Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari

[di Costanza Buttinelli]

Filastrocca impertinente

Filastrocca impertinente

chi sta zitto non dice niente,

chi sta fermo non cammina

chi si allontana non s'avvicina.

Chi si siede non sta ritto

chi va storto non va dritto

e chi non parte, in verità

in nessun luogo arriverà.

[Gianni Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, 1960, Einaudi, Torino.]

 

Speranza

Se io avessi una botteguccia

fatta di una sola stanza

vorrei mettermi a vendere

sai cosa? La speranza.

 

"Speranza a buon mercato!"

Per un soldo ne darei

ad un solo cliente

quanto basta per sei.

 

E alla povera gente

che non ha da campare

darei tutta la mia speranza

senza fargliela pagare.

[Gianni Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, 1960, Einaudi, Torino]

 

Il 14 maggio, durante la pandemia, per fortuna non unico evento di un anno bisestile cominciato male, l’editore Laterza, nel centenario della nascita di Gianni Rodari, pubblica per il nostro diletto la sua biografia, scritta dalla storica Vanessa Roghi: Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari.

Dalla lettura di questo libro si emerge con la certezza dell’amore di Roghi per lo scrittore, amore impossibile da non condividere, nonostante la forma più documentale che narrativa del saggio ci conduca nella biografia facendoci sospettare un avvicinamento meno appassionato.

In una rigorosa e capillare analisi dei suoi scritti nonché di documenti e testimonianze di intellettuali e compagni di strada suoi contemporanei, Vanessa Roghi, attraverso una ricostruzione ricca e ampia, percorsa con linguaggio limpido e schietto, ci permette di scoprire, o riscoprire per i più competenti, le molteplici e variegate esperienze professionali, l’impegno sociale e politico, le travagliate decisioni, la crescita culturale, il ruolo di Gianni Rodari nella cultura italiana dagli anni Quaranta al 1980, data della sua prematura scomparsa a soli sessant’anni.

Roghi dichiara subito che non è sua intenzione scrivere una agiografia, bensì raccontare «un uomo tutto intero, e non a una unica dimensione». E mantiene la promessa, iniziando il libro con uno dei giochi preferiti di Rodari: il gioco degli insiemi, dividendo il libro in ventuno capitoli, ciascuno dedicato a un aspetto o a una fase della vita dello scrittore.

A quale insieme appartiene Rodari? A quello dei giornalisti? A quello degli scrittori? Oppure in lui convivono interessi diversi sviluppati con una costante e sostanziale fedeltà a se stesso, alla sua poetica, alle sue convinzioni?

Di sé, proprio nella poesia Insiemi, che Vanessa Roghi riporta, dice: «Col tempo si rese conto, non senza un sentimento di orgoglio, di essere un elemento di un insieme infinito qual è certamente e al di là di ogni meschino dubbio l’insieme degli uomini reali e degli uomini immaginari». Gianni Rodari, lo ricordiamo, di dimensioni ne ha avute tante: è stato maestro, giornalista per quotidiani, direttore di periodici, collaboratore di associazioni di genitori e insegnanti e amministrazioni provinciali e comunali, scrittore di favole e filastrocche per bambini tradotte in tutto il mondo, impegni questi ultimi per cui è prevalentemente conosciuto. 
Chi non ha letto la Grammatica della fantasia? Quei pochi rimedino subito! Affronteranno meglio la lettura di queste Lezioni di Fantastica, la disciplina tutt’ora inesistente, ma suggerita prima da Novalis e poi da Rodari che se ne era invaghito, leggendolo, e attraverso la Grammatica della fantasia voleva metterla a disposizione di bambini e adulti,  per fornire l’accesso all’arte di inventare storie.
 La Grammatica della fantasia fu pubblicato nel 1973, in seguito a un ciclo di lezioni per i docenti di Reggio Emilia, tenuto nel 1972 e organizzato dall’amministrazione della città.

Meno riconosciute, oggi quanto allora, sono invece la portata, l’ampiezza e la profondità del suo lavoro intellettuale che sarebbe fondamentale, invece, ricevessero tutta l’attenzione e il prestigio dovuti. E questo anche e soprattutto per la necessità che il nostro tempo ha del pensiero di Rodari e della sua attualità. Roghi evidenzia lo spessore culturale di un lascito verso cui siamo in debito e che, oltre a riconoscere, sarebbe utile, in maggior misura, ripensare.

