseguire e articolare la sua risposta.
Non esistono gentilezza-bambina e puntualità analitica più eloquenti di quelle delle parole di Gianni Rodari, grande ammiratore di Sartre, che nella Grammatica della Fantasia si riferisce all’essere e al nulla, minuscolo e maiuscolo. Già la prima infanzia abita scomodamente il pensiero dialettico tra una presenza come essere e un’assenza come nulla, ad esempio mettendosi in gioco cognitivamente ed emotivamente nel pensare a come sia possibile che la persona amata sia sempre presente, seppur non visibile davanti agli occhi.
"Sono convinto che il bambino cominci abbastanza presto a intuire questo rapporto tra essere e non essere. Talvolta lo potete sorprendere mentre abbassa le palpebre per far sparire le cose, le riapre per vederle ricomparire, ripetendo pazientemente l'esercizio. Il filosofo che si interroga sull'essere e il nulla, usando le maiuscole che toccano di diritto a questi rispettabili e profondi concetti, non fa in sostanza che ripetere, ad alto livello, quel gioco infantile". (da Grammatica della fantasia, di Gianni Rodari, Einaudi).
In questa dialettica tra l’essere e il nulla, un posto di rilievo è occupato dal minimale, che è ancoraggio, ordine, semplicità e complessità insieme: molti bambini e ragazzi hanno ammirato anche divertiti le opere di Antonella Abbatiello, otto facce, tra cui un ovale, bianco, l’'uovo' per i bambini della scuola dell’infanzia, il cerchio che facevamo insieme, che spesso non riusciva rotondo ma oblungo, la forma attraverso cui poter studiare la storia dell’arte per i più grandi.
Antonella Abbatiello, Ovale, 2013, 20 x 40 cm, stampa su carta. Courtesy l'artista e Topipittori.
L’interattività delle visite è stata finalizzata al coinvolgimento dei bambini più piccoli, alcuni dei quali sono stati loro stessi sorpresi da questo tipo di conduzione – Blanca, 6 anni, dopo 40 minuti di gioco, attività, indovinelli, mi chiede: “Quando inizia la visita?”; in questo modo, il loro punto di vista diventa un nodo fondamentale nello svolgimento dell’incontro, rendendo ogni visita diversa dalle altre.
La cultura dell’infanzia è veramente tale solo se la intendiamo come genitivo soggettivo; parafrasando il pensiero della prof.ssa Silvia Demozzi, l’infanzia non solo subisce passivamente e inevitabilmente la cultura dominante, attraverso insegnamenti consolidati e orientamenti ideologici, ma è anche capace di crearne una di cui è soggetto pensante, a cui l’adulto guarda per apprendere a sua volta.
All’interno di una mostra sarà certamente importante la guida di una persona che conosce le opere, sa creare tra queste connessioni e le sa contestualizzare, rendendole interessanti per un pubblico giovane, ma altrettanto importante sono i commenti dei bambini, soggetti di un pensiero divergente, che, nel non ripetere il punto di vista dell’adulto, aprono strade entusiasmanti, cambiando drasticamente la rotta tracciata dai grandi e valorizzando l’in-valorizzato.
Ogni commento dei bambini e ragazzi è stato importante, ma qui per motivi di spazio ne riporterò solo alcuni.
Sia all’inizio sia al termine della visita, ho spesso chiesto ai bambini cosa fosse il corpo, ricevendo alcune delle definizioni più appassionate ed esatte che abbia mai sentito: alcuni, utilizzando l’indice con la vitalità e l’esuberanza solo dell’infanzia, hanno risposto “Questo”, anzi, “QUESTO”, toccandosi o solo alcune parti precise del proprio fisico o, una dopo le altre, la testa e i piedi a indicare tutto quello che sta nel mezzo.
