A cosa serve di José Maria Vieira Mendes e Madalena Matoso è uscito il mese scorso. Oggi pubblichiamo qui la sua presentazione da parte di una delle sue auttrici, Madalena Matoso, illustratrice che è anche fra i fondatori di Planeta Tangerina, casa editrice portoghese che seguiamo fin dai suoi inizi e che fa un lavoro di grande levatura e di cui abbiamo in catalogo diversi titoli. Questo albo ci ha conquistati subito per la bellezza dei testi che pongono questioni filosofiche importanti e sottili in modo limpido, comprensibile, giocoso, e per le immagini vivaci ed eleganti, secondo lo stile inconfondibile di Madalena che qui spiega come ha progettato questo libro.
[di Madalena Matoso]
La copertina di A cosa serve? di José Maria Vieira Mendes, illustrato da Madalena Matoso (Topipittori, 2021).
Un giorno in casa editrice arrivò un testo che era stato scritto per una conferenza. Il titolo della conferenza era A cosa serve la cultura? ed era stata organizzata dal teatro Luís de Camões di Lisbona per il ciclo I bambini, un teatro e la città, a gennaio del 2019. L’autore, José Maria Vieira Mendes, voleva creare un libro a partire dal testo e a noi piacque l’idea. Isabel Minhós Martins mi mandò un’email con su scritto «Questo è pane per i tuoi denti». E lo era!
Anzitutto decidemmo di togliere dal titolo la parola ‟cultura”. Concordavamo con José Maria Vieira Mendes: ‟A cosa serve?” era più aperto e avrebbe toccato molti più argomenti. Poi ci fu un lavoro di adattamento del testo. In una conferenza si può fare affidamento sul pubblico, si possono fare domande e si può avere un riscontro immediato. In un libro non sappiamo chi sta dall’altra parte. Non sappiamo se è un lettore entusiasta e curioso, o se si è addormentato a pagina 4. Se è arrabbiato, se in disaccordo, se ha domande da porre o idee da suggerire. È come mandare un messaggio dentro una bottiglia. Lanciare una domanda al vento, senza sapere se mai qualcuno l’accoglierà. Lo spirito della conferenza però è rimasto. Il libro pone delle domande, come se ci fosse qualcuno a rispondergli. Il libro è sicuro che esistano persone attente che gli risponderanno. Chiede imperterrito. Sarà che sente le risposte?
Abbiamo iniziato facendo uno storyboard completo. Abbiamo definito il numero di pagine, il formato e suddiviso il testo. Ci sono doppie pagine in cui le singole frasi spiccano da sole, come fossero una pausa. Altre si susseguono più velocemente. Ci sono pagine senza testo. Altre con due o tre frasi. Poi, abbiamo cominciato a ragionare sulla dimensione del testo, che a volte è sussurrato, altre volte pronunciato ad alta voce.
La pianificazione non è mai definitiva, ma aiuta a scandire il ritmo. È una guida che indica il cammino e che, comunque, si può sempre cambiare. Ci fa capire quanto spazio (e tempo) abbiamo a disposizione. Aiuta a decidere cosa disegnare e come comporre/sistemare le pagine. In questa fase, le immagini vengono solo abbozzate. Un rinoceronte, una bambina con un pettine, un lago.
Guardando i primi schizzi del libro, mi rendo conto che molte idee si sono perse per strada. Spesso gli schizzi iniziali, anche se non hanno lo stesso colore o la stessa struttura, rivelano già l’idea o la composizione finale. Nel caso di questo libro, le modifiche sono state numerosissime. Prendiamo l’esempio della prima frase: “Prima di cominciare: c’è qualche domanda che vorresti fare?”. Come si fa a creare un’immagine per queste parole? I primi schizzi si concentrano tutti sull’idea di partenza. Il punto iniziale di una corsa. Ci sono schizzi di barche a remi, con i rematori in posizione e in attesa del colpo di pistola. E c’è, sovrapposto, il disegno di una montagna, con gli escursionisti che si apprestano alla scalata. E ancora, un disegno che non si capisce bene cosa sia. Non mi ricordo più cosa volessi fare. Forse si tratta di qualcuno che scende la montagna su una slitta, o meglio, il momento prima di buttarsi giù. Mi piace molto l’idea che il disegno sia una sospensione tra un prima e un dopo. L’equilibrio che precede la caduta. Come se, nel momento in cui giriamo la pagina e non vediamo più l’immagine, avvenisse la caduta. Se però torniamo indietro, tutto è come prima. Non c’è stata alcuna caduta (ma appena giriamo la pagina, avverrà).