Rodari fu attento studioso e interprete di autori come Benjamin, Vygotskij, Bruner, Novalis, Piaget, Propp, Saussure, Wittgenstein, presenze che nutrono il suo pensiero, ma ben celate dall’apparente semplicità della sua scrittura e dalla sua capacità mimetica. Materiali elaborati in un percorso intellettuale originalissimo che lo fece approdare a un linguaggio capace di dare conto di un’altezza di pensiero e di sentire mai disgiunti, che trova le proprie radici innanzitutto in una storia di sofferenza personale. A nove anni orfano di padre, morto per broncopolmonite in seguito al salvataggio di un gatto durante una notte di temporale, Rodari, durante la seconda guerra mondiale riformato a causa della salute cagionevole, fu segnato dalla reclusione del fratello in un campo di concentramento nazista, esperienza che gli fece scegliere di impegnarsi nella Resistenza. E di maturare una natura gentile, sensibile, autenticamente umile, ironica, insieme alla scelta pienamente consapevole del campo in cui schierarsi: quella degli ultimi, degli emarginati, dei poveri, come lui stesso e la sua famiglia operaia erano stati.

Questa responsabilità sociale, questo bisogno di impegno non lo abbandoneranno mai, né quando collaborò con Paese Sera, dal ‘58, né quando si mise a inventare per i bambini le fiabe e le filastrocche che tutti conosciamo, e neppure quando si schierò contro una scuola pubblica che non era capace di: «Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si svilupperanno».

Roghi ci ricorda: «La scuola è un campo di battaglia, dice in un’intervista televisiva, in cui si battono forze che la vogliono conservare così com’è, forze che la vogliono cambiare, forze che la vogliono anche del tutto distruggere […] Ma l’esito non è chiaro né scontato e la scuola non ha maturato […] anticorpi sufficienti per prevedere quale forza in campo avrà la meglio.»

Scrive Rodari: «La vecchia scuola muore da sola, senza bisogno che dei ragazzi dicano: la scuola borghese si abbatte e non si cambia. La scuola la sua egemonia l’ha perduta, non serve neanche più alla borghesia, che i suoi rampolli li alleva a parte. La scuola ha perduto la sua tranquillità. La scuola nuova deve crescere nella scuola vecchia come il pulcino cresce dentro l’uovo. Questa scuola può nascere, se si dimostra con i fatti che è possibile».

Possiamo affermare, oggi, che la scuola sia finalmente uscita da questa palude? E quali intellettuali abbiamo ai nostri giorni che diano voce, con la forza e la chiarezza di Rodari, a posizioni apertamente critiche e al bisogno di rinnovamento di questa fondamentale istituzione, rinnovamento non più rimandabile, senza invocare la necessità di un nuovo ordine, di una più severa disciplina, ma mettendosi al fianco dei ragazzi, veramente, e fare i conti con i loro più autentici bisogni? Rodari, infatti, non fu mai un giudice arcigno. Ebbe sempre uno sguardo e un linguaggio garbati, fedeli alla sua natura, che potessero aiutare a pensare la speranza, quella speranza che per tanto tempo lo avevano tenuto legato alla sinistra, al termine della devastante seconda guerra mondiale, e poi dopo, durante gli anni della Guerra Fredda.


Vanessa Roghi, implicitamente, ci aiuta a vedere che Rodari aveva una idea di infanzia che non era solo la sua infanzia, quella passata. Sapeva essere adulto nei suoi rapporti con i bambini. 
Era più interessato al linguaggio o alla fantasia? ci spinge a chiederci l’autrice. Era interessato all’infanzia, ci sembra di poter dire, perché, conoscendo Vygotskij, sapeva che pensiero e linguaggio e gioco sono interdipendenti e che attraverso la fantasia è possibile esplorare il linguaggio, per ampliare il pensiero.
 Ci sembra probabile che Rodari abbia conosciuto Vygotskij attraverso Makarenko, suo contemporaneo. Vygotskij ebbe un esordio di grande successo e séguito, ma durante lo stalinismo i suoi scritti furono proibiti e censurati. Addirittura, il giorno successivo alla sua morte, la polizia segreta si introdusse nella sua abitazione allo scopo di impossessarsi delle sue carte, e probabilmente dell’ultimo capitolo del suo libro più importante, Pensiero e linguaggio. Tuttavia, medici e psichiatri continuarono a leggere le sue opere, innovative rispetto ai più noti Piaget e Bruner, suoi contemporanei. 

In Italia Pensiero e linguaggio fu tradotto solo nel 1954, dalla prima edizione russa, censurata. Non possiamo sapere se Rodari lo lesse  in russo o in italiano, prima o dopo. Ma sappiamo che il pensiero di di Vygotskij nutrì il suo lavoro, accrebbe e consolidò la sua attitudine alla ricerca, la sua straordinaria sensibilità per gli studi nel campo dello sviluppo della percezione, dell’attenzione, del linguaggio, del gioco, del segno, avvalorando il prestigio dei suoi studi.

