In mezzo alla fiaba

Oggi presentiamo In mezzo alla fiaba, una delle nostre novità già in libreria, e che troverete alla Fiera di Bologna. Lo facciamo attraverso le parole di Silvia Vecchini, sua autrice che spiega il suo rapporto con la fiaba e il modo in cui è giunta a queste poesie. Nei prossimi giorni passeremo la parola ad Arianna Vairo, che ha realizzato le illustrazioni di questo libro, per ascoltare anche il suo punto di vista.

[di Silvia Vecchini]

Il mio rapporto con la fiaba è tutto all’infuori di qualcosa di dolce o zuccherino. È pure lontano dalle fiabe sonore che non ho mai avuto in casa. Ce le aveva la mia amica Maria Chiara e, messa da parte la magia di una voce disincarnata che raccontava, le fiabe per me non abitavano neppure lì. Stavano invece ben custodite nella memoria di mia madre, erano una manciata, non di più. Poi intorno ai miei sette, otto anni le fiabe sono diventate quelle raccolte in un librone che ebbi in regalo.

Da bambina ho avuto davvero pochi libri. Non ho memoria di essere entrata in una libreria che non fosse una cartoleria con una smilza mensolina per i libri. Anche per questo motivo, ogni libro aveva per me un peso enorme e provocava un’onda lunga nella mia immaginazione. Tuttavia con le fiabe succedeva qualcosa di ancora più interessante. Si andavano a saldare con altre narrazione che riguardavano l’infanzia dei miei genitori e, ancora prima, dei miei nonni. Il contesto, un piccolo borgo di poche centinaia di abitanti sulle rive del Lago Trasimeno, era pressoché perfetto.

Mia madre e mio padre che vivono in due case divise da una stradina e da ragazzini si possono salutare da una finestra all’altra. Mia madre, se sta fuori, non può oltrepassare un arco che funziona da soglia proibita. Entrambe le loro famiglie sono famiglie di pescatori. Le donne lavano il bucato al lago e vanno nella macchia a fare la legna, gli uomini sull’acqua a gettare le reti esposti in ogni istante al pericolo visto che quasi nessuno sa nuotare. Non ci sono automobili, ci si sposta a piedi o in bicicletta. Solo uno dei miei nonni alla fine comprerà una motocicletta. Negli anni dell’infanzia, dentro i racconti dei nonni mi sembrava di scorgere con esattezza elementi comuni alle fiabe. Una consapevolezza che non mi permetterà mai di prenderle alla leggera. Ritrovavo nelle fiabe le loro parole, le vicende di tutti.

La spaventosa grandezza di un temporale o soltanto della notte, estenuanti spostamenti a piedi per qualsiasi cosa, i sentieri nei boschi, i pozzi, la malattia, i rimedi, le vecchine che ne sanno sempre una in più, il baratto (pesce in cambio di uova e farina), cesti e sporte da consegnare, ogni pericolo, porte aperte e bambini in casa da soli, invidie, inganni, l’ingiustizia, la povertà, le pance vuote, fame, la straordinaria importanza del pane, la sterilità o i troppi figli, le bambine mandate a servizio nelle case degli altri, figli di secondo letto, le matrigne, i coltelli, oggetti persi e stupendi ritrovamenti, gli animali come finestre sul mistero, i saggi consigli, l’intelligenza che la spunta, la fedeltà, un aiuto insperato, la fatica di trovare il proprio posto nel mondo, una trasformazione, il desiderio di liberarsi e liberare.

Per questo, anche per me, le fiabe sono vere. Scrive Calvino che le fiabe «sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza ed al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste…».

Mi emoziona sempre questo scritto visto che a questa conclusione sono arrivata presto e presto ne ho avuto conferma crescendo e attraversando io stessa «la parte della vita che è il farsi di un destino». Scrivendo mi sono ritrovata là, in quella parte di vita, e ho provato ad ascoltare. Non senza sorpresa ho sentito che volevo scrivere a più voci. La scrittura faceva da spola tra fiabe diverse e diversi personaggi e cuciva, cuciva, cuciva e mi restituva un disegno unitario. Il materiale era davvero vivissimo per me, ad alta temperatura, un liquido incandescente. Ho deciso quindi di darmi un limite stretto. Non più di un testo per fiaba, non più di un personaggio. Difficile perché ogni fiaba era affollata e più voci premevano. Ho scelto di ascoltare quelle che affioravano con più prepotenza e mi sono costretta a non forzare mai.

Quando ho finito, la scrittura mi ha lasciato un sentimento duplice che ho trovato descritto perfettamente da Alice Murno in un racconto che mi ha ipnotizzata. «Come certi bambini delle fiabe che hanno visto i genitori stringere patti con strane creature terrificanti scoprendo così che le nostre paure affondano le proprie radici in nient’altro che la verità […], turbata e rinvigorita da quei segreti, non dissi una sola parola».  Turbata e rinvigorita. Scrivere In mezzo alla fiaba, per un po’ mi ha lasciata così. Solo da poco, rigirando in testa l’idea che il libro era quasi pronto, sono andata a riprendere la raccolta di fiabe lette e rilette da bambina. Bene. Quando l’ho trovato e l’ho aperto ho capito da dove era venuta questa sollecitazione a scrivere mettendo in scena delle voci. In apertura di ogni fiaba, una pagina recava il titolo e indicava l’elenco dei personaggi che avrei incontrato leggendo.

Dunque non ho fatto altro che tornare all’inizio, interrogare il fondo, vedere chi, nel bosco scuro che ogni bambino attraversa crescendo, mi aveva parlato all’orecchio e portato in salvo dall’altra parte.

In mezzo alla fiaba, una lama

ho scoperto non è una sorpresa

neppure un reperto. Voce scintilla,

che luccica, vibra, ti può tagliare,

divide, incide, t’insegna a domandare.

 

A trovare, resistere, a scappare,

a tornare, esistere, mai più

sanguinare.



Un ringraziamento a Giovanna Zoboli che non solo ha dato ascolto a questi testi ma li ha accompagnati nel migliore dei modi facendoli incontrare con i colori, le forme e il linguaggio tagliente e vivo di Arianna Vairo. Che di zuccherino ha davvero poco.

Nel cuore dedico questo libro ai miei nonni: Candida e Adriano, Iolanda e Silvio.