Aprire e chiudere una porta è un piacere che i re non conoscono

[Intervista collettiva a Roberto Papetti]

A conclusione della mostra Poetica del gioco che si è svolta a San Giorgio di Nogaro (Ud) dal 30 gennaio al 5 giugno 2022, la Biblioteca Villa Dora ha pensato di realizzare un’intervista collettiva all’artista e giocattolaio Roberto Papetti, protagonista dell’esposizione. Sono state raccolte domande, riflessioni, osservazioni emerse nei quattro mesi di apertura, da parte di bambini, insegnanti, animatori e visitatori. Tra le centinaia di domande pervenute ne sono state selezionate una dozzina, alle quali Roberto Papetti ha gentilmente risposto.

Roberto Papetti.

Papetti è un nome che di per sé assomiglia a un gioco. Suona bene. Ricorda la parola puppet ma anche paper. Ci avevi mai pensato? Come ti chiamavano da bambino?

I compagni di gioco mi hanno dato diversi soprannomi: Pappo, Papocchio, Pastrocchio, Pata zu… Tutte alterazione del mio cognome. Da piccolo sembravo un piccolo aborigeno australiano capitato per caso sulla costa romagnola. Magro, ossa grosse e sporgenti, pelle scura, d’estate stavo ore nell’acqua del mare e poi a rosolarmi al sole. I ragazzi più grandi mi canzonavano, si divertivano a buttarmi in acqua dal molo del porticciolo, io mi divincolavo e sfuggivo alle loro prese prepotenti grazie alla pelle viscida come quella dell’anguilla. Mi canzonavano dicendo: «Pa Ta zu, ti buttiamo giù, ti buttiamo giù». Crescendo ho ricevuto altri soprannomi: in paese, ancora oggi, mi chiamano Lumi, abbreviazione di Lumumba, un famoso leader del Congo belga, poi Lumumbino e infine “Lumi” inteso come uno che ha lampi di idee.

Qual è il primo gioco con cui hai giocato?

I primi giochi sono stati quelli con gli elementi naturali: l’acqua del mare in primo luogo, la terra delle strade non asfaltate, le dune di sabbia, l’aria e i venti stagionali. La bora, per esempio, un vento che viene da Nord est e che sulla costa quando tira bisogna tenersi aggrappati a qualcosa per non volar via. È la passione per il vento che mi ha portato poi a costruire aquiloni, girandole, banderuole segnavento, maniche a vento, mongolfiere. Anche i prati attiravano l’attenzione, i fiori di primavera: la pratolina, la pimpinella, il trifoglio, il tarassaco, l’erba Roberta, l’erba viperina, il lino malvino, il papavero, e il meraviglioso fiordaliso di color blu cobalto. Mi piaceva molto arrampicarmi sui pini, star appollaiato in alto sui rami e guardare il cielo, intagliavo con un coltellino la corteccia per fare ciondoli a forma di barchetta, di sirena o di delfino.

Qual è il primo gioco che hai costruito?

I miei genitori non hanno mai donato, a me e ai miei fratelli, dei giocattoli. Neanche per le festività di Natale o dell’Epifania, dove nella calza i genitori mettevano solo qualche dolcetto e un pezzetto di carbone. Bisognava così darsi da fare per costruirsi i giocattoli da soli. Ricordo bene un piccolo cagnolino fatto con la carta stagnola di un pacchetto di sigarette e il signore che mi ha insegnato a farlo. Si chiamava Miglietto, era lo strano del paese, tutti lo prendevano in giro perché era catatonico, si muoveva come fosse addormentato, lentamente, con gli occhi semichiusi e la parlata strascicata quasi da balbuziente. Era un uomo che aveva fatto la guerra in Etiopia ed era tornato gravemente ferito e traumatizzato. Era un uomo mite e generoso a cui ridevano gli occhi quando faceva le sue piccole invenzioni. Quando capitava tra i bambini, qualcuno lo fuggiva impaurito, a chi aveva il coraggio di stare con lui, donava o insegnava a costruire piccoli animaletti di carta stagnola che tirava fuori dal pacchetto di sigarette. Con lui ho scoperto la magia delle dita che manipolano i materiali più vari e l’importanza dell’attenzione da rivolgere alle cose che si fanno con passione e gratuità. Penso che lui sia la prima persona verso cui ho provato una specie di devozione.

