Guardandoli meglio, mi piacque in particolare la loro tonalità algida: erano così straniati, assorti, e nello stesso tempo, distratti.
Lisa ha uno stile che mescola realismo e astrazione, una caratteristica narrativamente molto interessante. Ritrae i suoi soggetti con realismo, ma insieme, li equipaggia di un bagaglio di sgomento esistenziale così consistente da collocarli immediatamente in un altrove di evidente matrice metafisica, in cui la realtà sensibile è solo una delle tante possibilità. Il testo per Il topo che non c'era è nato lì, a questo incrocio.
Passato qualche tempo dal corso, durante il quale non le parlai di quel che pensavo delle sue illustrazioni né lei, a sua volta, me ne parlò, le dissi che quei suoi personaggi mi avevano molto incuriosito al punto che mi sarebbe piaciuto provare a pensare a una storia, confezionata ad hoc su di loro. Lisa mi diede il permesso, potevo provare, a sua volta curiosa di quello che ne sarebbe venuto fuori.
Così mi misi al lavoro. Per un po' di tempo mi trastullai con l'idea di una grande casa dove un gatto abitava in solitudine. Fino al giorno in cui trovava un maggiordomo, un topo. Nel corso del tempo, il topo gli riempiva la casa di parenti, portandolo a una lieta pazzia. Ma con questa storia non andavo avanti. Arrivata a un certo punto, anziché pensare a come procedere, mi mettevo a immaginare la casa, a come sarebbe stata: le stanze, le scale, le stoviglie... La cosa dopo un po' mi annoiava, chiaro segnale che non ero sulla strada giusta. Pensando a quei dettagli, poi, avevo anche la netta impressione che non c'entrassero nulla, obiettivamente, con i personaggi di Lisa. Così mi fermai e misi da parte quell'intreccio. Invece di scrivere, quando la cosa mi tornava in mente, riflettevo sul perché quella storia fosse promettente, ma effettivamente sbagliata.
Poi, un giorno, osservando per l'ennesima volta i gatti e i topi di Lisa, mi accorsi di una cosa che fino a quel momento avevo preso per lo sfondo: il bianco.
Il bianco, invece, mi resi conto, era il terzo protagonista in quella vicenda: il luogo in cui i fatti si svolgevano e la condizione mentale dei personaggi che, dentro al bianco, in quell'Altrove così chiaramente indicato, vivevano. Bisognava quindi partire da lì. Dal bianco. Costruire il racconto a partire da lui. Niente case, stanze, mobili, stoviglie. Far entrare il bianco è stato come aprire una porta perché insieme a lui potesse entrare la storia. E la storia si è presentata puntuale, subito, praticamente fatta.
Una volta terminata, Lisa si è messa immediatamente al lavoro con grande concentrazione ed entusiasmo. Anche un po' preoccupata, a dire la verità, soprattutto nei punti in cui, era chiaro, avrebbe dovuto dare corpo a un'escalation topesca di 33+16+27+88+144 esemplari, disegnati uno per uno uno, impegnati a ballare la polka, comprare stivali antipioggia, giocare a carte, sfoggiare giacche a quadretti e andare in autobus. Ma una illustratrice al suo primo libro, ossessionata dalla perfezione come se ne avesse almeno una trentina alle spalle, non si ferma davanti a nulla. Ha disegnato impavida montagne di topi: tutti quelli necessari, tutti quelli che la pazzia felina del protagonista faceva spuntare come funghi in ogni angolo del libro.
Il bianco, rivelando la natura filosofica della vicenda, ha portato con sé anche sei pagine di perfetto silenzio. Un piccolo wordless book, dentro a un libro con le parole. Una breccia in cui far precipitare, insieme ai protagonisti, anche i lettori, togliendo, insieme alle nostre, anche le loro parole. Un posto dove cessare i pensieri e fare bianco completo.
Alla fine, terminata anche questa fase, è entrata in scena Anna Martinucci che ha realizzato la grafica del libro, prendendo anche la decisione di scrivere a mano il testo, facendo così in modo che il bianco mantenesse la propria tridimensionalità, ed evitando che si riducesse a mero spazio in cui inserire le parole. In questo modo la scrittura è diventata una voce dotata di carattere individuale e modulazione esemplare: la forma stessa della narrazione, punto d'incontro, cucitura esatta, visibile e al tempo stesso invisibile, fra immagini e testi.
Schizzi preparatori per Il topo che non c'era, Lisa D'Andrea 2014.
Mentre lavoravamo, infine, tutte e tre abbiamo avuto la sensazione che la storia del topo che non c'era non fosse affatto finita. Da qualche parte e in qualche modo, abbiamo intuito, sarebbe continuata. E infatti così è stato. Il gatto e il topo che non c'era, usciti da questo libro, si sono rincontrati alcuni mesi dopo su quelle che a tutti gli effetti sembrano essere le pagine di un nuovo libro. Ma per ora su questo non possiamo dire di più. Nel frattempo, a oggi, il libro ha trovato tre edizioni straniere a cui, se tutto va bene, se ne aggiungeranno presto altre due.
Buona lettura.
Storyboard per Il topo che non c'era, Lisa D'Andrea 2014.
P.S. Quando Lisa stava lavorando ormai da mesi alle illustrazioni, un giorno abbiamo scoperto che l'ultimo libro di Wolf Erlbruch, uscito alla fine del 2014, si intitolava L'orso che non c'era. Sciagura! Che fare? Avevamo pensato, fin dall'inizio, che il nostro libro si sarebbe intitolato Il topo che non c'era. Panico. Dobbiamo cambiarlo? Ci abbiamo meditato su. Abbiamo anche fatto qualche tentativo di sostituzione. Ma ci siamo rese conto rapidamente che qualsiasi altro titolo non avrebbe funzionato con quella che avevamo pensato subito sarebbe stata l'immagine di copertina: il gatto che si tiene la testa fra le zampe e fissa lo sguardo davanti a sé, verso lo spazio del lettore. Poi ci è venuto in mente che un film del 2001, di Joel ed Ethan Coen, si intitolava L'uomo che non c'era (per non parlare della celeberrina isola che non c'è). Quindi, forse, questo, ci siamo dette, è un titolo, un'espressione che ogni tanto qualcuno adotta perché è indispensabile alla storia. E così ci siamo messe il cuore in pace, e il titolo è felicemente rimasto quello originale.
Schizzi preparatori per Il topo che non c'era, Lisa D'Andrea 2014.