Alcuni hanno risposto “Siamo noi”, sottolineando inconsapevolmente la filosofica differenza tra l’essere e l’avere un corpo; altri ancora lo hanno definito come una casa, un tempio, addirittura un parco giochi perché “Al parco, anche senza palle o scivoli, posso giocare con le mani, i piedi, con le espressioni del viso”. (Nina, 9 anni). C’è chi lo pensa un albero, composto da elementi visibili e invisibili, dalle radici che affondano nel terreno, in relazione agli altri suoi simili; chi dice che è un ambiente, intuendo l’ineliminabile relazione, a tratti sovrapposizione, tra la materia di cui siamo fatti, sia questa extensa e cogitans, e l’esterno, il mondo che ci circonda, ci abbraccia o ci assale.
Ho avuto il grandissimo onore di assistere a quello che si sarebbe potuto sviluppare, con più tempo a disposizione, in un raffinato dialogo filosofico tra una posizione soggettivista, convintamente antropocentrica (Amira, 6 anni), e una più orientata verso un’ontologia degli oggetti, a metà tra la predisposizione scientifica individuale del bambino e l’animismo magico tipico dell’infanzia (Alessandro, 6 anni): da un lato il corpo come strumento con cui possiamo fare ogni cosa, da noi attivata e plasmata, dall’altro i fenomeni che accadono indipendentemente da noi, gli oggetti che si muovono senza il nostro intervento.
Spesso ho utilizzato una cornice in legno per ragionare insieme ai bambini sul dentro e fuori campo delle immagini, di cui Angelica (8 anni) parla con grande precisione, riferendosi a ciò che indica il mostro di Sergio Ruzzier, “Essere sia realistico sia fantastico”, in uno dei due Disegnini: “Qualcosa che è fuori dalla tela, che non vediamo”.
Sergio Ruzzier, Disegnino, 2023, 2 x 1,5 m, tela in cotone. Courtesy l’artista.
Con i bambini piccoli, la cornice mi è servita per poter nominare le parti del mio corpo dentro all’immagine delimitata dal legno e distinguerle da quelle fuori; un bambino di 5 anni, alla mia domanda “Che cosa c’è dentro la cornice?”, ha risposto non elencando le parti del mio corpo incluse dentro il campo, bensì ciò che lui vedeva dietro di me, in quel caso, le fotografie di Federica Calzi. Le sue parole dimostravano come il suo pensiero fosse andato oltre la mia richiesta per accennare, seppur inconsapevolmente, alla relazione figura-sfondo, così centrale trasversalmente in tutta la pittura.
Michela Liverani, L'espressione corporea, disciplina artistica, pratica in cui si assapora il piacere gratuito della ricerca, 2019, 100 x 70 cm, stampa fotografica. Courtesy l’artista.
E, come sempre, mi hanno colpito quelli che sono errori lessicali solo a metà, perché espressioni di un vissuto che emerge attraverso il linguaggio, di abitudini non solo individuali, ma anche collettive, che meritano di essere discussi: ad esempio, copertina al posto di cornice, o schermo al posto di sfondo.
Spesso il corpo dei bambini eccede, straborda i confini di un dentro che è sentito come limitante; così succede anche durante la visita a una mostra d’arte: alcuni bambini sentono il bisogno di correre per cercare di mettersi a loro agio, altri desiderano essere presi per mano, altri ancora, ognuno con il proprio ritmo, si avvicinano e condividono le loro impressioni sottovoce, seguendo i movimenti di chi è lì per raccontare. Questo a testimonianza di come la relazione con lo spazio sia il presupposto per l’esperienza artistica di qualunque tipo; sia per una bambina che può addirittura collegare due sale diverse, attraverso un elemento ricorrente in due opere – il telo - (Anita, 7 anni), sia per un ragazzo delle scuole medie o superiori, che osserva più tecnicamente come lo spazio sia la condizione di ogni allestimento.
