...anche di quelle che chiamiamo opere d’arte
[di Elena Dolcini]
La casa è stata al centro dei dialoghi intessuti in questi quattro mesi, a partire da C di Casa, mostra a mia cura, promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, con opere di Luca Caimmi, Elena Hamerski, Guido Guidi, Patrizia Giambi, Jeugov, Simone Mizzotti e Daniela Tieni.
I protagonisti sono stati i bambini delle scuole dell’infanzia e primaria: per i bambini più piccoli la casa è “porta, finestre, bagno, tv, letti”, la sua essenza sta nei tanti oggetti che la costituiscono e popolano; per i bambini più grandi, la casa è un luogo in cui si compiono certe azioni, come dormire, giocare, stare in compagnia; ed è anche metafora, non solo di un rifugio sicuro nel quale riposarsi e stare a proprio agio, ma anche di uno spazio in cui non si sta sempre bene, in cui si vivono conflitti e nel quale i propri desideri non sempre vengono soddisfatti appieno.
Queste sono alcune delle parole che riassumono le conversazioni avute con i bambini sulla soglia, prima di entrare in mostra, prima di attraversare la porta in feltro di Patrizia Giambi, oggetto liminale che ha segnato un passaggio tra il fuori e il dentro.
Per gentile concessione di Patrizia Giambi
In mostra i bambini hanno visto qualcosa di diverso rispetto al quotidiano; infatti, la casa sia nell’arte sia nella letteratura, come ha ricordato l’artista sopracitata durante uno dei tanti incontri organizzati negli spazi di Arte al Monte, è libera, non deve sottostare alle regole dell’ingegneria per poter stare in piedi.
Per questo in mostra abbiamo riflettuto intorno a una generale “de-funzionalizzazione della casa”, che, lungi dall’essere una stravaganza artistica senza ripercussioni percettive o cognitive, ha permesso di ragionare quasi aristotelicamente, intorno a forma e materia; ad esempio, osservando e toccando l’opera in feltro, che, avendo la forma di una porta e la materia di un tappeto, è stato chiamata da alcuni bambini “portappeto”.
Similmente bizzarra e intellettualmente coinvolgente è stata la casa-zaino di Elena Hamerski, un telo cucito dall’artista e corrispondente alla planimetria in scala 1:1 di una villa forlivese: un’opera che, come ogni cosa straordinariamente vera, ha stupito molti bambini, affascinati dalle sue misure, dal suo essere “troppo grande” per lo spazio, ma in esso magicamente contenuta perché piegata su se stessa in maniera compatta.
Per gentile concessione di Elena Hamerski e Luca Caimmi
Visitare una mostra non è semplicemente guardare più opere d’arte riunite insieme nello stesso luogo; questo tipo di esperienza ha le sue premesse nell’allestimento, nella relazione delle opere con lo spazio. Per questo, forse complice la mia familiarità con il luogo, quest’anno ho avuto un’ulteriore occasione di riflettere sulla relazione a quattro tra bambini-spazio-arte-mediatori che prende vita all’interno di una mostra.
Non è facile per un bambino stare in un luogo adibito ad arte che non sia un museo, anzi da questo radicalmente diverso, per elementi d’arredo e per scelte espositive. In un museo, solitamente, ogni opera d’arte è riconoscibile anche dai più piccoli dalla distanza con cui la si osserva: al contrario, quando un’opera è a “portata di mano” di un bambino, come spesso accade in un allestimento a tavolo o nel caso di installazioni che si possono attraversare e quindi toccare, non è semplice per l’infanzia comprendere la sua responsabilità, misurare le cose e lo spazio fra queste e se stessa, e capire quindi come comportarsi.
Per gentile concessione di Simone Mizzotti
I musei, la cui grandiosità può essere fascinazione e soggezione, la cui frequentazione dovrebbe essere consuetudine e le cui opere cultura condivisa, mandano un segnale chiaro al bambino, ad esempio con allarmi o recinzioni che impediscono una fruizione dell’arte ravvicinata: non oltrepassare. Non è così ovvio e leggibile in un ambiente che contiene sì quadri, installazioni, fotografie, ma dove non c’è una tassativa distanza tra il visitatore e gli oggetti esposti.
Una mostra come C di Casa fa quindi appello alla responsabilità del bambino, a cui vengono ribadite poche e precise regole, e, non da meno, all’azione mediatrice dell’adulto che lo accompagna nella visita.
