[di Rita Gamberini]
La costruzione dell’identità è un argomento che mi ha sempre spiazzato; persino nel trattare la mia tesi di laurea in psicologia sociale, dedicata alla costruzione dell’identità in un gruppo di adolescenti dell’Appennino modenese, avvertivo un certo disagio che riuscivo a superare di fronte alla commissione deviando brillantemente su una critica feroce alla società del tempo (1978) e portando a casa una immeritata lode. Adesso che ci penso ho fatto lo stesso all’esame di psicologia dell’età evolutiva dove, uscendo confusa dalla lettura di un numero eccessivo di libri, dissi che non ero d’accordo sull’impostazione dell’esame e mi cimentai in un improvvisato e concitato ragionamento sul suicidio degli adolescenti, impressionando non poco il professore, che mi congedò con un bel trenta, forse temendo di intravedere qualche traccia autobiografica in tutto quel parlare. Rassicuro che di autobiografico non c’era nulla.
È semplice, non è che passassi molto tempo china sui libri, testa sul testo, c’era qualcosa di molto più attraente, assemblee, cortei, concerti, rassegne cinematografiche, librerie, negozi di dischi…… e tutto ciò che per una ragazza che dal paese dell’appennino si trova in un baleno per le strade e le piazze di Bologna, rappresenta una felice ubriacatura di libertà.
Ma il disorientamento sulla costruzione, o meglio sulla percezione dell’identità, è stato reale tant’è che ne trovo traccia nel mio amato diario Fragole e Juke box, (di cui ho parlato anche qui), dove il 21 febbraio 1969, nel pieno dei miei ingenui e arrovellati quindici anni, trovavo il coraggio di scrivere: «Certe volte, anche in questi ultimi giorni, mi pongo una domanda che non è esprimibile tanto facilmente, ma ci proverò: Io vivo in mezzo a tanta gente, ma perché io sono io? Perché non potrei essere un’altra, cioè perché io, io? Mi sembra di essere un po’ isolata, ma non nel senso di non avere amiche, una sola cosa non capisco, perché io sono proprio io? So già di non essermi espressa bene, ma forse certe cose le pensano tutti individualmente; può pensare ciò anche la Linda (amica del cuore) ad esempio, ed anche lei potrebbe chiedersi perché io, proprio io, individualmente, personalmente? Bahh!.»
La domanda non era tanto Chi sono io?, ma Perché io sono io? Sapevo quindi chi ero ma non perché ero. E non ho mai osato aprire bocca su questo interrogativo, forse per il timore di trovarmi di fronte a sguardi sconsolati, tipo “con questa ragazzina c’è poco da fare”, o di sentirmi rispondere che io sono io perché sono stata messa al mondo dai miei genitori; ma grazie, che bella scoperta! Fortunatamente all’epoca l’idea di spedire gli adolescenti turbati da qualche “psico esperto” era lontana anni luce, e almeno questa preoccupazione me la sono risparmiata.
Il fatto è che probabilmente sentivo su di me il peso di essere al centro di un mondo che dovevo portare tutto su due gambette davvero troppo esili, che tuttavia si sono mosse agilmente tra divertimento, spensieratezza e curiosità arginando tutti quegli strani pensieri che a quindici anni bussano alla porta.
Poi una sera un sospiro di sollievo, quando nell’atmosfera sospesa di un cinema, mi avvolge una voce da Il cielo sopra Berlino:
Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu? ...Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare?
Per la prima volta la mia domanda non era più sola, immersa nella meravigliosa poesia di Peter Handke, Elogio dell’infanzia, dove non trovo risposte ma indelebili ricordi, visioni.
Quando il bambino era bambino, le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere, ed è ancora così, le noci fresche gli raspavano la lingua, ed è ancora così…
Oggi, a distanza di cinquant’anni da quella pagina di diario, mi sono arresa, la domanda sta ancora lì, potente ma innocua. E a dispetto dell’ossessione identitaria e di tutti gli abusi spregiudicati del termine identità, spesso confezionati ad arte per mistificare isole di appartenenza, creare distanze, trovare nemici, non cerca risposta, semmai si nutre di generosi pensieri. Come questo: L’autore a volte pensa che tutte le presenze racchiuse in una persona costituiscano la di ognuno variegata e misteriosa ricchezza, soprattutto nel campo dell’indagine- e ne ha letizia. (Giuliano Scabia in Le foreste sorelle).
Il cielo sopra Berlino, Germania 1987, di Wim Wenders. Con Bruno Ganz, Peter Falk, Solveig Dommartin, Otto Sander, Didier Flamand. Titolo originale Der Himmel uber Berlin.