[di Elena Turetti]
Alla nascita del mio primo figlio, maschio, ovvero all'esordio della mia maternità, quando ancora e più di adesso non sapevo cosa volesse dire crescere con un figlio e vivere per un figlio, il primo brivido sulla schiena l'ho provato quando mi sono resa conto di quanto potere potesse avere la mia parola in quella relazione. Ricordo, inorridii. Al solo pensiero di disporre di così tanto arbitrio, di poter incidere così profondamente nella crescita di una persona, nella formazione della sua mente.
Pochi istanti dopo avevo la soluzione, il potere della paura. Avrei dovuto semplicemente moltiplicare le voci, gli incontri, impegnarmi in ogni modo per tenere desto il metronomo, quel metronomo che dice «basta, scostati, fatti indietro», quando ti accorgi di essere al centro del mondo di qualcun altro. Da lì ho preso a moltiplicare i centri per mio figlio. Un'azione nascosta, almeno nelle intenzioni, per preparare terreni fertili alla crescita di relazioni e vocati allo scambio. Un'opera sottotraccia grazie alla quale tu, figlio, ti sei potuto trovare senza paracadute, talvolta in bocca al lupo, in braccio al nemico, ma salvo, con in mano la possibilità di conoscere la diversità e imparare a scegliere. Fuori e dentro. Vicino e lontano.
Sì, perché noi umani per crescere, diversamente da come fanno le piante, ci muoviamo. Ci muoviamo verso il sole, verso il calore, verso il buono, ma anche e soprattutto verso i nostri simili ma diversi: gli altri. Ogni giorno contiamo su questa diversità, ne va della nostra salvezza.
La coda canterina, di Guia Risari e Violeta Lopiz (Topipittori, 2010).
Preparare questo terreno è stato ed è - tutt'oggi, che ho tre figli e il maggiore ne ha dodici - un compito giornaliero. Ora la vita è di per sé un buon terreno di battaglia, ma non sempre. Ci vogliono adulti capaci di prendersi questa responsabilità. Ci sono quelli che l'hanno totalmente persa, questa capacità, magari addirittura per mestiere, apprendendo la scienza dell'educazione hanno preso a replicare metodi e modelli; quelli che non l'hanno mai voluta avere; quelli che ne sono pregni e non aspettano altro, giulivi, gli viene naturale pensare che anche stavolta ci sarà qualcosa da scoprire. Mi capita di viverlo in prima persona con le persone anziane che frequento. Giuseppe si ferma sempre, mi saluta, cerca un motivo per parlare e da lì scopriamo che la pensiamo in modo differente, che abbiamo in comune una vetta, che non abbiamo paura della morte. Ogni volta che ci salutiamo penso «Cosa l'avrà spinto a stare lì con me ancora una volta? Non ho nulla da insegnare a un uomo di ottant'anni» e mi rispondo «La curiosità verso la vita».
Ci sono luoghi in cui questa interlocuzione è l'energia che muove tutto, che alimenta la vita e determina lo spostamento delle persone, la portata dei pensieri, la crescita della comunità. Questo luogo è la scuola, e non lo è eccezionalmente, ma quotidianamente, giorno dopo giorno. Le persone adulte, gli insegnanti, i bambini e ragazzi, i singoli e il gruppo, sono lì per quello: per interloquire. Il ruolo, la posizione, l'etica di un'insegnante chiedono a questa persona adulta di non abdicare mai all'interlocuzione, di non rinunciavi mai, neanche quando si fa difficile. Succede allora che il linguaggio si modifica, si plasma, si fa pasta in mano a quella comunità. Le parole delle insegnanti vanno incontro, aprono orizzonti, interpellano, chiedono. I corpi dei bambini iniziano a conquistare terreno, le facce mostrano segni eloquenti di fiducia, le orecchie distinguono i suoni delle voci, poi le fisime, le abitudini e le maniere degli adulti. La macchina inizia a girare senza sosta.
Gli occhi degli alberi e la visione delle nuvole, di Chicca Gagliardo e Massimiliano Tappari (Hacca, 2016).
Il giardino degli odori.
Ci si abitua alla presenza reciproca. La relazione accade, il gruppo si cimenta in missioni impossibili: ascoltare, cedere la parola, annunciare il proprio arrivo, dialogare, discutere, discernere. Ora che questo non è possibile, che i bambini sono a casa e le insegnanti anche, che non si sta nella stessa stanza, l'interlocuzione non può e non deve interrompersi. Occorre trovare il modo (forse i modi) per coltivarla più saldamente, non potendo contare sulla compresenza quotidiana in uno stesso luogo, per lo più condiviso, costruito insieme, a cui abbiamo dato un nome comune.
Asterusher. Autobiografia per feticci, di Michele Mari e Francesco Pernigo (Corraini Edizioni, 2019).