Davanti e retro della Porta (dalla serie Affreschi) per gentile concessione di Patrizia Giambi
Che poi non sia facile osservare un’opera d’arte, i bambini ce lo ricordano con i loro atteggiamenti. Ognuno di noi, grande o piccolo che sia, se non è abituato a fare qualcosa, fatica a riconoscerla e a comprenderne il linguaggio, a meno che, in rari casi, da questa non sia ipnoticamente attratto. Così succede con l’arte, che nominiamo e su cui riflettiamo con estrema difficoltà, se non ci impegniamo a frequentarla con costanza.
Credo che sia anche per questo che il maestro Lorenzoni appenda la riproduzione di un’opera d’arte nelle sue classi e la lasci a muro per molti mesi: non tanto perché i suoi piccoli studenti diventino esperti d’arte, piuttosto per favorire l’osservazione attenta di un certo tipo di immagini, molto diverse da tutte le altre a cui i bambini hanno accesso con facilità, che trascendono la specificità di ogni materia scolastica e che rappresentano un metodo – forse più metodi - di comprensione del mondo, fin dal momento del cambio del pannolino.
In questa mostra, nella quale il libro ha avuto un ruolo centrale, a cominciare dal fatto che molte delle opere esposte sono disegni tratti da albi illustrati, ho notato una differenza sostanziale tra come i bambini accolgono il libro e l’opera d’arte: da un lato il libro è un oggetto che possono prendere in mano anche autonomamente, che prende vita attraverso la lettura partecipata, e che fa parte della loro vita quotidiana, per lo meno, scolastica; dall’altro l’opera d’arte è un oggetto che il bambino sente più lontano, affascinante sì, probabilmente meno relazionale e sicuramente meno usuale del libro, quando non sconosciuto nella sua grammatica basilare.
Da sinistra a destra: C’era una volta in Persia di Sahar Doustar e Daniela Tieni (Topipittori, 2019); Filemone e Bauci di Cristiana Pezzetta e Daniela Tieni (Topipittori, 2022); Il fiore ritrovato di Jeugov (Topipittori, 2021)
Tenere i libri in mostra, come C’era una volta in Persia, Filemone e Bauci e Il fiore ritrovato posizionati all’interno di una tenda, ha permesso a tutti i bambini di riconoscere le immagini su supporti diversi, su libro e incorniciate a muro, e in particolare a quelli più grandi di riflettere sulla differenza tra le singole immagini appese e il loro essere parte di una sequenza.
Illustrazioni di Daniela Tieni tratte, a sinistra, da Filemone e Bauci (Topipittori, 2022) e, a destra, da C’era una volta in Persia (Topipittori, 2019)
Molti bambini sono venuti più volte in mostra, alcuni con la loro classe e con i genitori, altri con la scuola e con “Welcome”, associazione di volontariato forlivese che aiuta i bambini per i quali l'italiano non è la prima lingua, non solo con i compiti scolastici, ma coinvolgendoli in esperienze comunitarie e progetti.
Per questi bambini, lo spazio e le cose in esso contenute sono diventati, di settimana in settimana, familiari; è stato molto commovente vedere come alcuni di loro si siano voluti cimentare, senza alcuna richiesta da parte degli adulti, in una lettura ad alta voce dei libri a loro disposizione; in particolare, ai ragazzi è piaciuto moltissimo Il fiore ritrovato che hanno letto, girando pagina dopo pagina e raccontando le immagini facendo scorrere l’indice come se a essere lette fossero parole e non figure. Vederli raccontare le immagini con meticolosità mi ha fatto riflettere nuovamente su come nel libro senza parole sia il bambino - o chiunque legga - il primo traduttore in parole delle figure: come in uno storytelling in cui non ci sia la mediazione di un testo scritto (“Oral storytelling is one of the most direct forms of communication” Peter Worley), i bambini sono un passo più vicini alla storia, le parole sono le loro.
Illustrazioni di Jeugov tratte da Il fiore ritrovato (Topipittori, 2021) - foto di Genny Cangini
Il racconto di un’immagine è stato fatto dai bambini anche con le fotografie da “Preganziol 1983” di Guido Guidi: a due o tre bambini è stato chiesto di descrivere ciò che vedevano nelle immagini dentro una vetrinetta e al resto della classe di immaginare, per poi disegnare a scuola ciò che si ricordavano. Lontano dall’essere vuota, aggettivo frettoloso con cui si può descrivere la stanza di Preganziol, la camera ha muri dai colori non uniformi, addirittura “arcobaleno”, su questi alcuni “chiodi”, luci e ombre, un pavimento sporco su cui poggiano delle foglie secche, e due finestre da cui entra il mondo, per dirla alla Sendak.