Se l’esperienza del proprio corpo nello spazio è stato il filo conduttore delle visite dall’infanzia ai primi anni della scuola primaria, i ragazzi più grandi sono stati coinvolti in un’attività di lettura di un’immagine precisa scelta da loro: la classe, divisa in gruppi, ha compilato un questionario composto da domande alcune più visivo/oggettuali e altre più interpretative e soggettive; al termine dell’attività ci siamo seduti in cerchio per condividere, discutere e riflettere sulle loro risposte.
Sia nei bambini più piccoli, sia nei ragazzi più grandi, è emersa una tendenza naturale ad immedesimarsi con il soggetto dell’opera: mi ha colpito l’empatia espressa da molti nei confronti degli animali uno sopra l’altro di Massimo Caccia, per cui hanno provato compassione, considerando la fatica che “devono fare quelli più in basso nella torre di animali”.
Spesso nelle immagini andiamo alla ricerca di avvenimenti della nostra vita, di soggetti a noi familiari, in esse sentiamo il bisogno di riconoscerci; quindi, non è un caso che, alla domanda “C’è un’opera che ti piace più delle altre?”, alcuni bambini abbiano risposto indicando la fotografia di Federica Calzi che ritrae una donna incinta all’interno di una cameretta, probabilmente riconoscendo molte fotografie della propria mamma, o quella che vede due sorelle appoggiate alle gambe di una madre che sta abbracciando le proprie figlie, o gli acquerelli di Patrizio di Massimo, dove l’artista dà il biberon alla propria bambina di qualche mese.
Federica Calzi, Il corpo è un paesaggio, il paesaggio ha un corpo, 2021, 70 x 100 cm, stampa fotografica. Courtesy l'artista.
Un discorso a sé meriterebbe il riconoscimento, avvenuto o meno, da parte degli osservatori, della figura paterna messo in gioco da queste ultime opere, una serie di cinque acquerelli che ritraggono gli stessi soggetti, il padre e la figlia, ma diversi in ogni immagine per colori e dettagli: solo in un’opera l’adulto ha barba e baffi, mentre nelle restanti quattro, il suo volto è colorato da sfumature rosee, i suoi occhi hanno lunghe ciglia. Moltissimi bambini, tra i più piccoli, hanno identificato questa figura accudente con la mamma e non con il papà; alla mia richiesta di spiegazioni, hanno motivato la loro risposta indicando proprio le fattezze del volto, escludendo il soggetto con la barba, che sarebbe stata “un’altra persona”.
In questo modo diventa ancora più chiara e importante la volontà dell’artista di attuare una variazione sull’iconografia 'mamma con il bambino', già così ben definita anche nella mente dei più piccoli, che sia per esperienza personale o per osservazione.
Patrizio di Massimo, Autoritratto con Diana IV e I, 2020, acquerello su carta, 32 x 24 cm. Courtesy l'artista e T293, Roma.
Questo e molto altro è emerso ed emergerà con il tempo dalla mostra, anche grazie alle attività che le insegnanti hanno o potranno proporre in classe, in modo che l’esperienza artistica fatta non sia una semplice uscita didattica a spot, ma parte di un programma trasversale che valorizzi il corpo, le intuizioni e concettualizzazioni dei bambini, così come le loro emozioni. Con alcune di loro c’è stato un dialogo complice ed appassionato, sostenuto dalla condivisione di visioni e prospettive, nel micro e nel macro.
Se “una mostra è come una piazza”, per usare le parole di Tiziana Filippini, pedagogista e psicologa di Reggio Children, questa deve favorire la partecipazione di tutti, dei bambini che sono già fruitori d’arte e di quelli che non hanno con questa familiarità, non proponendo immagini semplici e didascaliche che massaggiano l’occhio di un osservatore pigro, ma scegliendo di impegnarci tutti insieme, grandi e piccoli, nella lettura e nell’interpretazione di qualcosa di nuovo, che può apparire 'senza senso' o 'strano', come alcuni bambini hanno detto, in un processo di costruzione di significato che possa essere condivisibile.