Usiamo allora ciò che abbiamo imparato dalla nostra vita analogica, ancora preponderante in questa generazione d'insegnanti, per non interrompere questa relazione, mettiamo mano agli strumenti digitali che ci permettono di stare nello stesso spazio tempo anche se lontani, per renderli un terreno nostro: come ci si siede dinnanzi a uno schermo? Come ci si ascolta con un'auricolare? Come ci si cede la parola? Possiamo mischiare i mondi, il mondo del fare che ci costringe a una presenza flagrante sempre, con il mondo del condividere che sta, per forze di causa maggiore, online. Non adeguiamoci agli strumenti, ma facciamoli nostri, senza timore. La nostra formazione, la forma del nostro pensiero è più forte: possiamo decidere come usare ogni strumento, bene o male dal nostro verso, o esserne completamente succubi. Inoltre il nostro obiettivo è molto chiaro: non perdere la possibilità di interloquire.
Cosa serve?
Servono più dubbi, più che mai serve mettere sul piatto dubbi e non certezze e usare tutti i convenuti in rete per smontare, accartocciare i dubbi, spianarli e costruire tante risposte diverse quanti siamo.
Il sistema periodico, di Primo Levi (Giulio Einaudi Editore, 2014).
Serve garantire più autonomia d'azione e quindi proporre meno prescrizioni e più incipit da cui partire, per compiere da soli delle piccole esplorazioni, documentabili con immagini e riflessioni a margine e raccontabili il giorno dopo, due giorni dopo, tre giorni dopo, quindi con tutto il tempo che prima non avevamo e ora abbiamo. Diciamo che possiamo abbandonare le schede, abbiamo molto tempo e una casa intera con tutte le stanze, le cose, le macchine di cui dispone, tante o poche non importa. Un luogo ignoto agli insegnanti e noto ai loro piccoli abitanti. È una diversa equazione, ma non impossibile. Come ogni luogo si può imparare a conoscerlo e a usarlo.
L'uovo alla kok, di Aldo Buzzi (Adelphi Edizioni, 2002).
Appunti di parole. Yoccilog, di Yoshiko "Yocci" Noda (Corraini Edizioni, 2012).
Il medium è il massaggio, di Marshall McLuhan e Quentin Fiore (Corraini Edizioni, 2011).
Serve darsi strumenti comuni di lavoro. Un calendario in cui il tempo scorre in diverso modo che a scuola e la giornata ha una forma diversa. Un piano di lavoro, credo, visibile a tutti simultaneamente, in cui appaiono le cose che abbiamo in comune in quell'ora di tempo insieme, per costruire uno spazio di ragionamento condiviso. Un sistema di riferimenti comuni, memorizzabili poiché visibili e inamovibili, se non con il consenso di tutti. E archiviabili, per rivederli dopo un po’. Se abbiamo deciso di dimostrare che il cielo è blu, per tutti la stessa sequenza temporale se serve, per tutti le stesse relazioni causa-effetto, per tutti lo stesso spettro di variabili: chi, come, perché, quando, dove, per dire. Eppure non le stesse risorse, perché siamo a casa e possiamo sbizzarrirci, se Dio vuole, nel cercare fonti: libri, enciclopedie, genitori, scatole mai aperte, cantine e Google, un motore di ricerca che a scuola ci ostiniamo a non imparare a usare. Non per scrivere la prima cosa che ci viene in mente, tanto risponde sempre, ma a usare. Non per cercare quello che sappiamo già, o quello che sospettiamo di sapere, ma per aprirci nuove strade, per godere delle scoperte degli altri, che stanno lì e sono molti di più dei ragazzi della scuola.
I gioielli di Elsa, di Sarah Mazzetti (Canicola, 2017).
Il Cosario, di Alessia Napolitano e Silvia Molinari (Edizioni Corsare, 2016).
Poemario di campo, di Alonso Palacios e Leticia Ruifernández (Orecchio Acerbo, 2017).
La bambina e il gatto, di Ingrid Bachér e Rotraut Susanne Berger (Topipittori, 2017).
Serve ritrovare la confidenza: sono passati due mesi lunghi un anno. Ridarsi dei piccoli rituali, completamente nuovi, per il buon giorno, per sentirsi l'uno accanto all'altro, per riconoscersi. Siamo cambiati.
A come Rinoceronte, di Harriet Russell (Corraini Edizioni, 2011).
Ho immaginato per questo post una sequenza di immagini quasi autonoma dal testo, che raccolga una sequenza di libri in cui le cose che si potrebbero trovare o che si trovano a casa nella dimensione ordinaria del vivere danno adito a riflessioni, storie, testi. Dalle cose alle parole, o viceversa, dato che nel mio testo indico come strada l'uso della casa come luogo di esplorazione e come possibilità l'autonomia di ricerca dei bambini. E dunque ecco, l’uovo di Buzzi e il ferro di Primo Levi, la casa di Mari e il giardino di Villa Saroli, le parole di Yocci e l'abbecedario di Harriet Russel, le tasche, la coperta, la coda, i canditi di Sarah Mazzetti.