Grafiche realizzate in una terza primaria a partire dall’osservazione delle due fotografie da Preganziol 1983 di Guido Guidi
Uno dei giochi che ho proposto è stata la pesca di biglietti da un sacchettino di stoffa; sui fogli sono stati disegnati oggetti e cose possibilmente da ritrovare nelle opere: quasi sempre, sia che si trattasse di un tavolo, di una finestra, di una bottiglia, i bambini hanno indicato, senza accennare ad alcuna differenza, immagini all’interno dei disegni e oggetti tridimensionali nella stanza. Se fra il tavolo rappresentato e quello su cui poggiavano i disegni di Luca Caimmi non c’era differenza è probabilmente perché al bambino ancora non è chiaro cosa sia un’opera d’arte (d’altronde non lo è nemmeno per noi adulti); ma anche perché il tavolo su cui sono stati allestiti i disegni di Luca all’infanzia provoca lo stesso stupore provocato dalla sua immagine: per il bambino la realtà è degna di meraviglia, così come l’arte che, anzi, è probabilmente una concettualizzazione dell’adulto.
Per gentile concessione di Luca Caimmi
In questo modo, sembra che ci siamo chiariti le idee su due punti importanti: da un lato l’invisibile (e di invisibile i bambini se ne intendono) come principio identificativo dell’arte – ciò che rende arte qualcosa, parafrasando Danto, non è visibile, dal momento che lo stesso oggetto potrebbe essere sia un tavolo-arte sia un tavolo-appoggio; dall’altro l’infanzia, così come l’arte, è solita de-funzionalizzare gli oggetti, che, cosiddetti impertinenti, possono fare e essere molto di più di ciò a cui li abbiamo confinati noi adulti.
Come da prassi, durante la mostra si è cercato di coinvolgere i bambini in attività che se da un lato hanno favorito l’interrelazione come in un laboratorio, dall’altro da quest’ultimo sono state diverse per modalità d’attuazione: durante le visite, ad agire è stato un bambino alla volta, così come ad essere ascoltato, il che ha implicato la soddisfazione del bambino protagonista, che parla, indica, dà risposte a indovinelli, trova nei quadri disegni di cose rappresentate su foglietti, e molta pazienza e attesa da parte degli altri, quando non frustrazione per non essere chiamati.
Anche questo modo di stare in mostra per i bambini non è semplice: il non-fare non sempre viene sopportato con pacifica rassegnazione, nemmeno dall’adulto che tira fuori dalla tasca del cappotto il cellulare ogni due minuti, che si mangia le unghie, che parla a vanvera e fa molto altro piuttosto che attendere in un supposto vuoto di azione, di pensiero, di parola.
Con i bambini più grandi abbiamo osservato e commentato la mostra a partire da un test rudimentale dal titolo “Che tipo di casa sei?”, nel quale i ragazzi hanno scelto le risposte più corrispondenti alla loro personalità, riassunte in tre profili: “casa sull’albero”, “less is more” e “casa d’artista”: ogni domanda implicava l’osservazione attenta delle opere degli artisti in mostra: la porta-tappeto di Patrizia Giambi, lo zaino-casa di Elena Hamerski, la casa sull’albero di Jeugov, le tende nelle fotografie in bianco e nero di Simone Mizzotti, lo strano edificio, altrimenti detto dai bambini “meteorite di cristallo” di Luca Caimmi, il concetto di vuoto nelle fotografie di Guido Guidi, la ragazza sfuggente del disegno di Daniela Tieni.
Per gentile concessione di Simone Mizzotti - foto di Genny Cangini
Stare in mostra, più che semplicemente visitarla, sostare in un luogo con le proprie caratteristiche nel quale sono riunite insieme un numero variabile di quelle cose tra le cose che chiamiamo opere d’arte, è un’esperienza individuale e collettiva, introspettiva e comunitaria, all’insegna della cura, non solo di colei o colui che ha pensato e organizzato l’esposizione, ma anche dei visitatori impegnati nell’osservazione delle opere, nell’ascoltare le parole degli altri, e, non da ultimo, nel muoversi in maniera adeguata tra gli spazi.
Stare in mostra insieme ai bambini, nonostante difficoltà intrinseche e contingenti, anzi forse proprio grazie a queste, aiuta a ripensare alle priorità dell’arte e dell’educazione – mi si perdonerà l’astrazione dei nomi - che credo solo apparentemente siano due mondi distinti, ma che in verità abbiano in comune l’orizzonte della cura e della relazione intersoggettive.
Come in una casa.