Alla fine, è venuta fuori una pista da corsa. Avevo disegnato una pista con i corridori sulla linea di partenza, che poi è rimasta vuota. È diventata quasi una forma astratta, una struttura aperta che può dare spazio a idee diverse. Mi accade spesso di semplificare un’immagine complessa fino a farla diventare essenziale. Sarebbe più facile cominciare dall’immagine semplice - com’è che ancora non ho imparato a lavorare così? - ma pare che faccia parte del processo, creare molti elementi e poi togliere, togliere, togliere. A volte rimango senza niente, e ricomincio.
La frase successiva è “Sai come si intitola questo libro?”. Come dimostrano gli schizzi, in un primo momento seguii l’idea della regata con le barche a remi. Ma qui le barche erano già in movimento. Distanziate tra loro. Forse ho poi abbandonato l’idea perché il testo non parlava di una gara? Non ne sono sicura.
Si vede anche un personaggio che sembra intento a raccontare una storia. Ma probabilmente fu lì che cominciai a pensare che potevano esserci più persone a raccontare la storia, e altrettante ad ascoltarla. Poteva essere un lettore silenzioso. O qualcuno che racconta la storia a un gruppo di venti e più persone. Una famiglia intera che legge il libro. Chi chiede “Sai come si intitola questo libro?” sta chiedendo qual è il titolo del libro che stiamo leggendo in quel preciso istante. Per questo, volevo che l’immagine potesse contenere qualsiasi ipotesi. Qualsiasi lettore e qualsiasi modalità di lettura.
Nello stesso schizzo, si vede in sovrimpressione anche il disegno di un pubblico. E questa è l’idea che ho adottato alla fine. Un pubblico di spalle. È così che vediamo le altre persone quando facciamo parte di un pubblico: delle teste davanti a noi. Tutti con lo sguardo puntato nella stessa direzione (noi inclusi). Nell’illustrazione vediamo ciò che vede il pubblico (e un suonatore di tromba) e ascoltiamo ciò che ascolta il pubblico. “Sai come si intitola questo libro?”
La doppia successiva nello storyboard è lo schizzo di un’orchestra che suona per strada. L’orchestra è rimasta. Ricordo di aver pensato che se questo libro avesse avuto un suono, il momento in cui entra la frase del titolo sarebbe stato una festa.
Le domande proseguono. “Che cos’è questo? E a cosa serve? E questo? E questo?” Qui i disegni diventano funzionali e vanno dritti al punto. Un paio di forbici, una matita, una forchetta, una lente, una lampadina, un ago, un righello. Sappiamo bene cosa sono e a cosa servono. In queste pagine, i disegni non lasciano spazio a dubbi.
A un certo punto, più avanti, leggiamo: “Poi ci sono cose che servono per fare molte cose”. Si tratta di uno stacco rispetto alle illustrazioni di oggetti. Qui c’è un paesaggio, ma con dentro qualcuno che sta usando un oggetto: un telefono. Le pagine scorrono così, con oggetti isolati su sfondo bianco, come in un catalogo, intercalati con illustrazioni di situazioni, disegni meno tecnici, di paesaggi oppure di oggetti da utilizzare.
Chi tiene una conferenza fa spesso il punto della situazione. Come oratrice ho scelto una bambina. È stato il primo disegno che ho fatto e così è rimasto.
Quando faccio un libro, non lavoro sempre con la stessa tecnica, ma il processo è lo stesso: come prima cosa m’immergo nel testo, poi faccio degli schizzi e inizio a sperimentare i materiali che indicheranno come sarà fatto il libro. In questa fase ho bisogno di andare un po’ alla deriva. Una volta che ho intravisto la strada giusta, il resto è abbastanza veloce.
Mi piace che i disegni siano incompleti e abbiano bisogno del testo e/o dei lettori per acquisire un significato. Quando i disegni funzionano, possono assumere significati diversi e ogni volta che apriamo il libro se ne aggiungono di nuovi.
“Prima di finire, c’è qualche domanda che vorresti fare?”