Gli aerei che costruisci riescono a volare?

Certamente, quattro cinque modelli che ho memorizzato non li sbaglio mai. Ma sai quante ne ho sbagliati prima di arrivare a farli perfetti ed efficienti? Perché si diventa costruttori sbagliando, come dicono i sapientoni, nell’errore c’è tanta energia. Non hai idea di quanti tentativi ho fatto prima di giungere al risultato finale di un certo giocattolo. In questo momento sono alle prese con una bambola semovente la cui gonna è un cielo stellato. Deve rappresentare gli infiniti mondi che stanno oltre quello che percepiamo sempre in movimento, attorno il nostro pianeta. Ha le gambe dipinte su una ruota di stelle che rotolano sul pavimento per dare la percezione che cammini.

Perché fai giocattoli solo per i Baby Boomers? Non hai mai pensato di fare un giocattolo elettronico?

Non ho mai pensato di fare giocattoli per la generazione del boom anni '50-'90. Lavoro per portare a bambini e adulti interessati l’idea che il giocattolo si può fare con le proprie mani, con poco o niente. Mi piace molto che una volta usato si degradi, perché torni là da dove era venuto e non finisca in una raccolta differenziata. Secondo questa idea il giocattolo è un pezzo unico, irripetibile, uno strumento che esprime condizione di naturalità, di precarietà, di gratuità poetica. Per fare questo, studio famiglie di giocattoli di tutto il mondo e di tutti i tempi, riprendo tipologie che mi portano dalla ripetizione differente a nuove scoperte. Scavo nel mondo antico e moderno e mi interrogo sul fascino di quelli lontanissimi nel tempo, che paradossalmente, come i classici della letteratura, sono antichi ma non invecchiano mai, sono immortalità all’indietro. «Nei giochi dei bambini è nascosto un segreto» dice infatti il filosofo. Penso che ci sia tantissimo ancora da scoprire. Non sento la necessita di progettare o realizzare giocattoli elettronici che richiedono competenze tecniche complesse, l’uso di materiali dai costi proibitivi. Soprattutto mi costringerebbero a lavorare a progetto e produrre per il mercato, le mode del momento, la competizione economica. 

I bambini e le bambine costruiscono spesso i giocattoli con i papà e con i nonni, come mai secondo te questa predominanza del maschile?

Non credo ci sia una predominanza del maschile. I bambini maschi costruiscono sempre meno ma qualcosa fanno, con papà e nonni, e così le bambine più attive e orientate su giocattoli di genere femminile. Meglio sarebbe dire costruivano e collezionavano, ora i giocattoli si comprano belli e fatti nei supermercati. Vedo ogni tanto una nonna che porta in edicola il nipotino e gli compra qualche bustina di figurine per partecipare al gioco del collezionare. Come accadeva un tempo per bottoni, tappini, accendini, biglie di vetro, lattine di birra, fischietti di terracotta. Oggetti per niente strani, che richiedono depositi inconsueti, ripostigli segreti dove nasconderli. Anche questo è un gioco. 

In occasione di una visita alla mostra una signora che non poteva salire le scale ha dovuto utilizzare il montacarichi. A conclusione della visita, quando abbiamo chiesto quale era stato il gioco più bello, lei ha risposto «Prendere il montacarichi!». Quindi, cosa vuol dire questo? Che il gioco è ovunque e ha a che fare con le esperienze che deviano rispetto alla retta via?