Vanessa Roghi lega, da storica quale è, ogni considerazione a fatti e documenti accuratamente reperiti e indagati, a disposizione del lettore nella bibliografia che merita una attenta analisi, ricca di rimandi quale è.

Il merito della sua ricognizione sta nel mettere a fuoco una voce che è perfetta interprete della capacità di farsi responsabile del proprio punto di vista e del proprio pensiero, della propria idea del mondo e della volontà di cambiarlo. La voce di un intellettuale e di uno scrittore immerso nella realtà e dotato di strumenti potenti e sottili per leggerla. Questo non può che farcelo amare, come si diceva dall’inizio e, soprattutto, rimpiangere.

Arcivescovo pascoliano che gioca all’aquilone con la SS Trinità (con sole), Gianni Rodari 1972-73.

 La bella al davanzale, Gianni Rodari 1971; Chi mi guarda?, Gianni Rodari 1972.

Tre fanciulli giocano all’altalena con le nuvole, amorosamente sorvegliati da una suora. Con sole piccolo, Gianni Rodari 1973; La stella cometa, Gianni Rodari 1973.

Vi proponiamo in lettura uno stralcio del saggio, dal capitolo 16, Un libro d’oro e d’argento, pagg. 182-185. Grazie a Vanessa Roghi e all'editore Laterza per averci permesso la sua pubblicazione.

La Grammatica, è noto, nasce da una settimana di incontri con le maestre e i maestri della scuola dell’infanzia, dal 6 al 10 marzo del 1972. Di fronte a loro Rodari capisce che non è un saggio teorico quello che serve, l’antica ambizione alla Fantastica è venuta meno con gli anni. Rodari non vuole far vedere quanto è bravo ad andare in bicicletta senza mani (il lettore faccia conto che io stia giocando a quel gioco che la psicologia transazionale chiama «Guarda, mamma, come vado bene senza mani!». È sempre così bello vantarsi di qualcosa): «ho capito qui che non dovevo fare un libro per far vedere quanto ero bravo (se poi sono bravo) ma dovevo fare un libro per essere capito e rendermi utile»10. Soprattutto Rodari non vuole scrivere un libro per il «pubblico colto», come aveva scritto a Einaudi nel 1964.

Racconta Giulia Notari, una delle maestre presenti: «all’inizio eravamo diffidenti, ma come, pensavamo, noi questo lavoro lo facciamo da anni», eppure «Rodari usava con le insegnanti il sistema che poi usava con i bambini; con il senno di poi ho ripercorso questi laboratori e mi sono accorta di essere stata bambina con Rodari maestro. Ci riconoscemmo come persone di scuola e questo è un effetto magico, ci emozionavano le stesse cose».

Quello che esce dagli incontri, dunque, non è un manuale per inventare storie, l’Artusi della creatività, ma uno strumento per osservare e accompagnare i bambini nel processo creativo. La scuola dell’attenzione e della memoria ha fatto il suo tempo, i bambini devono diventare inventori, anche perché, come ripete ormai Rodari da vent’anni, non esiste l’opposizione fra fantasia e realtà, la fantasia è uno strumento per conoscere la realtà e indagarla al meglio.

«L’immaginazione – scrive Vygotskij – costruisce sempre con materiali forniti dalla realtà. È vero che [...] l’immaginazione può raggiungere via via, nel suo processo combinatorio, sempre nuovi livelli, partendo dalla combinazione di elementi primari della realtà [...] e proseguendo con quella di immagini della fantasia [...] e così all’infinito. Ma gli elementi ultimi, di cui verrà a comporsi anche la più fantastica delle rappresentazioni, la più remota dalla realtà, saranno sempre e nient’altro che impressioni del mondo reale»15. L’immaginazione serve a fare ipotesi e le ipotesi servono a tutti, anche allo scienziato, anche al matematico che fa dimostrazioni per assurdo. La fantasia serve a esplorare il linguaggio. «La lingua non è una materia (lo è ancora sulla pagella), non è una materia separata dalle altre che abbia confini ben precisi: qui è la lingua e qui è la geografia. Senza la lingua non c’è la geografia», né la scienza, né la storia né la filosofia. «Noi siamo nella lingua come il pesce è nell’acqua, non come il nuotatore. Il nuotatore può tuffarsi e uscire ma il pesce no, il pesce ci deve stare dentro». Il bambino abita la lingua e ne è abitato, e attraverso la fantasia classifica il mondo secondo un metro che è suo e le storie gli servono per fare ordine.