Che bella storia e che bell’enigma! Il montacarichi aveva probabilmente suscitato la sorpresa della prima volta, oppure l’occhio incantato della signora che ha saputo vedere ciò che non pensava potesse esistere. Il giocattolo, si sa, può essere in ogni dove e comincia sempre con un “facciamo finta che”. La mostra di Villa Dora ingloba ogni cosa che le sta attorno, crea proiezioni affettive e fantasticazioni, che suscitano stupore. Prendiamo la porta: aprire e chiudere una porta è un piacere tutto nostro, che i re non conoscono. La porta ha una soglia che sta tra il fuori e il dentro, come la nostra mente. La porta ha cardini, serratura, maniglia, spioncino. Ruota, si affaccia su un corridoio che porta in angolo lontano, oppure no. La scala credo sia uno dei posti dove ho più giocato da bambino, giocavo a salire, scendere da un piano all’altro. Ci sono scale vanitose, scale collaborative, scale ostili che fanno venire il fiatone. Ci sono scale solenni dove scendono le bande musicali, scale che esibiscono il collegamento tra la Terra e il cielo, c’è un montacarichi… appunto. Forse montacarichi è un altro nome dell’unicorno.

Nel costruire il suo Pacifico una bambina ha deciso di dotarlo anche di una borsa. Quando le è stato chiesto il perché lei ha risposto «per portare la pace». Ci sembra una cosa bellissima, l’idea della pace da portare in giro e tenere sempre con sé. Tu cosa ci metteresti dentro a quella borsa?

La stessa cosa che ha messo la bambina, il sogno di un mondo senza la guerra.

Pacifici e biglie a Villa Dora.

Dici che se ci fosse un ministero del gioco (ma gioco gioco, non gioco d'azzardo) saremmo tutti più felici?

Ci fosse un ministero del gioco non vorrei più giocare. Non ci può essere gioco istituzionalizzato, stabilito da leggi, disposizioni, controlli e apparati di gestione, anche con tutta la buona intenzione di portare felicità. Gioco non è il mondo della vita “ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quel mondo, per entrare in una sfera temporanea di attività con nessun’altra finalità se non il divertimento. Un signore, che molto ha scritto sul gioco, racconta questa storiella: «Un papà trova il figlio di quattro anni intento a giocare a ‘trenino’ seduto sulla prima fila di sedie. Egli abbraccia il bimbo, ma quello gli dice: “babbo, non devi baciare la locomotiva, se no i vagoni credono che non sia una cosa seria». Può stabilire un ministero del gioco, se baciare o non baciare una locomotiva, se i vagoni sono o non sono una cosa seria? È possibile istituire un ministero dell’indefinibile e dell’ambiguità?

Una bambina a cui hai regalato delle biglie non riusciva più a separarsi dal suo sacchetto e continuava a toccare le biglie come se fossero dei veri e propri talismani. I giocattoli sono anche questo? Ci proteggono?

Il gioco ha radici storiche nell’animismo, nella magia e nella divinazione. Molti, e io tra questi, pensano che i giocattoli cioè i congegni che i bambini si costruiscono per giocare, siano talismani, cioè portatori di figure, colori, sapori, suggestioni, capaci di dare protezione, quindi da portare con la mente e con il cuore. Il gioco per i bambini, vuol dire gioia di vivere, voglia di magia e felicità. «I bambini come le creature delle fiabe, sanno perfettamente che per essere felici bisogna mettere dalla propria parte il genio in bottiglia, tenere in casa la gallina dalle uova d’oro. E, in ogni occasione, conoscere la formula e il luogo vale più che darsi onestamente da fare per raggiungere uno scopo» [Giorgio Agamben]. I talismani ci dicono che non si può trovare magia e fortuna con l’inganno e la malafede, che la felicità e la gioia di vivere non dipendono da ciò che si è o si fa, ma da una noce fatata, da qualcosa che viene da fuori e non per nostro merito. È una delle ragioni per cui i bambini non smetteranno mai di giocare.

A conclusione di una tua visita con le famiglie c’era un bambino che tardava a uscire. Tutti si chiedevano quale giocattolo tra i 300 esposti lo tenesse così impegnato. Quando siamo entrati ci ha fatto tenerezza vederlo impegnato con i pupazzetti in legno di Dante e Virgilio, facendo finta di farli parlare tra loro. Per i bambini questo fare finta è una cosa seria, una necessità vitale?

Non è un caso che quel bambino si sia fermato davanti a quel gioco. Il busto di Dante è un giocattolo eminentemente teatrale, solletica il gioco di immedesimazione. Provo a spiegarlo. C’è un busto con mensole che rappresenta Dante Alighieri, su cui sono appoggiate piccole tavolette che riportano parole suddivise per le tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Sono le parole del poeta, in parte ricavate dal sentito dire popolare, in parte rielaborate dal latino, in parte inventate. Sulla prima mensola ben in vista i tre personaggi più rilevanti della Divina Commedia, Dante, Virgilio, Beatrice. Accanto al busto, lo scenario della selva oscura. Tutto attorno altri personaggi: Caronte, Minosse, la lupa, il leone, la lonza, i diavoli rampichino delle Malebranche, la trottola piatta che riporta in sintesi personaggi del purgatorio, i giocattoli nominati dal poeta, e tante altro, il tutto in uno stato di sospensione perché l’opera è in divenire. Insomma, la teatralizzazione di un ipotetico museo di Dante per bambini, contenente tutto ciò che serve per giocare ad esplorare vita e opere del poeta. Ovvio che chi si avvicina trovi dappertutto scintille di eros, non possa far a meno di prendere in mano i pupazzetti, calandosi nei personaggi e dare loro la voce. Non mi meraviglia che il bambino abbia animato i pupazzetti in modo spontaneo e si sia calato nei personaggi proiettando il suo mondo interiore.

Il gioco di Dante.

C’è chi sostiene che quando diventiamo grandi smettiamo di giocare per occuparci di cose più serie. Ma se ci guardiamo intorno in un bar, tra le persone che parlano di calcio e quelle che acquistano il “gratta e vinci”, non sembra proprio che gli adulti abbiano abbandonato la dimensione ludica. Non è così?

Paradossalmente gli adulti oggi giocano più dei bambini, cosi mi viene da dire. Come se ci fosse una infantilizzazione degli adulti e per contro una adultizzazione dell’infanzia. Il gioco è infatti cambiato, non è più un mondo rigidamente separato dal tempo reale, ma vi si insinua. Lo trovi dappertutto, in televisione, sui social, sul cellulare, sui luoghi di lavoro, nei supermercati… Il tempo del lavoro e il tempo libero sono diventati frammentati e flessibili, il gioco circola al loro interno in modo pervasivo e spettacolare. Giochi e giocattoli obbligano a seguire qualcosa che produce sovraeccitazione, e comunque sia, sono ostici, incomprensibili, non riproducili, destabilizzanti per l’immaginario e per niente un fatto distensivo del corpo.

Un bambino ha scritto questo commento alla mostra: «Mi è piaciuta la pista delle biglie perché mi ha fatto pensare al pensiero della velocità». I giocattoli fanno pensare ai pensieri, non sembra una cosa da poco.

Sì, i giocattoli che uno si costruisce da sé fanno andare i pensieri a mille. Ricordo che costruendo i bigliodromi ho pensato di uscire dallo schema dello scivolo a caduta, il tradizionale gioco degli antichi, per esplorare nuove possibilità e percorsi. Ho scoperto curve matematiche celebri e la loro bellezza, mi sono cimentato con problemi di ingegneria per realizzare curve improbabili, ho studiato i solidi platonici per capire il segreto della sfera. Ho incontrato il labirinto, ho capito che prima di farlo bisogna pensarlo come simbolo di qualcosa di diverso da una pista per biglie. A un certo punto, mi sono chiesto se i pensieri sono in chi li pensa o fuori dai confini della persona, se fanno parte, cioè, di un enorme deposito a cui tutti accedono, alla portata di tutti. Per tutti voglio intendere i viventi e i non viventi, animali e piante, batteri, funghi, organismi unicellulari e così via. Parte di una mente estesa.

[La mostra Poetica del gioco è stata promossa dalla Biblioteca Villa Dora di San Giorgio di Nogaro (Ud) con Associazione Culturale 0432, Sistema Bibliotecario InBiblio, installazione Emanuele Bertossi, curatela Francesca Berti, fotografie Stefano Tedioli, grafica Marilena Benini, riprese Alexandra D’Onofrio. Patrocinio dell’Associazione Italiana Biblioteche FVG. Con il sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e del Ministero della Cultura.]