I bambini lavorano con gli strumenti che vengono loro dati, i mattoni li chiama Rodari, «che tipo di costruzione verrà fuori, razionale e intelligente, razionale e bizzarra, o banale e convenzionale, dipende dalla ‘filosofia’, dalla pedagogia, dalla creatività degli adulti, dalla loro attitudine a rispettare i bambini; ma i mattoni sono decisivi».

I bambini non sono conformisti per natura, semmai sono gli adulti che si nascondono dietro questa convinzione per pigrizia, perché saper usare mattoni diversi dai soliti usati dalla scuola dell’attenzione, è faticoso. «Serve un lungo tirocinio culturale e intellettuale, vale a dire che bisogna aver percorso alcuni fra gl’innumerevoli sentieri nei quali un buon lavoro educativo può incamminare le menti bambine. Ci s’arriva meglio se prima s’è imparato che si può immaginare l’albero dei maritozzi con la panna in largo di Santa Susanna e in via Condotti l’albero delle scarpe e dei cappotti». I mattoni possono essere le carte di Propp (le funzioni) o semplicemente le parole. «Ma anche per questo gioco occorre un tirocinio: un’educazione linguistica. Gioco, si sa, significa attività ‘disinteressata’, che ha il proprio scopo in se stessa. In realtà, come sappiamo, non è proprio così, o almeno è così quanto agli scopi ma non necessariamente quanto agli effetti. L’effetto del molto giocare è il ‘diventare molto se stessi’. Se fosse lecito un po’ di linguaggio finalistico».

Rodari fa tesoro di anni di studio ed esperienza, le note bibliografiche alla fine del libro ci raccontano di un percorso di letture che abbiamo imparato insieme a conoscere nel corso di questa biografia: c’è la linguistica, c’è la psicologia e ci sono le neuroscienze: «dagli anni Cinquanta ad oggi, le nostre conoscenze sul funzionamento del cervello e del sistema nervoso dell’uomo si sono ampliate di molto e diversi studiosi hanno sconfessato opinioni largamente diffuse e consolidate nel tempo sull’intelligenza e la creatività». C’è la messa in discussione radicale dell’idea élitaria del genio, come carattere isolato e speciale:

per quanto riguarda la creatività, ad esempio, per secoli è stata considerata una virtù misteriosa, rara, riservata a pochi eletti, posseduta soltanto da individui particolarmente dotati, da persone straordinarie, capaci di effettuare invenzioni, scoperte oppure di realizzare capolavori letterari e artistici. La stessa acquisizione di capacità artistiche, scientifiche e letterarie è stata sempre presentata come un processo molto lungo e faticoso, un traguardo raggiungibile soltanto da alcune persone geniali e dopo moltissimi anni di preparazione, di impegno e di studio.

Non è la Fantasia al potere, ma il potere della fantasia, come ha notato Tullio De Mauro: «non gli interessava che fossero abbandonate vecchie strade tanto per cambiare. Gli interessava invece che fossero progettate strade nuove per imparare che questo, progettare il nuovo, è sempre possibile, e perché poi, tra le strade nuove, si vedesse se ce ne sono di migliori dette vecchie. Non era un antigrammaticale e un antitradizionalista. Al contrario, voleva che dell’intero potenziale delle grammatiche e delle tradizioni tutti, e non solo pochi, diventassero padroni, e lo diventassero scoprendo che la grammatica o la tradizione reale non è che una delle grammatiche, una delle tradizioni possibili».

La mia modesta, e immodestissima, Grammatica della fantasia non è, naturalmente, un repertorio di personaggi e di situazioni, né un ricettario domestico per inventare storie. È, prima di tutto, il solo tipo di «confessione» che mi riesca, una specie di piccola storia non dei miei fatti personali, ma della mia immaginazione, con tutti i suoi limiti, anche col semi-vuoto culturale che la circonda. Poi, forse, una rivendicazione del posto dell’immaginazione nella scuola, nella vita di ciascuno. Il Sessantotto e l’appello degli studenti all’immaginazione (politica) non c’entrano: di questo libro con Einaudi si era già parlato dieci anni fa (conservo i documenti, per esempio una sua lettera che mi incoraggiava a scrivere un Manuale di Fantastica, al quale avevo accennato non del tutto – e quindi molto – sul serio...) [...]. Il libro è, se si vuole, un «saggio popolare», cioè non scientifico, non accademico. Io spero tanto che sia utile.

(Di Vanessa Roghi su questo blog Barbara Scotti ha scritto qui, a proposito di La lettera sovversiva. Da Don Milani a De Mauro, il potere delle parole. Segnaliamo che le immagini di questo post non sono contenute nel volume in oggetto, ma sono state scelte dall'autrice dell'articolo a corredo della recensione).